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Manifesto 11 febbraio 2012
Nuove genealogie per il Risorgimento
Di
Nadia Maria Filippini Il
ruolo attivo delle donne nella stagione risorgimentale è al centro di molti
studi usciti per i 150 anni dell'Unità d'Italia. Ne emerge un quadro complesso,
che, alla luce della differenza, ridisegna la rappresentazione della nostra storia
nazionale Quando Garibaldi arrivò a Napoli nel 1860, ad accoglierlo
tra i primi, con lo scialle sulle spalle e il pugnale alla cintura, c'era Marianna
De Crescenzo, detta la Sangiovannara, patriota combattente, che era stata a capo
di uno squadrone di armati durante l'insurrezione. Nel suo esercito peraltro aveva
combattuto non solo Anita, ma anche Tonina Marinello Masanello, accorsa volontaria
dal Veneto con il marito (decorata sul campo), come Colomba Antonietti nella difesa
della Repubblica romana del '49, che si scoprì essere donna solo dopo la
morte. E pure la nobildonna Felicita Bevilacqua avrebbe voluto esser tra i Mille,
se il futuro marito, Giuseppe La Masa, non glielo avesse impedito, imponendole
- come essa gli rimproverava nelle lettere - di «sacrificare» i suoi
slanci e le sue volontà più profonde. Sono alcuni dei volti
e dei fatti che vengono messi in luce dai vari libri dedicati alle donne e Risorgimento,
usciti in occasione delle celebrazioni dei 150 anni: biografie del tutto cancellate
da una rappresentazione storica che aveva marginalizzato le donne, offuscandone
la presenza, o rimodellandone gli aspetti divergenti, in una operazione di vera
e propria «plastica biografica» tesa a riportare la partecipazione
femminile entro i canoni dei modelli tradizionali, confermando precise gerarchie
di genere anche nella costruzione dello stato nazionale. Al centro della scena
risorgimentale erano rimasti solo i «fratelli», con le loro spade
«affilate nell'ombra», uniti dal giuramento di libertà o morte,
lanciati in battaglia a offrire i loro corpi in sacrificio alla madre-patria;
mentre le «sorelle» stavano intente a pregare ai piedi dell'altare
o chiuse nelle case a cucire le loro divise e le bandiere, come le raffigurano
i pittori macchiaioli. Riscritture radicali Una rappresentazione cementata
da un'enfasi retorica (analizzata alcuni anni fa da Alberto M. Banti) che ha pervaso
la nostra cultura otto-novecentesca, dalla letteratura alle arti, dalla lirica
al teatro), arrivando quasi intatta fino agli anni Sessanta, complice una corrente
storiografica ben radicata in Italia, che privilegiava gli aspetti politico-militare-diplomatico
(contraddistinti appunto da una presenza monosessuale maschile), rispetto a quelli
sociali e culturali. Nulla di nuovo certo nella storia delle donne: a stupire
è semmai la pervasività di un processo di marginalizzazione che
riflette le gerarchie e l'ordine simbolico su cui si fonda il patriarcato. E tuttavia
di questo passaggio storico non può sfuggire la particolare rilevanza simbolica
e i riflessi in termini di cittadinanza. Perché la marginalità delle
donne dall'atto fondativo dello stato nazionale diventa presupposto e pretesto
di una loro marginalità dalla sfera politica, come apparve chiaro fin da
subito all'indomani dell'Unità, con l'esclusione delle donne dalla cittadinanza
politica, intrecciata a una netta subordinazione nella sfera familiare, sancita
dai codici, funzionale a questo stesso ordine, essendo lo stato concepito appunto
come aggregazione di famiglie più che di singoli. La riscrittura radicale
di questo importante capitolo di storia in un'ottica di genere, non è cominciata
in questi giorni - è bene precisarlo; è iniziata in sede storica
e filosofica con quella «critica femminista alla storia» avviata dal
movimento delle donne negli anni Settanta, volta non ad aggiungere qualche capitolo
mancante alla storia generale, ma a ridisegnare integralmente la rappresentazione
storica alla luce della differenza. Vanta una tradizione di studi e di ricerche
più che ventennali. Aspettative di genere Tuttavia un merito di
questa ricorrenza è quello di averne accelerato alcuni percorsi, di averla
valorizzata e divulgata con la promozione di eventi, spettacoli teatrali o mostre
storico-documentarie; di aver animato un dibattito che si è articolato
in centinaia di seminari e convegni, organizzati un po' dovunque sul territorio
nazionale, dentro e fuori l'università; di aver fatto fiorire opere destinate
ad un pubblico più vasto (Donne del Risorgimento e due volumi con lo stesso
titolo, Sorelle d'Italia). Tutto ciò malgrado le scarse risorse e lo sbilanciamento
nella destinazione dei fondi per il 150°, che ancora una volta ha penalizzato
le associazioni femminili. Il quadro che ne emerge ridisegna radicalmente
la rappresentazione tradizionale, anche se la tendenza a fare una storia aggiuntiva,
scandita da medaglioni, risulta ancora lunga a morire, pure al di là delle
intenzioni, come risulta dallo stesso sito ufficiale del centocinquantenario.
