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il manifesto
- 10 Ottobre 2001
Il chador
dei tempi armati
LUANA ZANELLA
Sono convinta
che la ragione di fondo per cui le donne poco partecipano al frastuono
mediatico che dall'11 settembre rischia di ottundere le menti più
che chiarire le idee, sia dovuto all'esigenza, più femminile che
maschile, di trovare uno spazio di dialogo autentico, di pensare e parlare
in relazione, di individuare percorsi che sappiano stare alla straordinarietà
del momento, se è vero, come credo, ciò che Massimo Cacciari
afferma in un intervento pubblicato su Il Gazzettino del 13 settembre:
"E' avvenuto un evento che deve cambiare la nostra mente".
Della necessità di mutamenti soggettivi profondi nei passaggi cruciali,
decisivi, di svolta della civiltà, come quello che stiamo attraversando,
le donne più degli uomini sono consapevoli, per pratica e ragionamento
che ne accompagnano e contraddistinguono vita e politica. Tuttavia, se
parto dalla esperienza di queste settimane, dagli incontri con donne di
Venezia e di altre città, dal mio sentire, colgo anche il desiderio
di mettere in gioco il livello di coscienza acquisito nel corso di un
lavoro politico che, da anni, vede molte di noi operare nell'elaborazione
di pensiero sulla guerra, nella realizzazione di progetti di conoscenza
e convivenza con immigrate, di scambi, promossi anche dalle amministrazioni
locali, con donne dei paesi attraversati dai conflitti, dal terrorismo
e dalla guerra.
E' secondo questo registro che leggo l'urgenza con cui Tiziana Plebani,
Mara Bianca e altre, con le quali ho condiviso la lotta delle Donne in
Nero al tempo della guerra in Iraq, si rivolgono a me, per attivare la
Rete delle Donne per la pace di Mestre e Venezia e presentare al sindaco,
agli eletti e elette, perché se ne facciano carico, un documento
di condanna del terrorismo e di rifiuto della guerra e dei possibili massacri
indiscriminati che l'intervento armato in Afghanistan può causare.
Le centinaia di donne e decine di uomini che rispondono alla chiamata,
dicono di una rete consolidata di persone che si conoscono e operano nelle
diverse parti della città, dalle scuole agli uffici alle parrocchie
alle case. Forti di anni di pratica, di amministrazione, di frequentazione
di "luoghi difficili", di riflessione e confronto, di conoscenza
del mondo acquisita attraverso rapporti, relazioni politiche e anche d'amicizia
(le une non escludendo le altre) con algerine, palestinesi, israeliane,
turche, kurde, bosniache, croate, albanesi, nigeriane, iraniane, e altre
ancora, è più facile, oggi, entrare nel vivo delle contraddizioni
del disordine internazionale. E dar conto e testimonianza della resistenza
e della lotta delle donne lì dove si gioca il possibile salto di
civiltà o il suo definitivo collasso.
Ciò che accade a Kabul, come ad Algeri o in Palestina ci preme,
non da oggi. E' una questione di passione e di necessità. Poco
inclini a farci muovere dall'ideologia e dallo sbandieramento di valori
astratti, procediamo in forza di convincimenti maturati nel vivo dei rapporti,
di esperienze dirette, di forme di empatia. Per me, ad esempio, la comprensione
di un orizzonte del mondo che si allargava e rendeva improvvisamente insensati
confini e demarcazioni nazionali è avvenuta con la tragedia nucleare
di Chernobyl. Mio figlio aveva due anni. Un contatto con la realtà
che prese, per così dire, il mio corpo ancor prima dell'anima,
attraversando il vivo della carne con un'intensità inaudita, catapultandomi
nella dimensione planetaria dei problemi e della mia stessa vita, rendendomi
consapevole che anche i disastri ambientali, come le guerre, colpiscono
e riguardano differentemente uomini e donne. E, soprattutto oggi, ritengo
indispensabile partire dalla differenza tra i sessi per un'analisi realistica
della trasformazione che investe, attraverso processi globali e locali,
il mondo intero.
Tra tante voci di uomini che sono intervenuti sui media italiani, solo
Adriano Sofri pone con chiarezza la questione maschile all'interno del
dibattito sullo scontro tra occidente e islamismo, ("Lettera sulla
civiltà", La Repubblica 28 settembre) che gli consente di
andare in profondità e con una misura più fine allo snodo
cruciale del problema e gli fa dire: "Non abbiamo voglia di guerre
di religione, per sazietà: ci siamo sterminati nelle nostre intestine
guerre di religione fino all'altro ieri. Non abbiamo neanche tanta voglia
di guerre: ci siamo sterminati nelle nostre guerre totalitarie fino a
ieri. Non siamo più così virili: ci siamo effeminati, compimento
(ancora parzialissimo) e svolta insieme dell'intera nostra storia culturale...".
Con il taglio della differenza sessuale anche la lotta contro il fondamentalismo
si illumina diversamente. E' una lotta agita primariamente dalle donne
che affermano il proprio desiderio di libertà e autonomia. Il che
apre un potente conflitto con gli uomini anche non integralisti.
