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Manifesto - 19 gennaio 2005
Cibo
e religione, il gusto del divieto
Ai due poli della tradizione islamica, un ricettario di corte medievale,
Il cuoco di Baghdad, curato dall'orientalista Mario Casari e una raccolta
di ricette popolari, Di madre in figlia di Agourram
A un primo sguardo il rapporto tra alimentazione e pratiche religiose
sembrerebbe incontrarsi soltanto con l'interdetto. Ma ogni proibizione
stimola risorse inventive da mettere al servizio della trasgressione
Un sentiero di lettura attraverso le diverse confessioni mostra, tra l'altro,
che all'interno della cucina ebraica sono previsti interdetti più
numerosi rispetto alla consuetudine islamica. Mentre in ambito cristiano
non solo alcuni alimenti, ma l'azione stessa del mangiare appare peccaminosa
MARIA TERESA CARBONE
Per una di
quelle concomitanze che pare difficile ascrivere unicamente al caso, nell'arco
di poche settimane sono usciti diversi testi che, sia pure da punti di
vista assai eterogenei, consentono di avviare una riflessione sul rapporto
che nel corso dei secoli si è instaurato (e che ancora oggi intercorre)
fra cibo e islamismo e, più ampiamente, fra cibo e religione tout
court. Ai poli estremi di questo ideale percorso possiamo collocare due
singolari raccolte di ricette che appartengono a epoche e ambienti culturali
molto differenti fra loro. Da un lato Il cuoco di Baghdad (Guido Tommasi
Editore, pp. 172, euro 18) è la rigorosa trascrizione, curata dall'orientalista
Mario Casari, di Kitab al-tabikh, ovvero il Libro di vivande, un ricettario
del mondo islamico medievale compilato nel 1226, verso la fine del califfato
abbaside, da un autore, Mohammad Al Baghdadi, di cui si conosce solo il
nome (l'unico manoscritto autografo del testo fu trovato nel 1930 dallo
studioso iracheno David Chelebi in mezzo ad altri conservati presso la
biblioteca di Aya Sofia di Istanbul), ma che certamente rappresentava
«un ceto cittadino agiato ormai autosufficiente, testimone dell'affermazione
di quella fine cultura gastronomica che era stata elaborata nelle corti
abbasidi».
All'altra
estremità di questo itinerario si pone invece Di madre in figlia.
La cucina marocchina di Touria Agourram (Le Lettere, pp. 302, euro 24,50),
corposa raccolta di ricette che appartengono alla tradizione popolare
- o meglio, come suggerisce il titolo, famigliare - a una delle diverse
cucine nazionali in cui si è a mano a mano declinata la grande
espansione musulmana.
Dunque, su
un versante è contemplata la grande cucina di corte (e anzi di
una corte, qual era quella di Baghdad durante la dinastia abbaside, al
punto d'incrocio di intensissimi scambi commerciali e culturali) dove
l'idea del pasto, del convivio, si pone come fulcro di una visione della
vita che, senza dimenticare la sobrietà dell'antica tradizione
nomade e dell'etica religiosa, è al tempo stesso pronta ad accogliere
i piaceri del lusso e ad aprirsi agli influssi esterni (indiani, persiani,
bizantini), nella precisa convinzione che questa apertura non contrasta
con i valori della devozione, poiché - annota in apertura di libro
il pio Mohammad - «non vi è torto nel prendere piacere dal
cibo, né nello specializzarsi in esso». E, sull'altro versante,
c'è l'altrettanto grande arte culinaria di innumerevoli donne senza
nome che, di generazione in generazione, hanno trasmesso la loro capacità
di trasformare «ingredienti semplicissimi in un vero banchetto»,
di creare «autentici capolavori mettendo insieme gli avanzi»,
un'arte culinaria in cui l'aspetto religioso, all'apparenza assente (se
non nell'invocazione iniziale, Bismi Allah, «Nel nome di Allah!»,
che apre il viaggio di Touria Agourram attraverso le diverse regioni gastronomiche
del Marocco), riemerge poi nei rituali della tradizione, in quella sontuosa
festa dell'accoglienza che, a tutte le latitudini, rappresenta una cifra
caratteristica della cultura islamica.
