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da il Manifesto
- 10 Settembre 2005
Invasioni
di campo
Andrea De Benedetti
Succede in
Brasile. Un uomo di 38 anni strangola il padre in seguito a una violenta
lite familiare. Movente del delitto, una prolunga elettrica, che il giovane
reclamava per poter guardare in tivù la partita della Nazionale
ma di cui la sorella aveva altrettanto bisogno per allacciarvi il cavo
del ferro da stiro. Nel perorare con fervore la causa della figlia, l'anziano
padre avrebbe dato un calcio al televisore, scatenando l'ira del suo erede
che lo ha dapprima colpito in testa con un boccale di birra e poi strozzato
con una cravatta. Da che calcio è calcio, il Brasile è sempre
stato portatore di un fanatismo sui generis, che si esprime non solo e
non tanto ai danni dei rivali di tifo, ma anche e soprattutto in atti
di violenza solipsista commessi contro l'io (a ogni eliminazione ai Mondiali
ci scappa almeno un suicidio) o contro quell'io allargato e conflittuale
che è la famiglia. Famiglia che, in questo caso, appare come la
macabra caricatura di un'istituzione civile, come lo scenario anchilosato
in cui uomini e donne possono recitare fino in fondo il ruolo che è
loro assegnato da un gioco delle parti tenacemente sessista: lui guarda
la partita, lei stira. C'è però anche un padre, che non
si accomoda sul divano con la birra invitando la figlia a tacere, ma ne
prende le difese, finendo col rimetterci addirittura la pelle.
È
questa forse l'unica notizia consolante di una storia che purtroppo non
racconta niente di nuovo sulla nostra specie e sul baratro umano, sociale
e morale che circonda le vite di chi sta ai margini di tutto. Il padre
che si ribella al figlio serve se non altro a spezzare quella complicità
tipicamente maschile che si crea di fronte a una partita di calcio, estrema
roccaforte, insieme con il rutto e i film hard-core, di un'identità
di genere sempre più minacciata dall'allegra e vitale presenza
delle donne in tutte quelle faccende che fino a poco tempo fa riguardavano
solo gli uomini. Appurato che i maschi reagiscono in maniera non proprio
composta a questa invasione di campo, può essere interessante osservare
come reagisce il calcio. I segnali sono contraddittori. Proprio ieri l'attaccante
argentino Carlos Tévez ha affermato che «le partite importanti
non dovrebbero essere affidate a una donna», in evidente allusione
all'incontro perso dal Corinthians (la sua squadra) contro il Sao Paulo,
in cui la terna arbitrale era composta da un direttore di gara uomo e
dalle «bandierine» - chissà che prima o poi non le
chiamino proprio così - Ana Paula de Oliveira e María Elisa
Barbosa. «Non è che le donne non debbano arbitrare - ha poi
aggiunto Tévez - ma noi ci sentiamo più a nostro agio con
gli uomini». Ma Tévez non è il solo a concepire il
campo di calcio come uno spazio esclusivamente maschile. Ci sono addirittura
delle donne che la pensano allo stesso modo. Come Daniela Fini, che qualche
anno fa aveva sostenuto che gli omosessuali non possono diventare bravi
calciatori.
Meglio chiudere
con due soffi di speranza, che arrivano entrambi da una regione cui si
tende ad associare un'immagine di arretratezza e bigottismo spesso immeritata:
l'Andalusia. Il primo è la notizia, raccontata qui a fianco, che
d'ora in avanti nelle categorie regionali le squadre potranno essere costituite
fino a un 50% da donne. Il secondo è un appuntamento ormai tradizionale,
il derby amichevole tra Torredonjimeno e Martos, disputato da calciatori
in gonnellino e destinato a un pubblico esclusivamente femminile. A parti
invertite non sarebbe davvero la stessa cosa.
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