La ricerca storica, oltre a correggere svarioni biografici e illuminare presenze
marginalizzate (come quella di Cristina di Belgiojoso, la Prima donna d'Italia),
si è piuttosto interrogata sulle modalità collettive di partecipazione
delle donne al Risorgimento, sui processi messi in atto in termini di soggettività,
sulle aspettative di genere intrecciate alla creazione dello stato nazionale,
sulle varietà e le differenze interne al mondo femminile. Tutto ciò
a partire dall'assunto di un Risorgimento inteso in primis come percorso di rinnovamento
civile e culturale, da inquadrare nel Romanticismo europeo, come processo di formazione
di identità nazionale, linguaggi, culti e simboli (come sottolineato da
Banti e Ginsborg). E ancora come azione di popolo, non solo di ministri o generali,
con una attenzione particolare all'«altro risorgimento»: quello democratico-insurrezionale.
È all'interno di questa prospettiva che la presenza delle donne emerge
con evidenza e acquista una rilevanza cruciale, perché questi furono i
campi precipui della loro azione: dall'educazione alla diffusione dei sentimenti
e delle emozioni (così importanti in questa, come in altre rivoluzioni);
della salvaguardia delle memorie al culto della patria, dalla testimonianza alla
costruzione di reti associative, le patriote profusero un'azione capillare e incisiva,
quanto sommersa, che andò a smuovere l'immobilità, a disegnare una
diversa prospettiva civile e politica, a tessere l'unità a partire dalla
quotidianità, a costruire l' alfabeto della comunità nazionale. Basta
pensare al valore politico (più che letterario) di tanta produzione poetica
femminile, all'uso sociale di questa poesia patriottica, all'organizzazione di
circoli femminili (come le poetesse Sebezie di Napoli), all'indefessa attività
e al successo di improvvisatrici come Giannina Milli, ricostruiti nel libro di
Maria Teresa Mori (Figlie d'Italia). Basta leggere le pagine di diario, gli appelli,
i proclami, gli articoli di giornale, le lettere pubblicate nelle recenti raccolte
di documenti, per veder illuminata questa rivoluzione silenziosa che attraversava
le famiglie, le genealogie, le reti di vicinato (come aveva ben evidenziato nell'Ottocento
la scrittrice Luigia Codemo, nel romanzo La rivoluzione in casa). Sguardi
e parole E tuttavia sarebbe sbagliato e riduttivo circoscrivere la partecipazione
delle donne al Risorgimento al solo piano culturale, riproponendo in veste aggiornata
antichi stereotipi. Le donne ebbero una presenza attiva anche nella cospirazione
e nell'attività insurrezionale: «giardiniere» prima e affiliate
alla Giovane Italia poi, furono l'anima delle insurrezioni, mobilitate assieme
agli uomini, a costruire barricate, a fare da vivandiere, a confezionare cartucce,
ad allestire infermerie e ospedali da campo appena al di là del linee di
combattimento, a promuovere collette patriottiche. L'importante ricerca sulle
fonti femminili condotta negli archivi milanesi, anche sui processi politici (Gli
archivi delle donne 1814-1859, a cura di Maria Canella e Paola Zotti), ha portato
alla luce centinaia di nomi di inquisite per attività cospirativa, a dimostrazione
di quanto fertile e ancora in parte inesplorato risulti il terreno delle ricerche
d'archivio. E quanto significativa sia stata la presenza delle donne nelle repubbliche,
lo ha ben evidenziato, ad esempio, la mostra organizzata a Venezia dal Consiglio
regionale del Veneto, sotto la direzione di Mario Isnenghi (ora nel catalogo La
differenza repubblicana. Volti e luoghi del '48-'49 a Venezia e nel Veneto). Ma
per mettere a fuoco pienamente questa presenza, lo sguardo e le motivazioni che
l' accompagnavano, occorre partire dai soggetti stessi: dai loro sguardi e dalle
