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il Manifesto
- 11 novembre 2004
Yasser
Arafat, l'uomo che ha guidato un popolo senza terra
Per il suo coraggio si è guadagnato l'amore dei palestinesi. Israele
perderà un grande nemico, che sarebbe potuto diventare un grande
alleato. Io l'ho ammirato e compreso, ho visto in lui il partner per costruire
un futuro per i nostri due popoli
di URI AVNERY
Ovunque venga
sepolto al momento del trapasso, verrà il giorno in cui i suoi
resti saranno trasferiti da un governo palestinese libero nei luoghi sacri
di Gerusalemme. Yasser Arafat fa parte della generazione dei grandi leader
sorti dopo la seconda guerra mondiale.
La statura
di un leader non è determinata semplicemente dalle dimensioni dei
risultati raggiunti, ma anche dalle dimensioni degli ostacoli che ha dovuto
superare. Sotto questo aspetto, Arafat non ha rivali al mondo: nessun
altro leader della nostra generazione è stato chiamato ad affrontare
delle prove così crudeli, e a lottare contro tali avversità.
Quando apparve
sul palcoscenico della storia, alla fine degli anni `50, il suo popolo
era prossimo ad essere dimenticato. Il nome Palestina era stato sradicato
dalla carta geografica. Israele, la Giordania e l'Egitto si erano divisi
il paese tra di loro. Il mondo aveva deciso che non c'era nessuna entità
nazionale palestinese, che il popolo palestinese aveva cessato di esistere
come le nazioni degli indiani d'America - ammesso che fosse esistito davvero.
La palla
tra i regimi arabi
All'interno
del mondo arabo la "causa palestinese" veniva ancora citata,
ma serviva solo come palla da rimpallare tra i regimi arabi. Ciascuno
di essi cercava di appropriarsene per i suoi interessi egoistici soffocando
brutalmente, allo stesso tempo, qualsiasi iniziativa palestinese indipendente.
Quasi tutti i palestinesi vivevano sotto delle dittature e, nella maggior
parte dei casi, in circostanze umilianti.
Quando Yasser
Arafat, all'epoca un giovane ingegnere in Kuwait, fondò il "Movimento
per la liberazione della Palestina" (le cui iniziali alla rovescia
formavano il nome Fatah), egli intendeva prima di tutto la liberazione
dai vari leader arabi, così da mettere in grado il popolo palestinese
di parlare e agire autonomamente. Questa fu la prima rivoluzione dell'uomo
che, nel corso della sua vita, ha realizzato almeno tre grandi rivoluzioni.
Era una rivoluzione
pericolosa. Fatah non aveva una base indipendente. Doveva funzionare nei
paesi arabi, spesso subendo persecuzioni spietate. Un giorno, ad esempio,
l'intera leadership del movimento, compreso Arafat, fu gettata in prigione
dal dittatore siriano del giorno, dopo avere disobbedito ai suoi ordini.
Solo Umm Nidal, la moglie di Abu Nidal, restò libera e così
fu lei ad assumere il comando dei combattenti. Quegli anni ebbero una
influenza formativa sullo stile caratteristico di Arafat. Egli doveva
destreggiarsi tra i leader arabi, metterli l'uno contro l'altro, ricorrere
a trucchi, mezze verità e discorsi ambigui, sfuggire alle trappole
e aggirare gli ostacoli. Diventò un campione mondiale di manipolazione.
Così salvò il movimento di liberazione da molti pericoli
nei giorni della sua debolezza, finché esso non poté diventare
una forza potente.
L'emergente
forza palestinese indipendente preoccupò Gamal Abd-al-Nasser, il
capo egiziano che all'epoca era l'eroe dell'intero mondo arabo. Per soffocarla
in tempo, egli creò l'Organizzazione per la liberazione della Palestina
(Olp) e mise alla sua testa un mercenario politico palestinese, Ahmed
Shukeiri. Ma dopo la vergognosa disfatta degli eserciti arabi nel 1967
e l'elettrizzante vittoria dei combattenti di Fatah contro l'esercito
israeliano nella battaglia di Karameh (marzo 1968), Fatah prese il controllo
dell'Olp e Arafat diventò il leader indiscusso dell'intera lotta
palestinese.