Per saldare
questi due poli, e cogliere meglio le influenze che l'osservanza religiosa
esercita sull'alimentazione, dal Maghreb fino all'area dell'antica Mezzaluna
fertile e oltre, risulta di grande utilità la lettura di un testo
della tunisina - ma di cultura molto cosmopolita - Lilia Zaouali, L'Islam
a tavola, edito da Laterza nella traduzione di Egi Volterrani (pp. 221,
euro 14), e di un altro intervento della stessa Zaouali, Alla mensa di
Allah, apparso sul recentissimo quaderno di «Micromega», tutto
dedicato al tema «Cibo e impegno». Appunto su «Micromega»
la studiosa, dopo aver notato che da qualche tempo in Italia si avverte
un'attenzione «assolutamente inconsueta» per l'alimentazione
degli immigrati musulmani, racconta fra l'altro di avere preso parte,
su questo tema, a un recente colloquio a Parma: «In questa occasione
ho parlato dei comportamenti di una famiglia marocchina immigrata a Torino
a proposito della questione del maiale nei menù delle mense scolastiche.
Ero la sola invitata originaria di un paese musulmano e a colazione la
scelta era ovviamente tra il maiale in tutte le sue forme e un pezzetto
di parmigiano».
[...]
Da necessità
a virtù, quel che la mano maschile può sui fornelli
Autore di molti saggi che esplorano l'evoluzione del gusto in Italia e
nel mondo dal Medioevo a oggi, Massimo Montanari affronta ora in un breve
saggio edito da Laterza, Il cibo come cultura, quello che è il
nodo alla base di tutta la sua ricerca: l'idea che i gesti legati all'alimentazione
si possano configurare come elementi dell'identità e rientrino
quindi nell'ambito della storia della cultura. Una tesi in realtà
non nuova, che adesso Montanari rilegge con leggerezza e sistematicità,
costruendo un percorso che parte dal vecchio binomio «natura e cultura»
(due modelli che rappresentano «due diversi modi di costruire il
rapporto fra gli uomini e l'ambiente»), prendendo in esame altri
nuclei concettuali - «cucina scritta e cucina orale», «arrosto
e bollito», «piacere e salute», «cibo linguaggio
e identità» - e arriva infine alla conclusione che «i
modelli e le pratiche alimentari sono il ... frutto della circolazione
di uomini, merci, tecniche, gusti da una parte all'altra del mondo»;
e che «la ricerca delle radici, quando è fatta con metodo
critico e non dietro la suggestione di impulsi emotivi, non giunge mai
a definire un punto da cui siamo partiti, bensì un intreccio di
fili sempre più ampio e complicato a mano a mano che ci allontaniamo
da noi». Come dargli torto? Eppure vale anche la pena di capire
perché l'idea stessa del «cibo come cultura» debba
richiedere tante appassionate argomentazioni. E viene da chiedersi se
in parte ciò non derivi dal nesso antico che unisce l'idea di nutrimento
alla figura femminile. Nelle prime pagine del libro Montanari ricorda
che nell'epopea di Gilgamesh, l'uomo «selvatico» esce da questo
suo stato solo quando viene a sapere da una donna - una prostituta - dell'esistenza
del pane (in tal modo, commenta lo studioso, «si attribuisce alla
figura femminile il ruolo di custode del sapere alimentare oltre che della
sessualità»). E più avanti Montanari scrive che le
donne sono protagoniste da sempre del lavoro di cucina e depositarie delle
tecniche che lo definiscono». Ma si tratta di incisi, di parentesi
all'interno di un racconto che è quasi tutto neutro (e quindi maschile).
Al punto che sorge spontanea una domanda: non sarà che oggi il
cibo assume uno status «culturale», perché proprio
oggi «la cucina tende a cambiare sesso» e «da pratica
femminile passa a mestiere esercitato in prevalenza da uomini»?
M.T.C.
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