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il manifesto
- 20 Luglio 2005
Joan
Jonas, identità in movimento
Video storici, fotografie di perfomance, installazioni recenti. Parigi
dedica tre mostre all'artista americana
GIANNINA MURA
Diverse sono
le pioniere che, in connessione tra arte e femminismo, da quasi quarant'anni,
esplorano i molteplici e fertili territori dell'identità femminile.
Tra esse, Joan Jonas, definita dal New York Times l'artista americana
più importante della seconda metà del XX secolo, occupa
una posizione di rilievo. Cineasta, videasta, performer, disegnatrice,
scultrice, Jonas (nata a New York nel 1936) sfida le regole e le definizioni
in un'incessante «scultura del tempo» dove mitologia, fiaba,
letteratura, televisione, danza, rumore e musica tradotti in performances,
video, e installazioni dilatano, desincronizzano, destabilizzano la realtà
per sovvertirla in alterità visionarie. Con l'obiettivo di offrire
la più completa introduzione alla sua opera proteiforme, e grazie
all'iniziativa di Caroline Bourgeois, direttrice del Plateau (lo spazio
espositivo del Fondo Regionale d'Arte Contemporanea), Parigi le dedica
tre mostre fino al 28 agosto. L'Hotel de Sully presenta una selezione
di video storici con Wind (1968), Songdelay (1973), Volcano Saga (1989),
Organic Honey (1971-80) e una quarantina di fotografie che documentano
alcune tra le sue più note performances, da Jones Beach Piece (1970)
a The Juniper Tree (1979) passando per i Mirror pieces (1969-70). Lo Studio
Yvon Lambert (in attesa della grande mostra prevista nel 2006) offre un'installazione
della più recente serie My New Theater (miniteatro video in legno
corredato dagli oggetti utilizzati nella performance proiettata al suo
interno). Mentre il Plateau allestisce le prime tre opere della stessa
serie in un'esposizione curata direttamente dall'artista, che, insieme
all'installazione Mirage (1976-2005), presenta i lavori di quattro suoi
allievi: Narda Fabiola Alvarado, Sung Hwan Kim, David Maljkovic e Seth
Price, e pone la questione della trasmissione artistica oggi.
Trasmissione,
contaminazione, ibridazione costituiscono, appunto, il motore del suo
itinerario quarantennale. Influenzata dalle coreografie di Yvonne Rainer,
Lucinda Childs, Trisha Brown, Deborah Hay (di cui frequenta i laboratori
negli anni Sessanta), dalle ricerche post-minimaliste, dal teatro kabuki
e dalla diffusione della Portapak (la prima videocamera portatile) Jonas
elabora un nuovo linguaggio visivo in una pratica interdisciplinare all'insegna
della sperimentazione, e getta le basi della performance art e della videoarte.
Facendo di sé materia espressiva (nuda, travestita, mascherata),
campo di ricerca per indagare il femminile e l'identità tout court,
incarna una persona multiforme che disegna, sussurra, recita, canta, balla,
si trasforma incessantemente, in compagnia di un cane o di altri personaggi,
circondata da dispositivi costanti che si ritrovano da un'opera all'altra.
Come lo specchio che anticipa e affianca l'uso del video in una scenografia
estraniata ove congiunge l'illusione e la sua fabbricazione.
Al di là
della tematica identitaria, della percezione dello spazio e del doppio,
lo specchio (ispiratole dalla lettura di Jorge Luis Borgès) evoca
per lei il simbolo della divinità femminile delle antiche religioni
semitiche e giapponesi, e la dualità lunare-solare attribuitagli
dalla cultura messicana. Ispirata dai filmati di Maya Deren sulla religione
voodoo, disegna senza posa simboli ancestrali, paesaggi elementari, ritratti
del suo cane (animale simbolo della dea della morte nella mitologia nordica)
e, assemblando oggetti, frammenti di mito, di poesia, di immagine, di
suono, di danza, di vita, dà corpo a un'opera-prisma. Quasi un
rituale tecno-esoterico che, prendendo le mosse dall'archetipo collettivo,
attraversa la realtà contemporanea, e ad esso ritorna per generare
una rinnovata coscienza di sé e del mondo.
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