A metà
degli anni `60, Yasser Arafat cominciò la sua seconda rivoluzione:
la lotta armata contro Israele. La pretesa era quasi ridicola: una manciata
di guerriglieri male armati, non molto efficienti in questo, contro la
potenza dell'esercito israeliano. E non in un paese di giungle impenetrabili
e catene montuose, ma in un fazzoletto di terra piccolo, piatto, densamente
popolato. Ma questa lotta impose la causa palestinese all'agenda mondiale.
Va detto francamente: senza gli attacchi omicidi, il mondo non avrebbe
prestato attenzione alla domanda di libertà dei palestinesi.
Il risultato
fu che l'Olp fu riconosciuto come il "solo rappresentante del popolo
palestinese", e trent'anni fa Yasser Arafat fu invitato a tenere
il suo storico discorso all'assemblea generale dell'Onu: "in una
mano ho un fucile, nell'altra un ramo di ulivo".
Per Arafat,
la lotta armata era semplicemente un mezzo, nient'altro. Non un'ideologia,
non un fine in se stesso. Gli era chiaro che questo strumento avrebbe
rinvigorito il popolo palestinese e conquistato il riconoscimento del
mondo, ma non avrebbe sconfitto Israele.
La guerra
dello Yom Kippur dell'ottobre 1973 causò un'altra svolta del suo
atteggiamento. Egli vide come gli eserciti dell'Egitto e della Siria,
dopo una brillante vittoria iniziale ottenuta grazie alla sorpresa, erano
stati fermati e, alla fine, sconfitti dall'esercito israeliano. Questo
lo convinse infine che non era possibile avere la meglio su Israele con
la forza delle armi.
Perciò,
immediatamente dopo quella guerra, Arafat cominciò la sua terza
rivoluzione. Decise che l'Olp doveva arrivare a un accordo con Israele
e accontentarsi di uno stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia
di Gaza.
Due passi
avanti, uno indietro
Questo lo
mise di fronte a una sfida storica: convincere il popolo palestinese a
rinunciare alla sua posizione storica di negazione della legittimità
dello stato di Israele, e ad accontentarsi di un mero 22% del territorio
della Palestina anteriore al 1948. Senza che fosse dichiarato esplicitamente,
era chiaro che questo comportava anche la rinuncia al ritorno illimitato
dei profughi nel territorio di Israele.
Arafat cominciò
a lavorare a questo obbiettivo nel suo modo caratteristico, con tenacia,
pazienza e stratagemmi, due passi avanti, uno indietro. Quanto immensa
sia stata questa rivoluzione, lo si può vedere da un libro pubblicato
dall'Olp nel 1970 a Beirut, che attaccava violentemente la soluzione con
due stati (chiamata "il piano Avnery", perché io ero
all'epoca il suo principale promotore.)
Giustizia
storica vuole che si affermi chiaramente che fu Arafat a pensare l'accordo
di Oslo, in un'epoca in cui Yitzhak Rabin e Simon Peres puntavano ancora
sull'irrealizzabile "opzione giordana", cioè l'idea che
si potesse ignorare il popolo palestinese e restituire la Cisgiordania
alla Giordania. Dei tre premi Nobel per la pace, Arafat è quello
che lo ha meritato di più.
A partire
dal 1974, sono stato testimone dell'immenso sforzo messo in campo da Arafat
per far accettare al suo popolo il suo nuovo approccio. Passo dopo passo,
esso fu adottato al Consiglio nazionale palestinese, il parlamento in
esilio, dapprima con una risoluzione che stabiliva di istituire una autorità
palestinese "in ogni parte della Palestina liberata da Israele",
e, nel 1988, con la decisione di istituire uno stato palestinese vicino
a Israele.
La tragedia
di Arafat (e nostra) è stata che ogni qual volta si avvicinava
a una soluzione di pace, i governi israeliani si tiravano indietro. I
termini minimi di Arafat erano chiari e sono rimasti immodificati dal
1974 in poi: uno stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di
Gaza; la sovranità palestinese su Gerusalemme Est (compreso il
Monte del Tempio ma escluso il Muro Occidentale e il quartiere ebraico);
il ripristino del confine anteriore al 1967 con la possibilità
di scambi limitati ed equivalenti di territorio; l'evacuazione di tutti
gli insediamenti israeliani nel territorio palestinese e la soluzione
del problema dei profughi d'accordo con Israele. Per i palestinesi questo
è assolutamente il minimo, non possono fare rinunce ancora maggiori.
