| Il
manifesto, 14 Ottobre 2006 Un
testamento fuori canone e le sue eredi. Hannah e le sorelle Nascita,
azione, relazione, autorità, "chi". Il lessico della politica
arendtiana nella teoria e nelle pratiche del femminismo della differenza, destinazione
ribaltata di una donna che non si voleva femminista Diana Sartori
Non
sono la prima a dichiarare insieme alla soddisfazione per il riconoscimento che
Arendt ha avuto in questi anni anche un certo sconcerto per quella che ha le dimensioni
quasi di una beatificazione. Tanto più che ben ricordo tempi non poi così
lontani, quando il dire di lei che era una outsider della filosofia e della teoria
politica era inteso in senso letterale e senza la compiaciuta benevolenza che
usa ora. Le cose sono cambiate, non sto a indagare perché, e lo prendo
come un buon segno, quantomeno per il fatto che per la filosofia e la teoria politica
nelle quali era davvero una outsider è diventato impossibile ignorarla
e più difficile liquidarla con quella qualifica. Ci sono volute montagne
di pagine, spesso pazientemente accumulate da donne, e lo sfilacciarsi inesorabile
del filo di una tradizione che già lei denunciava spezzato, ma è
successo che Arendt sembra essere entrata a far parte del canone. Se dapprima
era forse solo per il non poter fare a meno delle sue analisi del totalitarismo
o della "banalità del male", poi sono diventate indispensabili
la rottura con la tradizione, l'analisi dell'agire, la narrazione, il giudizio,
la pluralità, il pensare in termini di condizione umana... e la riflessione
sulla politica. Appunto, la politica. È pensando a questo che il mio
sentimento di sconcerto per la canonizzazione di Arendt tende a virare in diffidenza:
sì, non si può negare che la sfida portata dalla concezione arendtiana
di politica sia stata registrata dal canone del pensiero filosofico sulla politica,
colta nella sua natura di radicalità, analizzata, criticata, combattuta,
rifiutata, trasformata e neutralizzata, ripresa e moderata o persino rilanciata.
Tuttavia un dubbio mi resta, che si tratti della registrazione di un testamento
troppo esplicito e consistente perché lo si possa ignorare, ma di cui pare
non potersi accogliere l'eredità. Se forse Hannah Arendt non ha fatto altro
che tornare sul problema dell'eredità senza testamento di quella politica
cui solo avrebbe riconosciuto di avere questo nome, qui parrebbe quasi essere
di fronte ad un testamento senza eredità. Quasi, dico, pensando al dibattito
filosofico-politico mainstream e alla concezione dominante di politica, per i
quali quell'eredità sembra -probabilmente è - inassumibile, se non
a parole. Quasi, perché c'è almeno un discendente che ha ad alta
voce rivendicato la titolarità di quell'eredità, e lo ha fatto non
solo a parole, ma nella sua azione politica, ed è il femminismo. Arendt,
sconfortata dalla monotonia e pochezza della tradizione, diceva che forse per
capire qualcosa della politica conveniva chiedere agli uomini d'azione; e di sicuro
non immaginava che avrebbe fatto meglio a rivolgersi all'agire delle donne. Il
suo rapporto con il femminismo, si sa, fu problematico. E' noto come rifiutasse
di definirsi femminista dicendo di odiare gli "ismi": "essere una
"ista" significa far parte di un gruppo, di una folla, di un pacco".
Un duro giudizio su quella che parlando di Rosa Luxemburg definiva "l'eguaglianza
delle suffragette": al movimento di emancipazione imputava un difetto di
reale politicità, restando esso sul piano di rivendicazioni sociali e economiche.
E' un giudizio che oggi sottoscrive di cuore il femminismo della differenza
sviluppatosi negli anni '70, e si può forse immaginare che sia guardando
a quegli sviluppi che, come testimonia Virginia Held, Arendt dicesse di aver mutato
parere negli ultimi anni della sua vita. Resta però che la condizione di
esser nata femmina nel giorno che oggi ricordiamo non venne assunta da Hannah
Arendt al centro della sua riflessione sulla condizione umana. Sebbene dopo la
natalità sia la pluralità esemplificata dalla creazione di Adamo
ed Eva ad essere nominata in Vita activa come la seconda marca della condizione
umana, Arendt non assunse mai la differenza sessuale come prima pluralità.
Né interrogò mai le implicazioni politiche della reclusione femminile,
storica e simbolica, in quella sfera "impolitica" dell"oikos che
confermò tale nel suo insistere sulla distinzione tra pubblico e privato.
