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il manifesto
- 20 Ottobre 2001
Artemisia
e le altre
La perdita prematura della madre e lo sforzo di inserirsi in un mondo
maschile. Da Artemisia Gentileschi a Griselda Pollock
ELENA DEL DRAGO
Griselda
Pollock è forse la più importante studiosa femminista della
storia dell'arte soprattutto novecentesca. Docente di Storia e critica
sociale dell'arte all'università di Leeds, ha pubblicato testi
fondamentali come Generations and Geographies in the Visual Arts (Routledge,
1996) e Differencing the Canon: Feminist Desire and the writing of art
Theories (Routdledge, 2000), tutti rigorosamente non tradotti in italiano.
Particolarmente interessante poi, la lettura dedicata da Griselda Pollock
all'opera di Artemisia Gentileschi: per la prima volta le scelte iconografiche
di Artemisia vengono messe in relazione non alla stupro subìto
ma alla prematura perdita della madre e al successivo sforzo di inserimento
in un mondo, artistico e non, interamente maschile.
L'abbiamo incontrata durante il recente convegno organizzato all'Accademia
di San Luca di Roma, come iniziativa parallela al restauro della tomba
di Giulio II di Michelangelo, e intitolato "Mosè: conflitto
e tolleranza".
Vorrei
iniziare con una domanda biografica: crede che il suo essere nata bianca
nel Sudafrica dell'Apartheid abbia avuto un'influenza sui suoi studi futuri,
orientati a questioni come l'identità e la differenza di genere?
Mi ha senz'altro
influenzato molto profondamente. Ho scritto una raccolta di saggi intitolata
Traveller's Tales, tra i quali uno in particolare, Territories of desire,
riguarda la mia infanzia sudafricana. Credo sia interessante per più
aspetti: innanzitutto per un modo nuovo di rileggere il triangolo edipico
in un contesto coloniale e razzista come il Sudafrica. Da una parte una
madre bianca che fa anche quel genere di cose generalmente destinate agli
uomini, dall'altra una governante nera; e il ritrovarsi, a una certa età,
proprio come nel mito di Edipo, a rigettare la governante africana per
identificarsi con la madre bianca. Il modello edipico non produce esclusivamente
differenze sessuali, ma è anche la base psicologica di costruzioni
razziali.
La mia esperienza personale credo sia interessante per questo: sono nata
in una minoranza bianca sudafricana, con eredità e relazioni diverse
dalle altre. Per esempio, ho potuto passare molto tempo con i nostri servitori
neri e ho visto la differenza tra la mia casa e le baracche dove loro
abitavano. Lì viveva anche una donna, Julia, che badava a me come
governante da quando mia madre era morta. Era una situazione di reciprocità
perché lei, che aveva perso i suoi bambini, aveva altrettanto bisogno
del mio amore. Emerse dunque una simpatia molto profonda tra me e Julia:
eravamo entrambe dei sostituti e ci univa il dolore. Più tardi
sono andata a vivere in Quebéc dove mi sono ritrovata a far parte
di una minoranza francese non cattolica, in una società in cui
la maggioranza delle persone disdegnava gli anglofoni. Due esperienze
di vita molto forti che mi hanno resa emotivamente molto sensibile. Ho
avuto poi la fortuna di essere cresciuta durante gli anni Sessanta. Mio
padre mi diede molto presto da leggere dei testi femministi, Simone de
Beauvoir per esempio, fornendomi così la chiave di lettura e il
linguaggio attraverso i quali potevo capire ed esprimere quelle esperienze.
Negli anni Sessanta, per la prima volta, i benefici dell'istruzione potevano
essere finalizzati. Prima di quegli anni le donne che frequentavano la
mia università non si aspettavano minimamente di poter aspirare
a una carriera, mentre quelle che hanno studiato con me oggi hanno tutte
un lavoro e, soprattutto, hanno capito che si può essere qualcosa
di più che una moglie graziosa. In quegli anni ho capito che potevo
tentare imprese soltanto per me stessa e non per qualcun altro.
Per questo mi preoccupano le affermazioni delle femministe a proposito
delle Donne: mi chiedo sempre, ma quali donne? Io sono un'europea bianca
ebrea, e ci sono molti tipi di donne, quindi non credo esista un Noi,
ma piuttosto una collettività in nome della quale possiamo porci
delle domande a proposito del genere, tenendo sempre ben presente che,
all'interno di qualsiasi collettività, ci sono delle linee di frattura
che riguardano la classe, la religione, la razza e l'esperienza.
E' la stessa cosa che avviene con il modernismo: se si ha una visione
cronologica della storia si procede in un'unica direzione, mentre la visione
del tempo del femminismo credo debba procedere come Freud con i traumi,
avanti e indietro, riprendendo qualcosa che era perso nel passato perché
nel frattempo è accaduto qualcosa che permette di leggerlo. Questo
ti determina ad agire su diversi livelli: a livello immaginativo, ma anche
artistico. L'arte ci permette infatti di "pensare i pensieri"
a livello immaginativo, ed è molto importante.
E' alla
luce della sua esperienza biografica che ha potuto interpretare la vita
e l'opera di Artemisia Gentileschi in modo così originale?