Per fare luce su questa che non è affatto una contraddizione secondaria
nel cammino verso la "modernizzazione" dei paesi poveri e nello
sviluppo delle future relazioni internazionali, l'Università delle
donne di Brescia ha invitato Zazi Sadou, una delle protagoniste della
resistenza contro gli integralisti islamici in Algeria, perché
non venisse dimenticato, in un momento in cui diventa particolarmente
prezioso, il di più di conoscenza, esperienza, pratica, che alle
algerine deriva da un'esperienza di lotta ancora in corso. Dell'intervento
di Zazi Sadou riporto qui sotto alcuni stralci.
In Algeria una donna che lavora su tre è insegnante e la violenza
integralista ha colpito duramente insegnanti e studentesse (ricordo le
11 insegnanti delle scuole di Ain Adden, prese mentre si recavano a scuola
e decapitate). Ha perseguitato e continua a perseguitare intellettuali,
giornaliste, artiste. La cultura è considerata il bene più
prezioso dalle donne, anche le più povere, che si sottopongono
ad ogni sorta di sacrificio pur di garantire un'istruzione adeguata ai
figli e alle figlie. Pensano, come noi d'altronde, che da una buona scuola
dipenda fortemente la speranza di un lavoro, di una vita decorosa, di
un futuro.
L'intelligence - chiamiamola così -, almeno quella di sinistra,
avrebbe dovuto capire, a suo tempo, che la resistenza più dirompente
al regime dei talebani non stava tanto nell'Alleanza del nord, nel vicino
Pakistan o nel monarca in esilio a Roma, quanto nell'indefessa attività
clandestina delle insegnanti che da anni hanno attivato scuole per bambine
nei quartieri di Kabul, delle giovani laureate in medicina che non possono
operare nel proprio paese dove gli ospedali sono interdetti alle donne,
se si eccettuano i centri per la maternità, delle studentesse espulse
dalle università, che dall'esilio non smettono di amare il proprio
paese e organizzano azioni di sensibilizzazione e resistenza al potere
teocratico autoritario.
Leggo sulla stampa di sabato 6 ottobre che l'Enel ha firmato un'intesa
con l'Algeria per la fornitura di due miliardi di metri cubi l'anno di
gas metano, in aggiunta ai quattro, frutto del contratto ventennale stretto
dieci anni orsono. L'Algeria è uno degli stati islamici, come noto,
con cui i paesi dell'occidente, l'Europa, più intrattengono rapporti
commerciali. Il presidente Bouteflika, a buona ragione, può essere
ritenuto uno di quei capi di stati arabi moderati, affidabili, che ha
dimostrato di riuscire ad arginare l'ondata di fondamentalismo, da cui
l'Algeria è stata violentemente investita. Ha garantito così,
seppur con metodi discutibili secondo i nostri democratici e occidentali
criteri, l'ambiente esterno favorevole allo svolgimento degli scambi e
degli affari. L'estremismo islamico, con la sua potente forza destabilizzante
e antioccidentale, è per il momento tenuto sotto controllo. Anche
scendendo a patti.
Sono state più di 100.000 le persone assassinate dai gruppi armati
islamici, migliaia le donne violentate, ridotte a bottino di guerra, assieme
alle figlie e ai figli. Lo stupro, a partire dal '94 è divenuto
strumento di repressione. Lo stupro legittimato dalle "fatwas"
emanate dagli emiri del Fis (Front Islamique du Salut), non è riconosciuto
dal potere pubblico come reato di guerra, e ciò lascia nell'insignificanza
il torto subito, non dà diritto a risarcimento, né tantomeno
al reintegro nella società delle vittime, rifiutate anche dalle
famiglie. Così come è mantenuto in vigore un codice di famiglia
fortemente discriminatorio nei riguardi della donna, incostituzionale,
ma che incontra il favore del conservatorismo islamico.
La legge imposta da Bouteflika "della concordia civile", che
ha amnistiato i terroristi e cancellato perfino i reati commessi dai capi
di gruppi terroristici che hanno ammazzato centinaia di persone, ha aperto
una ferita profonda nel corpo sociale, aggredito da oltre 10 anni di violenza
integralista. Sono ancora una volta le donne, in prima fila, a chiedere
e pretendere giustizia, indignate a causa della facilità con cui
sull'altare della convenienza e del compromesso sono stati sacrificate
non solo la loro libertà, le loro giuste aspettative, ma gli stessi
principi di base di uno stato democratico. Da tre anni l'associazione
Raft (Rassemblement Algérien des femmes démocrates) ha istituito
il "premio della resistenza delle donne contro l'integralismo e la
dimenticanza" che viene assegnato a coloro che "alimentano il
nostro coraggio e la nostra memoria".
Senza un'autorità civile, secondo Lutero, citato da Jean Delumeau
nel supplemento culturale de Il Sole 24 ore del 7 ottobre, nessun uomo
potrebbe stare in compagnia di un altro. "Inevitabilmente si divorerebbero
a vicenda". Ma senza autorità femminile, è questo l'
insegnamento di Zazi Sadou, c'è il rischio che nemmeno un'autorità
autenticamente civile si possa affermare.
E' il pericolo che l'umanità tutta, maschile e femminile, corre,
ora che guerra e relativa propaganda tenderanno a imprigionare e occultare,
ovunque, con un immenso tchadri simbolico le ragioni delle donne.
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