E' qui l'ostacolo che ha fatto più problema nella ricezione femminista
di Arendt: se c'è stato un punto di accordo costante nel pensiero e nell'azione
politica delle donne, è stato proprio il superamento della dicotomia tra
la dimensione personale e privata e quella pubblica e politica. Da ciò
le ripetute accuse a Arendt di aver disegnato una visione interna ad una concezione
e a una pratica tutte maschili della politica, addirittura una visione "machista",
fino a parlare per lei di autentico "anti-femminismo". Non c'è
da stupirsi, quindi, che le parti del pensiero arendtiano che hanno goduto della
prima rivalutazione femminile siano state quelle più "filosofiche"
(penso soprattutto alla natalità e alla costituzione relazionale e narrativa
della soggettività) o quelle che contribuivano a sciogliere alcuni annosi
nodi del dibattito femminista, come l'approccio in termini di "condizione"
piuttosto che di "natura" umana che taglia alla radice il nodo del cosiddetto
essenzialismo. Decisamente più controverse le vicende della ripresa di
altri punti, più apertamente politici, del pensiero di Arendt: se le sue
critiche alla dimensione politica come rappresentazione del che cosa piuttosto
che del chi hanno incontrato ampio consenso, le conseguenze anti-identitarie che
se ne ricavavano sono andate a ricadere su un terreno di vivo confitto nella politica
delle donne. Come pure è avvenuto per quanto riguarda il ruolo che in quest'ultima
è da assegnarsi alle questioni sociali ed economiche tradizionale terreno
dell'emancipazionismo di contro al femminismo che ha affermato la priorità
della libertà femminile come cuore dell'agire politico. Lo stesso si può
dire per la concezione del potere come agire di concerto, che da un lato ha avuto
interpretazioni femministe in chiave di etica della comunicazione che ne hanno
edulcorato la radicalità politica, dall'altra è stato sviluppato
nel senso di una pratica femminista performativa e agonistica. Insomma anche
tra le donne la questione dell'eredità arendtiana diventa tanto più
conflittuale quanto più si avvicina al terreno della visione del potere
e delle pratiche politiche. Su questo terreno si è visto che gli aspiranti
eredi tendono a dileguarsi, e le eredi tendono a dividersi. Il che conferma due
punti tra loro interconnessi: che il "tesoro perduto" dell'agire politico
arendtiano tanto duro da ereditare nella politica è il senso stesso su
cui si gioca la politica, e che la contesa sul senso politico del femminismo sta
nel cuore del conflitto sul senso della politica stessa. Ciò che costantemente
Arendt ha cercato è stato quel tesoro, quello che la politica ha perso
consegnandosi alla logica della strumentalità e del governo, a un'idea
del "fare" che inesorabilmente è finito nel realismo di chi sottoscrive
l'antico proverbio che "bisogna rompere le uova se si vuole fare la frittata",
dimenticando, come diceva, le ragioni delle uova. Cercò i momenti quando
"le uova alzano la voce" e li riconobbe emergere e poi sparire, nelle
rivoluzioni, nelle esperienze consiliari, nei momenti di felicità politica
che avevano saputo rinnovare in nome della libertà il senso dell'umano
agire politicamente. Ne riconobbe la fragilità e l'intermittenza, ne vide
il cedere di fronte al senso accreditato della politica e alla sua forza, ma mai
cedette all'idea che quella, e non l'altra fosse davvero la politica. Canonizzata
o meno, questo resta il problema del suo testamento ma soprattutto il conflitto
sulla sua eredità nella politica. Un conflitto che in buona sostanza ripropone
la questione dell'assumibilità di quella eredità nei termini della
stessa esistenza della politica come Arendt la ha intesa. Non esiste, è
irrealistica, non può esistere e comunque non può durare, ribadisce
il coro del vecchio e del nuovo realismo politico. Ma, molto realisticamente,
quella politica è reale, esiste, torna e permane. La politica dell'agire
di concerto che non vira in ricerca del dominio e non esercita la forza, che non
vuole rappresentare interessi o identità, la politica del riconoscimento
non di cosa ma di chi si è, la politica che non rivendica potere o diritti
ma riconosce autorità, che vive dell'esercizio della libertà e del
suo puntuale rinnovarsi, che ordina e orienta ma non costituisce gerarchie di
dominio o strutture di appartenenza, la politica che si regola sulla contestualità
delle situazioni e non regolamenta i contesti in cui può darsi, che sta
alla necessità di una pluralità che domanda la relazione, la politica
che si alimenta dello scambio simbolico e scommette sul senso dell'agire comune
del mondo, che non sfugge dalla condizione umana immaginando un'onnipotente presa
sulla realtà, che non teme la rischiosità e la fragilità
dell'agire e nemmeno la sua impermanenza, questa politica esiste, è reale.
Forse è sempre apparsa e ricomparsa, come dice Arendt, come una fata Morgana,
come un fantasma di libertà ricorrente che si è dubitato persino
fosse reale, come una sorta di miracolo. Ma certo è apparsa ed è
venuta al mondo ed è viva, miracolosamente chissà, come quella "politica
che non aveva nome di politica" che hanno fatto le donne con il femminismo.
Buon compleanno. |