Il partner
Yitzhak Rabin
Forse Yitzhak
Rabin si avvicinò a questa soluzione verso la fine della sua vita,
quando dichiarò in tv "Arafat è il mio partner".
Tutti i suoi successori l'hanno rifiutata. Essi non sono stati disposti
a rinunciare agli insediamenti ma, al contrario, li hanno allargati incessantemente.
Hanno resistito a ogni tentativo di fissare un confine definitivo, poiché
il loro tipo di sionismo richiede un'espansione perpetua.
Perciò
essi vedevano in Arafat un pericoloso nemico e hanno cercato di distruggerlo
con tutti i mezzi, ivi compresa una campagna di demonizzazione senza precedenti.
Così Golda Meir ("non esiste un popolo palestinese").
Così Menachem Begin ("un animale con due zampe, l'uomo con
i peli in faccia, l'Hitler palestinese", così Binyamin Netanyahu,
così Ehud Barak ("gli ho strappato la maschera dalla faccia"),
così Ariel Sharon, che tentò di ucciderlo a Beirut e da
allora ci ha sempre riprovato.
Nell'ultimo
mezzo secolo, nessun combattente per la libertà si è trovato
di fronte degli ostacoli così immensi come i suoi. Egli non ha
dovuto confrontarsi con un odioso potere coloniale o una invisa minoranza
razzista, ma con uno stato nato dopo l'Olocausto e sostenuto dalla simpatia
e dai sensi di colpa del mondo. Da tutti i punti di vista militari, economici
e tecnologici, la società israeliana è molto più
forte di quella palestinese. Quando gli è stato chiesto di istituire
l'Autorità palestinese, Arafat non ha preso il comando di uno stato
esistente e funzionante, come Nelson Mandela o Fidel Castro, ma di pezzi
di terra scollegati e impoveriti, le cui infrastrutture erano state distrutte
da decenni di occupazione. Egli non ha preso il comando su una popolazione
che vivesse sulla sua terra, ma su un popolo composto per una metà
dai profughi dispersi in molti paesi e per l'altra metà da una
società fratturata lungo direttrici politiche, economiche e religiose.
Tutto questo, mentre la battaglia per la liberazione va avanti.
Avere tenuto
insieme questo pacchetto e averlo guidato verso la sua destinazione in
queste condizioni, passo dopo passo, è il risultato storico di
Yasser Arafat.
"Lui
è andato avanti"
I grandi
uomini hanno grandi colpe. Una colpa di Arafat è la sua inclinazione
a prendere da solo tutte le decisioni, specialmente da quando tutti i
suoi collaboratori più stretti sono stati uccisi. Come ha detto
uno dei suoi critici più severi: "Non è colpa sua.
Siamo noi da biasimare. Per decenni è stata nostra abitudine scappare
da tutte le decisioni difficili, che richiedevano coraggio e audacia.
Dicevamo sempre: facciamo decidere Arafat!". E lui decideva. Come
un vero leader, è andato avanti e il suo popolo lo ha seguito.
Così ha affrontato i leader arabi, così ha iniziato la lotta
armata, così ha teso la mano a Israele. Per il suo coraggio si
è guadagnato la fiducia, l'ammirazione e l'amore del suo popolo,
al di là delle critiche.
Se Arafat
dovesse morire, Israele perderà un grande nemico, che sarebbe potuto
diventare un grande partner e alleato. Con il passare degli anni, la sua
statura crescerà sempre di più nella memoria storica. Per
quanto mi riguarda: lo rispettavo come patriota palestinese, lo ammiravo
per il suo coraggio, capivo le costrizioni con cui lavorava, vedevo in
lui il partner per costruire un nuovo futuro per i nostri due popoli.
Ero suo amico.
Come dice
Amleto di suo padre: "Egli era un uomo, preso tutto insieme, di cui
non vedrò un'altra volta l'uguale".
Traduzione
di Marina Impallomeni
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