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manifesto - 20 Aprile 2008
Subalterne e emancipate, i
due volti delle sartine torinesi Dall'espansione ottocentesca, quando
le lavoratrici dell'abbigliamento nel capoluogo piemontese erano migliaia, fino
al declino degli anni '60. Un secolo di storia sociale ricostruito da Vanessa
Maher nel saggio "Tenere le fila" per Rosenberg & Sellier Michele
Nani La
storia e l'immagine della Torino novecentesca sono segnate dalla grande industria,
simboleggiata dalla Fiat e dal suo esteso indotto. All'ombra del Lingotto e di
Mirafiori, tuttavia, si svilupparono anche forme diverse di organizzazione della
produzione. La più importante di queste esperienze fu quella dell'industria
dell'abbigliamento, definita già nel 1922 dai dirigenti sindacali una "fabbrica
sezionata". La sartoria torinese fu significativa per più di una
ragione. Economicamente i grandi atelier del centro cittadino fecero di Torino
una vera e propria capitale della moda, seconda solo a Parigi e ad essa stabilmente
connessa, anche per via di una lunga integrazione produttiva con la Francia, che
risaliva all'industria tessile del Sei-Settecento. Dal punto di vista sociale,
questo comparto produttivo occupava decine di migliaia di lavoratrici, che all'inizio
del secolo costituivano già un quinto della forza-lavoro torinese complessiva.
Infine, non va dimenticato il rilievo culturale di questa attività, che
produceva i simboli del prestigio e della piccola distinzione, i segni che rendevano
concrete e visibili le classificazioni e le gerarchie sociali, importanti nelle
fasi di mobilità sociale e in una città ove il peso della nobiltà
restò notevole fino a tutto il ventennio fascista. Di questo mondo dimenticato
ci parla Tenere le fila. Sarte, sartine e cambiamento sociale 1860-1960 (Rosenberg
& Sellier, pp. 391, euro 32), un libro di storia sociale del lavoro che raccoglie
i risultati della lunga e ampia ricerca di Vanessa Maher - una ricerca di etnografia
storica, nella quale l'analisi di una serie di interviste dei primi anni Ottanta
a sarte che si formarono durante il fascismo si intreccia allo spoglio di un vasto
insieme di fonti coeve e di studi, grazie ai quali è possibile ricostruire
le dinamiche più ampie e effettuare confronti con altri contesti di sartoria
e con pratiche sociali affini o prossime. L'industria torinese dell'abbigliamento
ha conosciuto una vera parabola: alla grande e rapida espansione fra Otto e Novecento,
proseguita fino alla metà del secolo, ha fatto seguito un lento declino,
dettato dalla fine dell'apprendistato, dal calo della domanda dovuto allo sviluppo
della produzione in serie, dall'ascesa di Milano a capitale della moda e della
dispersione della produzione del "made in Italy" nell'industria sommersa
del Mezzogiorno. Il tramonto della sartoria non basta tuttavia a dar conto della
sua scomparsa dalla memoria e dagli studi. L'autrice argomenta un'ipotesi convincente:
è stata la femminilizzazione del mestiere a determinare le possibilità
di espansione del settore (per via del decentramento a domicilio reso possibile
dalle macchine da cucire: con conseguente taglio dei costi e dei salari dell'ordine
del 50 per cento), la sua fortuna (anche per la disponibilità di apprendiste
alle quali era negato l'accesso all'istruzione e per la difficoltà di organizzare
vertenze) e infine la rimozione, dovuta all'invisibilità sociale di un
lavoro femminile e domestico che non sembrava compatibile con le epopee del boom
e del movimento operaio. Contribuirono a questo esito anche alcuni caratteri
propri del mestiere. Quello della sarta non era un lavoro dequalificato, si trattava
anzi di un sapere artigianale di lento e difficile apprendimento, che rappresentava
un investimento per le famiglie (il possesso del mestiere equivaleva a una dote),
ma anche l'imposizione alle figlie di una identità sociale e di genere
subalterna. Il ciclo di vita della sarta passava per una formazione complessa
che aveva luogo negli atelier, governati da una direttrice e da una première,
o prima sarta, accanto all'unico ruolo maschile, quello del sarto tagliatore di
stoffe (coupeur). Si cominciava come cita, occupandosi di filo, spilli, pulizie
e consegne; quindi si diveniva seduta o fancell e si passava al primo apprendistato
(ad esempio come orlatrice), fondamentale perché in quella fase si doveva
letteralmente "rubare il mestiere", cioè quel sapere quasi intuitivo
incorporato nei gesti e nei trucchi delle sarte che non poteva trasmettersi mediante
un insegnamento formale, né tanto meno verbale; molte rinunciavano, ma
chi riusciva nell'opera diventava aiutante o lavorante, cioè una sarta
salariata. A quel punto la ragazza poteva anche cambiare laboratorio e magari
provare a mettersi in proprio, una scelta che diveniva obbligata in caso di matrimonio,
poiché questo implicava il licenziamento: di lì la miriade di piccole
botteghe domestiche che contornavano i grandi atelier e sostenevano una domanda
più ampia rispetto a quella del lusso e della moda. Questo itinerario
fondava comportamenti ambigui: sarte e sartine godevano di una mobilità
territoriale e professionale notevole, ma soprattutto attraversavano i confini
fra le classi. Li eludevano concretamente, poiché le ragazze conoscevano
clienti dell'alta società, si accompagnavano a studenti e comunque più
facilmente a impiegati o periti che a operai. Pur subalterne, producevano alcuni
dei simboli attraverso i quali l'ordine sociale si manifestava nella sfera pubblica
e questo saper fare le portava a confezionare per sé i capi alla moda,
sovvertendo così sia il nesso fra collocazione di classe e aspetto fisico,
sia il monopolio delle signore sul gusto riconosciuto. Le sarte si emancipavano
così dalle costrizioni delle famiglie di origine e sperimentavano una certa
libertà sessuale e forme di controllo sulla riproduzione che le portavano
a fare meno figli della media. Questi tratti produssero gli stereotipi della "sartina"
frivola e leggera e quelli della lavoratrice inaffidabile perché portata
a tradire la propria classe. In realtà anche la sartoria torinese fu attraversata
da frustrazioni e risentimenti, che talora sfociarono in aperto conflitto, come
negli scioperi del 1883 e del 1906, contraddistinti da cortei dal sapore carnevalesco,
con parodia delle clienti borghesi. A Torino la sartoria costituiva la seconda
occupazione femminile (dopo il servizio domestico), ma l'organizzazione, come
per tutto il lavoro a domicilio, fu difficile. L'esperienza dell'apprendistato
era comunque diffusissima e per questo negli atelier passarono molte delle donne
poi attive nell'antifascismo e nella Resistenza, come la futura dirigente comunista
Teresa Noce, che la ricostruì nelle prime pagine della sua autobiografia
Professione rivoluzionaria. Un vero contratto sindacale per la sartoria si
ebbe solo nel 1947, ma come segnala l'esperienza del Circolo delle Caterinette,
sorto qualche anno dopo in risposta al trasferimento dell'Ente Moda, la percezione
del declino era ben presente, alimentata dalla scolarizzazione che sottraeva apprendiste
a laboratori e botteghe, dall'orientamento della domanda verso la produzione di
massa di vestiti economici e quindi dalle più frequenti rinunce al mestiere
da parte delle sarte: un lavoro reso insostenibile dalla mancanza di assistenti
sottopagate, dal calo della clientela popolare e dal carico di lavoro domestico
e di cura non condiviso con i mariti. |