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il manifesto
- 20 maggio 2006
La
trama etica in forma di racconto
"Esistenzialisti e mistici", raccolti e tradotti per la prima
volta, i testi filosofici di Iris Murdoch
Chiara Zamboni
L'esperienza
umana è qualcosa che viviamo come un tutto indiviso, dove c'è
conoscenza, passione, sentimenti, un nostro orientarci a vista nelle scelte
che ci capita di fare. Le grandi pensatrici del 900 sono rimaste fedeli
a questa qualità dell'esperienza, mostrando come l'atteggiamento
morale che prendiamo quotidianamente abbia a che fare con il modo in cui
conosciamo il mondo attorno a noi e lo viviamo sensibilmente, esteticamente.
È nella letteratura, nella poesia, che hanno trovato il linguaggio
per sperimentare un'esperienza indivisa: Arendt sosteneva che esser rigorosi
nel raccontare una storia voleva dire allo stesso tempo meditare, immaginare
e accettare la vita. Per Simone Weil la grande poesia mostra un atteggiamento
di conoscenza e giustizia al medesimo tempo. L'amore filosofico delle
donne per la letteratura nasce, a me sembra, dal loro desiderio di tenere
legato quel che la tradizione filosofica separa. Aristotele prima e Kant
poi hanno diviso il campo della conoscenza da quello dell'etica e dell'estetica.
La filosofia maschile si è trovata successivamente a dover connettere
quel che aveva separato, mentre la mossa di rimanere fedele da subito
a un'esperienza indivisa, dove conoscere significa allo stesso tempo essere
orientati e percepire esteticamente, è un passo a lato che ha una
notevole forza simbolica. Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia
e letteratura di Iris Murdoch è un esempio di come si possa compiere
questo passo a lato (introduzione di Luisa Muraro, prefazione di George
Steiner, Il Saggiatore).
In Italia Murdoch è più nota come scrittrice. È la
prima volta, infatti, che vengono raccolti e tradotti tutti i suoi testi
filosofici. Studiò filosofia a Cambridge e Oxford, dove insegnò
per 15 anni, in un ambiente in cui si respirava un'aria wittgensteiniana,
e dove la scuola analitica anglosassone era dominante. Questa era dunque
la sua formazione, tipicamente analitica. Senza mai rinnegarla, anzi confrontandosi
costantemente con essa, Murdoch ne prende le distanze, sottraendosi a
diverse parole d'ordine della scuola. Primo tra tutti il riferimento al
linguaggio ordinario inteso dagli analisti inglesi come un insieme di
usi linguistici da descrivere dall'esterno, come se quella non fosse la
loro lingua e come se ne fossero solo degli spettatori. Per Murdoch, invece,
il linguaggio è un insieme di pratiche, nelle quali siamo implicati
storicamente, che ci permette di orientarci nella vita, sperimentandola
dall'interno. Proprio in questa sperimentazione ci si rende conto che
l'esperienza è un tessuto indiviso: si conosce la realtà,
raccontandola, e, già narrandola, compiamo un atto morale. Quando
la sera raccontiamo quel che ci è successo quel giorno, scegliamo
di dire alcuni fatti che ci sembrano più importanti di altri. Questa
scelta implica che prendiamo posizione. I filosofi analitici si sono posti
a più riprese il problema dell'etica, in particolare del bene,
risolvendolo attraverso un atteggiamento descrittivo. Di fronte alla domanda
"Che cos'è il bene?" riportavano i comportamenti linguistici,
che implicavano l'uso di questa parola: come e in quali contesti venisse
adoperata. Potevano così osservare dall'esterno questi fatti linguistici,
senza che la questione in se stessa li toccasse. Murdoch invece ritiene
che il bene orienti oppure non orienti il nostro discorso. Quando ci orienta,
allora lo vediamo dal fatto che raccontiamo del mondo, gli altri, le cose
che capitano, i sentimenti, in un movimento di uscita da noi stessi e
dal circolo ristretto dell'"io". Il bene non è allora
né un valore oggettivo, di cui possiamo parlare metafisicamente,
né un termine di uso comune del linguaggio, secondo la prospettiva
antimetafisica degli analisti. Piuttosto è come un fuoco che orienta
il nostro discorso, ed è coglibile da come si dispongono i momenti
essenziali della nostra vita. Dagli effetti. Direttamente di esso non
possiamo dir nulla. In questa posizione si sente il confronto di Murdoch
con Weil e col Platone mediato da Weil. In particolare per il fatto che
Weil intendeva il bene come qualcosa di reale e al contempo non rappresentabile,
che però mette in movimento l'agire, per la sua forza di attrazione.