loro parole. Non è un caso che ben quattro dei volumi pubblicati si presentino
come raccolte di testimonianze e voci delle protagoniste (documenti e opere letterarie,
accompagnate da ritratti e fonti iconografiche): quello curato da Laura Guidi
per il sud (Il Risorgimento invisibile), dalla sottoscritta e Liviana Gazzetta
per il Veneto ( L'altra metà del Risorgimento ), da Marina D'Amelia (Oh
dolce patria), da Alberto M. Banti (Nel nome dell'Italia), dove le voci femminili
s'intrecciano a quelle maschili e quelle di personaggi famosi ad altri sconosciuti.
Differenti declinazioni Queste raccolte di fonti, oltre a mettere in luce
un'acuta capacità di giudizio politico, consentono anche di analizzare
più adeguatamente due aspetti che sono al centro della riflessione storica
recente: le aspettative di genere legate alla costruzione dello stato nazionale
e le differenze interne al mondo femminile, troppo spesso presupposto come omogeneo
e monocorde (altro stereotipo lungo a morire!). Che la partecipazione al Risorgimento
sia stata per molte liberali fattore di innesco di nuove forme di identità
e consapevolezza di diritti, è un dato da tempo assodato e confermato dalle
ricerche, ma le differenze anche tra le patriote risultano assai più profonde
di quanto ipotizzato. Se per tutte a incarnare il nuovo modello femminile è
la figura della madre-cittadina (un modello alla cui costruzione esse stesse concorrono
attivamente), le sue declinazioni politiche si divaricano in direzioni diverse:
per molte il rilievo civile e morale di questa figura rimane circoscritto alla
sfera familiare e alla funzione educativa, pur nella rilevanza che questa acquista
nel nuovo stato liberale; per altre (poche) questa figura diventa leva di rivendicazione
di diritti civili e politici, in un'ottica che intreccia autorevolezza morale
e parità giuridica, differenza e uguaglianza. Diritti rivendicati Si
tratta di prospettive divergenti, sulle quali incidono molteplici fattori: appartenenze
politiche, genealogie familiari, ma anche vicende e esperienze particolari, contesti
e luoghi. La «differenza repubblicana» emerge qui con forza, non solo
come orientamento di pensiero, ma come spinta a una mobilitazione popolare che
porta sulla scena pubblica donne di diverse classi sociali, a sperimentare forme
di azione e partecipazione e perfino incarichi pubblici (come succede per l'assistenza
ai feriti a Venezia, con Elisabetta Michiel Giustinian e Teresa Mosconi Papadopoli
o a Roma, con Cristina di Belgiojoso ed Enrichetta Di Lorenzo). Non è un
caso che in queste esperienze del 1848/'49 fioriscano i primi giornali scritti
interamente da donne, dalla «Tribuna delle donne» (Palermo), a «Il
Circolo delle donne italiane» (Venezia), a riprova di come l'impegno politico
si traduca anche in consapevolezza e rivendicazioni di diritti, in un «risorgimento
delle donne e della nazione», come scrivono le palermitane. Né
è accidentale il fatto che proprio a Venezia si organizzi la prima manifestazione
suffragista d'Italia, in occasione del plebiscito del 1866, con tanto di documenti
di protesta inviati al re, o che i primi Comitati per l'emancipazione delle donne
italiane siano stati promossi da repubblicane (come quello di Napoli, a sostegno
dei disegni di legge per l'estensione del suffragio di Salvatore Morelli). Dalle
fonti traspare anche un altro aspetto importante: il rapporto che lega le masse
femminili alla Chiesa e il suoi riflessi nella storia delle donne e del Risorgimento:
dall'entusiasmo iniziale per le aperture di Pio IX, il «papa liberale»,
che smuove le incerte e prefigura come «santa» la guerra di liberazione,
al disorientamento di fronte al suo voltafaccia, che spinge alcune a una riflessione
