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11 Gennaio 2002
Una
lingua senza naufragio
"Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio", l'ultimo
libro della filosofa Chiara Zamboni. Per Liguori Editore
MONICA FARNETTI
C' è
un libro (fra altri) che mi ha sempre angosciato, Naufragio con spettatore
di Hans Blumenberg, dove la luttosa metafora, derivata da Lucrezio, di
una morte per acqua scortata dallo sguardo cinico di chi gode per contrasto,
da una riva lontana, della propria salvezza è assunta nientemeno
che a "paradigma dell'esistenza". Nulla mi andava di quel "paradigma":
né che il mare fosse senz'altro luogo di morte né che lo
spettatore non avvertisse alcun istinto di soccorso né, tantomeno,
che del disastro filosoficamente godesse, né infine che si parlasse
di "paradigma", e che ci venisse suggerito che quell'orribile
scena ci riguardava tutti. Ma mi sono occorse molte letture per argomentare
il mio rifiuto, e più di tutte quella del nuovo libro di Chiara
Zamboni, Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio (Liguori
Editore, pp. 157, L. . 24.000), che della metafora lucreziana a suo modo
fa giustizia e, per quanto mi riguarda, di quell'angoscia mi libera.
In questo libro, dove il mare è l'immagine del tema principale,
il linguaggio, e specificamente della differenza del e nel linguaggio
fra donne e uomini, non c'è naufragio, infatti, ma semmai l'offerta
di una serie di potenti mezzi di salvataggio, che corrispondono ai diversi
modi di abitare nel linguaggio stesso: di nuotarvi, anzi, visto che in
esso siamo immersi e nuotiamo - parliamo - di necessità, e senza
intenzione, giusto per non andare a fondo (anche se poi "a fondo",
molto "a fondo", in questo libro metaforicamente si va). Si
nuota quindi - si parla - perché "squilibrati e senza luogo
protetto in cui ritirarci", scrive Chiara Zamboni nell'Introduzione,
"intessuti" come ci ritroviamo nella situazione che cerchiamo
di rendere significativa. Ma questo "squilibrio", in cui si
riconosce chi parla da donna della differenza fra donne e uomini, non
è uno smacco alla geometria né all'armonia delle sfere e
alla loro musica perfetta; non è, per l'appunto, fonte di angoscia
ma semmai di allegria. Perché, stando così le cose ovvero
i soggetti, galleggianti nell'oceano del linguaggio e presi nella coincidenza
fra il dire e il fare, si ha "un pensiero che nasce a partire dall'esperienza
e dalla sua verità e che vi ritorna con testardaggine. Un pensiero
che si apre all'interno dell'esperienza del vivere". Di qui la portentosa
"allegria della mente" (formula così assonante ma così
diversa dalla "felicità mentale" degli antichi poeti,
di Cavalcanti o di Dante, che era un'avventura dell'"intelligenza"
nel senso più ristretto del termine, una visione tecnica, estatica
e intellettuale dell'amore e della poesia). Di qui dunque quell'allegria
pervasiva, che ci inonda e fa sì che il parlare valga la pena;
che "sorge là dove la disposizione del reale si trasforma"
mentre irrompono "modificazioni improvvise dell'essere segnalate
da nuovi simboli"; allegria che si genera sostanzialmente da "parole
antiche adoperate in modo nuovo".
E' qui, credo, il nucleo del libro, e insieme dell'orizzonte di pensiero
che lo ospita e di tutto il lavoro sul linguaggio che lo precede: un lavoro
che, assieme alla comunità filosofica di Diotima, Chiara Zamboni
ha portato avanti sempre (e chi ha partecipato almeno una volta ai suoi
seminari lo sa bene) con concentrazione, energia e magistrale sapienza.
E' nell'impresa della risignificazione delle parole antiche (vista peraltro,
molto pragmaticamente, la difficoltà di inventarne sempre di nuove)
che si fonda la possibilità di un linguaggio della differenza,
che dica e significhi l'esperienza per come nella differenza è
vista e sentita. Il segreto del risignificare, di far rinascere le parole
a nuova vita, sta proprio nel pensare il linguaggio come il mare e nel
praticarlo come il nuoto, nel vederlo come pratica e nel pensarlo nella
pratica stessa, nel corso dell'esperienza delle cose e degli altri e delle
altre. Le parole così si rinnovano, ovvero rinnovano il mondo,
perché lo dislocano e indicano, scrive Chiara, "una nuova
densità dell'essere, di cui partecipiamo". E non si consumano,
perché non si sovrappongono a quello che viviamo e dunque non le
segnerà la fatica di quel carico.
