il manifesto - 11 dicembre 2007

Sinistra e femminismo, la storia si ripete?
Ida Dominijanni


«Siamo qui per dare all'Italia una sinistra unita, di donne e uomini, che assume dal femminismo la critica dei modelli maschilisti e patriarcali, cosa per noi maschietti facile a dirsi e difficile a farsi», firmato Fabio Mussi. «Nasce qui un soggetto che critica il patriarcato, assume la pratica della differenza e costruisce la democrazia di genere», firmato Franco Giordano. «Dobbiamo arrivare alla perfetta parità fra i sessi, altrimenti le diversità sono chiacchiere», firmato Oliviero Diliberto. Lasciamo perdere i pasticci fra parità, differenza, diversità, democrazia di genere e veniamo al sodo, il sodo non essendo le buone intenzioni sul da farsi d'ora in poi ma il modo in cui il conflitto fra rituali politici e femministe si è presentato e rappresentato nell'atto di nascita della sinistra che sarà. Sulla scena della Fiera di Roma, un gruppo di femministe interne ed esterne ai quattro partiti fondatori, facenti capo al forum delle donne del Prc, alla rete della Sinistra europea, ai gruppi che hanno organizzato la manifestazione del 24 novembre contro la violenza sulle donne, quei rituali li hanno vibratamente contestati. Prima, sabato, hanno trasformato uno degli otto forum in calendario, quello su diritti, laicità e libertà, in assemblea autoconvocata, mettendo all'ordine del giorno il rapporto fra i suddetti diritti e il conflitto fra i sessi, e facendo saltare la scaletta preordinata del pomeriggio. Poi, domenica, in apertura della sessione plenaria hanno di nuovo contestato il rituale pre-scritto e se ne sono tirate fuori. Mussi, Giordano, Diliberto e Pecoraro Scanio, invece di promettere una sinistra femminista per il futuro avrebbero fatto meglio a confrontarsi con il problema posto dalle femministe per il presente, prendendo atto che così come sta nascendo la Cosa rossa non solo non scioglie ma ripresenta e riacutizza il conflitto sulle pratiche che fra femminismo e politica tradizionale è aperto da decenni e da decenni attraversa partiti e movimenti, sinistra di governo e di opposizione, «cose» vecchie, nuove e mutanti.
Su questo ripresentarsi e riacutizzarsi del conflitto c'è di che interrogarsi tuttavia anche per le donne che alla Fiera di Roma se ne sono fatte portatrici. Quale pratica, a sua volta, domanda questo riproporsi del problema? Come uscire dalla ripetizione? Se l'interlocutore non ci sente, come dislocare il conflitto in modo che ci senta, o come renderlo efficace malgrado non ci senta? Basta ad esempio sostituire alla liturgia verticale di un forum preordinato l'allergia orizzontale di un'assemblea autoconvocata? O contrapporre, com'è stato fatto, la «verità concreta» della manifestazione del 24 novembre o del gay-pride alla «falsità astratta» dei discorsi specialistici degli intellettuali presenti? Come tenere presente la storia - quattro decenni - di conflitto fra femministe e sinistra, senza tornare ogni volta all'anno zero? E come aprire questa storia alla soggettività e alla voce delle generazioni più giovani, senza che il passato soffochi il nuovo ma anche senza che il nuovo faccia tabula rasa del passato?
A questo proposito, una nota non solo lessicale. Alla Fiera di Roma ho preso atto con stupefazione che nel lessico del «nuovo» movimento femminista si fa strada a grandi passi l'uso della seguente elencazione di soggetti e soggettività: femminista, gay, lesbica, trans, queer. Sempre più spesso sento dire (e vedo scrivere, anche sul manifesto) «femminista e lesbica» (ad esempio la manifestazione del 24 novembre era organizzata «da collettivi femministi e lesbici»), o perfino «donne e lesbiche» e «uomini e gay», dove la «e» vuole significare l'aggiunta di un'altra identità e di un'altra soggettività politica. Ora è chiaro che, all'ingrosso, si tratta di un allargamento della platea delle soggettività interessate a una politica della sessualità. Ma nella politica della sessualità, non siamo mai andate all'ingrosso. Quella «e» significa che le femministe e le lesbiche sono due soggetti politici distinti, uniti, alleati? che le lesbiche non sono donne, o che i gay non sono «veri uomini»? e di converso sottintende (paradossalmente e involontariamente) che i veri uomini e le vere donne sono eterosessuali? Il femminismo italiano, a differenza di quello americano, fin qui non si è voluto dividere al suo interno fra eterosessuali e lesbiche; e quando pure il problema si è posto, è stato lungamente discusso. L'automatismo odierno di quella «e» significa che oggi invece il femminismo intende dividersi, o articolarsi, secondo gli orientamenti sessuali? Nominare gli orientamenti sessuali, lo so bene, serve a portare alla luce del sole (e dei diritti) le sessualità «devianti» tenute nell'ombra dalla normatività eterosessuale. Ma degli orientamenti sessuali vogliamo fare altrettante identità e altrettante soggettività politiche? La politica della sessualità mira a moltiplicare o a decostruire le identità? Oppure l'elenco di cui sopra, più banalmente, è un'alleanza per la rivendicazione di diritti? Ma se è così, da quando la politica della sessualità si riduce alla rivendicazione di diritti e si accontenta di muoversi sul terreno della laicità, come se la laicità fosse di per sé garante della libertà femminile o della fine dell'omofobia?