più articolata sulle necessità di rinnovamento spirituale della
Chiesa; altre invece (come Nina Serego Allighieri o Giulia Caracciolo) verso un
anticlericalismo più marcato (altro aspetto poco indagato). Ma interrogarsi
sul Risorgimento vuol dire anche fare i conti con l'anti-risorgimento delle donne:
con le cattoliche non liberali, per le quali l'unico riferimento rimase la Chiesa
e l'unica patria quella celeste, o le brigantesse, che furono - come sottolinea
Laura Guidi - non solo «manutengole», ma componenti a pieno titolo
delle bande. L'involuzione moderata Il mondo silenzioso delle prime è
attraversato da un fremito quando la «questione romana» si pone con
forza e il Sillabo Quanta (1864) sancisce una spaccatura radicale con lo stato
liberale; si fanno esercito attivo in difesa della Chiesa, dando vita, in molte
realtà del Veneto all'inizio degli anni '70, alle Società delle
donne cattoliche per gli interessi cattolici e promuovendo ovunque iniziative
devozionali ed educative volte a contrastare il processo di secolarizzazione.
Muove da qui quella divisione interna al mondo femminile destinata ad avere
così pesanti ripercussioni anche sul movimento di emancipazione italiano,
e a sfociare nella spaccatura del Congresso nazionale delle donne italiane del
1908, seguita dalla creazione dell' Unione Donne cattoliche, voluta da Pio X in
funzione anti-emancipazionista. Tuttavia anche molte liberali, conclusa la
fase risorgimentale («il tempo della poesia», come scriveva Ermina
Fuà Fusinato), divenute parte della classe dirigente, si attesteranno su
posizioni moderate, assumendo un ruolo pubblico di educazione sì, ma anche
di disciplinamento delle donne, che incanala le istanze di cambiamento serpeggianti
nel mondo femminile in forme più domestiche e consone ai ruoli sessuali
prefigurati dal codice civile Pisanelli. Eccole dunque a distinguere tra patriottismo
e politica, disegnando campi d'azione diversificati per genere; eccole a delimitare
il concetto di emancipazione entro precisi steccati prefigurati da differenze
«naturali» stabilite dalla Provvidenza ; a redarguire come «scalmanate
emancipatrici» quante avevano l'ardire di rivendicare pienamente i diritti
civili e politici, da Anna Maria Mozzoni a Gualberta Alaide Beccari. Quanto
abbia pesato in questa involuzione moderata l'esser divenute parte della classe
dirigente, con incarichi pubblici anche rilevanti nel campo dell'educazione, un'omologazione
al nuovo clima politico, e perfino una lettura del pensiero di Mazzini in chiave
conservatrice, decisamente sbilanciata sui doveri (come sembra suggerire la lettura
del recente libro di Simon Levis Sullam, L'Apostolo a brandelli. L'eredità
di Mazzini tra Risorgimento e fascismo, 2010), rimangono interrogativi del tutto
aperti. La debolezza dell'Italia nel panorama emancipazionista europeo invece
resta un dato di fatto fino allo snodo del secolo, come sottolineava con amarezza
Sibilla Aleramo. Progressi e regressi Quello che è certo è
che il significato e il valore di questa fase storica cruciale non può
essere pienamente colto e analizzato in un'ottica di genere, se non inquadrandolo
in una prospettiva diacronica che consenta di cogliere alla distanza guadagni
e perdite, radici e sviluppi, assonanze e contrapposizioni, progressi e regressi
nel succedersi delle generazioni. È quanto ha cercato di fare la Società
Italiana delle Storiche nell'importante convegno nazionale Di generazione in generazione.
Le italiane dall'Unità ad oggi (Firenze, 24-25 novembre 2011), mettendo
a confronto storici/che, sociologi/ghe, letterati/e. Perché è da
questo percorso complessivo che bisogna partire per capire meglio il presente.
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