I filosofi che cita sono molti. Sartre e De Beauvoir, che fece conoscere
in Inghilterra come esponenti del movimento esistenzialista, Gabriel Marcel,
Canetti, Hegel. Leggendola, mi sono fatta comunque l'idea che, già
proprio prendendo le distanze dagli analisti, abbia formato il nocciolo
più importante del suo pensiero. Significativa è la traduzione
che compie del termine "evento mentale", tipicamente analitico,
con un pensiero inteso come "vita interiore", e di "esperienza
pubblica" con "esperienza", in tutte le sfumature a cui
il termine può rimandare. Si è avvicinata così a
una delle costanti del pensiero femminile, il gioco tra il sentimento
dell'esperienza e un pensiero vissuto interiormente. A cui si aggiunge
un amore per il particolare, non come fatto determinato da cause, ma come
contingente concreto coglibile con attenzione e pazienza, comunque sempre
nella rete del linguaggio. Ma quale linguaggio? Certo quello filosofico,
ma solo quando la filosofia va a scuola della grande letteratura. È
la letteratura che per Murdoch ha la capacità di illuminare il
reale nella sua contingenza. Sa fare questo adoperando con sapienza l'immaginazione,
che apre uno spazio per accogliere ed esprimere la verità, che
percepiamo confusamente nei nostri giorni frettolosi e distratti. È
una verità dura, che non ammorbidisce la realtà. Per questo
l'immaginazione è così diversa dalla fantasia, "tessuto
di autoaffermazioni, desideri e sogni consolatori che ci impedisce di
vedere ciò che è altro da noi". Porci in rapporto con
ciò che è altro da noi è posizione etica e insieme
ascolto della verità. Niente di moralistico in questo, anzi. Proprio
l'amore per la realtà, che ci porta a conoscerla dall'interno,
rappresenta la via più solida per criticare la morale convenzionale
del proprio tempo. Si pensi ai romanzi di Tolstoj, che cita a più
riprese con Jane Austen e George Eliot: sono un esempio di amore per i
propri personaggi, lasciati liberi di essere. Un amore per l'individuale,
accolto nella sua particolarità, che porta Tolstoj non tanto a
giudicare quanto a raccontare.
Sostiene Murdoch che l'intera nostra civiltà dipende da come sappiamo
usare l'immaginazione che rischiara la verità e da come usiamo
i concetti: il deterioramento morale segue il piano inclinato della distruzione
delle idee. Le parole rappresentano la forma più importante del
nostro essere morale. Parte integrante di una civiltà è
anche il modo di pensare la politica. Di farne teoria, non solo agirla.
In proposito è di grande attualità, in un'Europa dal pensiero
politico declinante e confuso, un saggio del '58, in cui scrive che marxismo,
socialismo e liberalismo non hanno più un forte pensiero che li
sostenga. Ovvero manca la capacità di dare spazio e articolare
secondo una coscienza chiara quel che di solito intuiamo in modo confuso.
La mancanza di pensiero politico permette alla burocrazia, ai saperi specialistici
e alle tecniche di governo di alienarci a noi stessi. Vorrei attirare
l'attenzione su questa sua affermazione: è pericoloso far morire
di fame l'immaginario morale dei giovani. Occorre che il pensiero politico
risponda a questo bisogno.
Luisa Muraro sottolinea come lo stile di scrittura in questi saggi sia
in un certo senso incompiuto, attento sì alla forma, ma senza rinchiudersi
in essa. Ambiguo, pur nella ricerca di precisione delle parole. La smagliatura
della forma è legata all'incompiutezza delle cose umane, alla loro
contingenza. E proprio in questa incompiutezza c'è la possibilità
dell'articolarsi di un di più del pensiero di Murdoch rispetto
a tutte le scuole filosofiche con le quali si è confrontata. Questo
indefinito, pur nell'accuratezza delle argomentazioni, colpisce leggendo
i saggi uno dopo l'altro. In nessuno Murdoch chiude l'argomento con una
dimostrazione a tutto tondo, ma passa da tema a tema, lasciando aperta
la visione d'insieme. Lei stessa in Il fuoco e il sole parla di come la
grande opera d'arte sia sempre incompiuta, forata, e che questo esprima
esattamente la sua qualità morale, la sua capacità di dare
spazio alla contingenza,la sua "illimitata relazione con la vita
quotidiana". A me ricorda la scrittura Duras e Bachmann: uno scrivere
che accoglie il niente. Scritture forate, e proprio perciò legate
al divenire del presente. Di tale stile di scrittura Murdoch fa l'andamento
della pratica filosofica.
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