Il linguaggio-acqua marina, fatto di parole che senza consumarsi, con
leggerezza, toccano il mondo e l'"altro" mondo, la coscienza
e l'inconscio, il reale e i suoi inquietanti dintorni, è dunque
un linguaggio degno di essere vissuto. E' un'eccedenza, un dono, un canto,
un gioco, un'emozione, una magia, un'allegria. Lo dicono, con "parole"
di volta in volta diverse - parole-chiave, che si dimostrano tutte strettamente
solidali e che compongono un compatto thesaurus in miniatura -, oltre
all'introduzione tutti e cinque i capitoli del libro. A cominciare dal
primo, bellissimo, su Walter Benjamin riletto a partire dalla beatitudine
nominalistica e descrittiva dei suoi anni infantili, di quando praticava
la paradisiaca, magica lingua "della domenica": la lingua materna,
vicina alle cose e sensualmente così travolgente da segnare in
seguito tutto il suo percorso intellettuale e politico. Il secondo capitolo
è dedicato invece a Françoise Dolto e all'esperienza del
desiderio, della sua messa in movimento e della sua dicibilità.
Il terzo capitolo è intitolato La lingua gioca col mondo, e raccorda
tutti i lemmi del lessico - allegria e magia, canto e controcanto, emozione,
dono ed eccedenza - nella dimensione materiale, avvolgente e letteralmente
esplosiva del gioco.
Segue il quarto capitolo sul Parlare di donne e uomini nel mondo, essendo
una donna, nevralgico per la dimensione politico-filosofica su cui dichiaratamente
si concentra, dedicato al tema-principe della relazione. Qui è
la testimonianza di Mary Daly che ci aiuta ad accettare lo squilibrio
del linguaggio di cui si diceva, e a rilanciare in positivo la mancanza
di un linguaggio che ci rappresenti in quanto donne: insistendo (in Al
di là di Dio Padre, e poi in altri suoi testi) sulla provvidenzialità
dello squilibrio, fertile di fatto di creatività e di pensiero,
e sull'importanza, più che non delle parole in se stesse, del contesto
in cui sono scelte, adoperate e fatte proprie. L'ultimo capitolo, il mio
preferito, è infine una sorta di magnifico corollario a questa
serrata apologia dello squilibrio, e a questa messa a fuoco del contesto
emozionale delle parole. Intitolato Brillio dell'essere, è dedicato
a Virginia Woolf, alla sua definizione dei "momenti di essere"
e alla sua suprema pratica della conversazione, profondamente orientata,
al pari della sua scrittura, da quegli stessi "momenti" estatici
e sensuali di esperienza della realtà. E' questo non per caso il
capitolo più letterario del libro: potenza della metafora, e di
quella in particolare, il "brillio dell'essere", che dà
scintillanza all'idea centrale del linguaggio, nell'accezione della conversazione,
come eccedenza che supera il semplice "stare insieme", e che
porta senza deviazioni nell'ambito del dono. Conversare è un dono,
nel senso che è farsi dono (fare dono di sé, darsi in una
relazione in presenza) e farsi un dono, regalarsi la possibilità
di conoscere, attraverso la ricerca di intensità che il conversare
comporta, il proprio desiderio e i suoi orientamenti. Nella conversazione
l'essere parla ed è presente e la sua presenza accanto all'altro
o all'altra scintilla: di desiderio, di verità, di emozione.
E' qui, forse, ciò che più di tutto mi sta a cuore in questo
libro: la possibilità che si diano linguaggi - e scritture - che
sfuggono alla teoria severissima dell'"autonomia del significante",
in base alla quale fra la parola e la cosa c'è sempre e sempre
rimarrà una lacuna incolmabile. Chiara Zamboni, recuperando il
Peirce non a caso più censurato, rimette in discussione l'influenza
dell'oggetto sul linguaggio, la sua attività nel processo del significare
e la sua viva partecipazione all'universo dei segni. Ci si apre così
all'ascolto, e alla lettura, di innumerevoli linguaggi nei quali sentiamo
senz'ombra di dubbio che il "significante" non è vuoto,
che non può esser vero che i segni rimandino solo ad altri segni
(e i libri ad altri libri), né che parlare e scrivere sia necessariamente
un prendere congedo dal reale. Quando l'essere brilla (di emozioni, o
passioni, di desiderio, di "verità") la lingua brilla
a sua volta, e quel brillio contagia chi legge e ascolta e così
via all'infinito. I "segni" e i loro "oggetti" circolano
intrecciati, c'è traccia pesante di questi in quelli, e le parole
e la vita si fanno compagnia.
Il segreto è nella conversazione, è - una volta di più
- nella relazione: una relazione "di fiducia", come l'autrice
non manca di precisare, con una definizione indispensabile per tappare
finalmente la bocca anche a Lacan. Giacché se è vero che
c'è "un godimento femminile ... che rimane muto", come
ripete a sufficienza il Seminario XX, è vero anche, afferma Chiara
Zamboni, che "la pratica del venir chiamate a dire in una relazione
di fiducia, nella quale sia in gioco un incommensurabile al legame, apre
al parlare dell'esperienza, in quanto portatrici di un particolare accesso
all'essere e al suo godimento". Ma più che sul rapporto specifico
fra parola e godimento vorrei chiudere sul rapporto più generale
fra parole e cose: la cui classica contrapposizione, o scorporazione,
ci ha impedito tante volte di render conto di noi stesse nonché
delle nostre scrittrici più amate. Mentre invece immaginare in
qualche forma una loro intimità, ammettere il loro toccarsi, improvvisamente
ci restituisce voce e parola, e per soprammercato anche il mondo della
letteratura femminile.
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