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Manifesto
18-Settembre 2005 C'è un pensiero femminile del presente che eccede le categorie del politico con cui il presente viene pensato anche quando a sua volta palesemente le eccede. Il giro di parole è contorto, ma meno di quanto sembri: è in corso un mutamento che si caratterizza anche, e forse in primo luogo, perché non è tutto interpretabile sulla base della logica politica della modernità, ma che viene forzosamente piegato a questa logica, dalla quale alcune analisi femminili si sottraggono, in forza di un pensiero allenato a leggere la politica sulla base di categorie tradizionalmente considerate non politiche, o impolitiche. Voglio segnalare oggi due esempi di queste analisi: il testo di Luisa Muraro intitolato Al capolinea della modernità: relazione, relativismo, relatività, pubblicato sull'ultimo numero di Via Dogana, e il dialogo su Condizione umana contro `natura' fra Adriana Cavarero e Judith Butler pubblicato sull'ultimo numero di Micromega (l'annuale almanacco di filosofia della rivista, questa volta dedicato alla «natura umana»). Sono due testi diversi per linguaggio e intenzioni, ma entrambi si interrogano sullo scenario di guerra e violenza nel quale siamo immersi rifiutando di considerarlo, come scrive Muraro, «l'unico e fatale corso delle cose», e entrambi lavorano su un'uscita da questo scenario incentrata su una pratica della relazione contrapposta alla pratica dello scontro frontale. Che di questi tempi, com'è noto, si rappresenta come scontro di civiltà: «una ricerca d'identità fondamentalmente reattiva - lo definisce Muraro -, sul piano inclinato di fare dell'altro lo specchio della propria superiorità»; un confronto simmetrico radicato profondamente tanto nelle strutture bipolari dell'ordine simbolico quanto nella logica politica dell'amico-nemico. Che però non è l'unica logica politica possibile, se si prende sul serio la scommessa della politica delle donne di lottare per «un cambiamento in meglio che dipende anche dall'altro, l'avversario», e che non si trincera nella fissità degli schieramenti, «fonte di identità troppo chiuse e troppo strette l'una all'altra, come mascelle serrate», ma la rompe. Si tratta, si badi, di una scommessa tutt'altro che soft: non a caso, nel testo di Muraro, accanto alla figura della relazione compare, mutuata da Irigaray, quella della croce e del crocevia a cui nel mondo globale ci inchioda quotidianamente il confronto con l'altro. Sì che la relazione non va messa tanto in sequenza con il relativismo, quanto con la relatività: «relativismo significa abbandonare la ricerca di qualcosa di universalmente vero e giusto, nessuna possibile risposta potendosi considerare superiore alle altre»; mentre la relatività comporta «la ricerca di mediazioni per passare dall'uno all'altro punto di vista». Tradotto in politica, al relativismo corrisponde un pluralismo delle differenze che le lascia spesso intatte e incomunicanti, laddove la relatività suggerisce «uno stare in relazione con l'altro che ci distacca dai nostri assoluti ma non ci trasforma nell'altro, genera la fine di una certa nostra fissità e la possibilità di altro». Scommessa non soft, e nemmeno optional. Nel dialogo fra Cavarero e Butler (che si segnala, oltretutto, per un interessante duello fra le due filosofe sullo statuto della psicoanalisi e sul rapporto fra psicoanalisi, teoria del soggetto e decostruzione) la categoria e la pratica della relazione vengono riportate a un piano di necessità ontologica, come già nei loro precedenti lavori (e segnatamente in Vite precarie, il libro di Butler sul dopo-11 settembre): la relazione è la forma sociale che ci è imposta dalla condizione di fragilità e esposizione all'altro che accomuna tutti gli umani sotto ogni latitudine e ogni cultura, e dalla relazione primaria di dipendenza, quella con la madre, in cui tutti veniamo messi al mondo. Anche in questo caso, relazione non è sinonimo di morbidezza: essere esposti all'altro significa anche essere esposti alla violenza dell'altro, o esporlo alla nostra violenza; e dunque non negare l'aggressività ma - psicoanaliticamente, secondo Butler - «riconciliarsi con la capacità distruttiva che è in ognuno di noi, dirigere la propria aggressività verso scopi costruttivi»; e quanto alla violenza politica, «cercare di comprendere la connessione fra le concezioni della sovranità e lefigure del sé, fra le nozioni di nazionalismo e i modelli di mascolinità», fra l'affermazione della revanche patriottica americana e il bisogno di negare o rimuovere i rapporti di interdipendenza in cui anche una grande potenza si trova nel mondo globale. Alla fine della modernità, ritroviamo infatti le nozioni di sovranità e di individuo connesse come all'origine: pensare un'ontologia della relazione e della dipendenza, sottolinea giustamente Cavarero, implica la separazione definitiva dal mito dell'individuo liberale, sovrano e autonomo, che si ripresenta ossessivamente nelle «patologie egocentriche» della soggettività contemporanea, tanto tronfia della propria capacità autopoietica quanto ossessionata dall'angoscia di doversi contaminare e di potersi perdere nell'altro. |