Ho guardato
ad Artemisia Gentileschi in modo molto diverso perché il suo è
un trauma che ho dovuto affrontare anche io: la perdita della madre prima
dell'adolescenza. Ho dunque riletto alcuni suoi quadri, come La morte
di Cleopatra, Giuditta e Oloferne, Lucrezia, non alla luce del suo essere
stata stuprata, perché quando si subisce un trauma non lo si mette
a fuoco e non lo si rappresenta direttamente, ma come la dichiarazione
di una figlia alla ricerca del proprio spazio. Per esempio, se la testa
di Oloferne è una citazione da Caravaggio e la struttura ricorda
il triangolo di Gentileschi, Giuditta rappresenta invece l'agente, il
mezzo di trasformazione dell'artista stessa. Di fronte a una tela come
La morte di Cleopatra, invece, mi sono chiesta quali fossero le ragioni
emotive profonde che hanno spinto Artemisia verso un soggetto così
fortemente caratterizzato. Cleopatra, infatti, è una donna che
rappresenta nel patriarcato romano e nella struttura sociale egizia la
capacità sorprendente di affermarsi politicamente anche grazie
alla propria identità femminile.
Se non conoscessimo i lineamenti esistenziali di Artemisia Gentileschi
queste potrebbero sembrare delle supposizioni azzardate. Ma nel suo caso,
come per molte altre artiste, bisogna saper anche leggere quelle differenze
che non sono tanto espresse con il linguaggio artistico, ma piuttosto
prodotte dall'insieme del lavoro.
Deve avvenire uno "spostamento" perché si possa capire
il doppio gioco di un'artista come Artemisia Gentileschi, oltre la necessità
di dipingere quadri vendibili, appetibili per i collezionisti del tempo,
principi e mecenati. Bisogna indirizzare i propri sforzi per capire cosa
si nasconde sotto la superficie degli indizi rivelatori. In questo caso
la perdita precoce della madre.
Veniamo
all'argomento che ha studiato maggiormente: il Modernismo riletto alla
luce di una storia, anche sociale, femminile.
Quello di
cui mi sto occupando nelle mie lezioni e nei miei libri è un riesame
del Novecento con la storia delle donne in mente. Questo produce non una
semplice rilettura del modernismo, né una storia delle artiste
del Novecento, ma piuttosto una ridefinizione complessiva della mappa
in nostro possesso. Allo stato attuale, infatti, la storia del Modernismo
è stata costruita dai musei d'arte moderna, e in particolare da
un'imposizione di modelli sul caos di avanguardie e movimenti di inizio
secolo, finalizzata a una comprensione quanto più allargata.
Si tratta di identificarsi con un'unica logica, così come avviene
con Freud e la psicoanalisi, Einstein con la fisica, Saussure per il linguaggio.
La questione modernista è stata: cos'è la mente, cos'è
il tempo, cos'è il linguaggio e anche cos'è l'arte. Quindi
si doveva passare dal caos dei movimenti a una risposta sulla natura dell'arte
e lo si è fatto attribuendo a questa una logica: una degli stessi
movimenti, una delle forme. Il modernismo si è chiesto che cos'è
il colore, la forma, cos'è la superficie, e non è un'impostazione
sbagliata perché ci sono molti artisti che fanno arte proprio seguendo
queste questioni. Ma assecondando questa mentalità ti trovi a seguire
la logica indipendente dello stile, e quindi a procedere lungo uno svolgimento
tutto sommato cronologico, un mito.
Quello che mi sembra chiaro è che l'evoluzione artistica vista
dal modernismo segue la stessa struttura del mito di Edipo, il figlio
deve uccidere il padre, deve fare meglio del padre, per poter conquistare
il proprio spazio. In questo schema mitico di evoluzione modernista, sostanzialmente
patriarcale, è chiaro che non si può parlare della donna,
così come non si può parlare di ciò che è
radicale.
Credo che in arte ci siano dei momenti estremamente radicali, come nella
Parigi degli anni Venti, quando tutto era all'avanguardia, la sessualità,
la cultura lesbica, gli esperimenti sociali. Le donne guadagnavano diritti,
cambiava il loro modo di vedere, ma anche il loro modo di vestirsi - pensiamo
a Gertrude Stein, per esempio - e tutto questo fu interrotto dall'ascesa
del fascismo, un'ideologia assolutamente misogina. L'interruzione storica
di una radicalità che tornerà, altrettanto forte, solo molti
anni dopo.
Pensa
agli anni Settanta?
Sì,
ma durante gli anni Sessanta e Settanta ci si trovò a parlare in
termini politici di quanto allora si viveva spontaneamente, la sessualità,
il corpo, l'essere donna. Questa è la grande novità. Così
come si cominciò a leggere con gli strumenti adatti, e quindi a
comprendere, quello che era accaduto durante gli anni Venti perché
si era ormai acquisito un linguaggio capace di comprenderlo ed esprimerlo.
Operazione impossibile per i contemporanei.
Un esempio perfetto è il lavoro dell'americana Cindy Sherman che
in realtà non voleva semplicemente rappresentare il lavoro delle
artiste femministe statunitensi che operavano negli anni Settanta, ma
lo ha reso intellegibile attraverso le sue messe in scena fotografiche.
Quale
crede sia stato, dunque, il ruolo delle artiste femministe che negli anni
Settanta, soprattutto negli Stati Uniti, hanno usato il linguaggio artistico,
"performance" e installazioni, per esprimere istanze politiche?
Credo che
la storia vada guardata sempre in retrospettiva: proprio grazie alle esperienze
e ai fatti successivi a un dato momento, è possibile comprenderlo
appieno. Oggi si capisce il significato e l'importanza del lavoro di Judy
Chicago oppure di Mary Kelly. Oggi possiamo fare un'analisi molto più
intelligente di quello che hanno voluto esprimere, mentre non credo che
allora potesse essere recepito pienamente. Ora possiamo scrivere con mente
veramente aperta la storia del XX secolo, il lavoro di artiste come Carol
Rama o Meret Oppenheim o l'apporto fondamentale di certa arte femminista
allo sviluppo del minimalismo così come quello di Mary Kelly all'arte
concettuale.
Crede
che la generazione attuale di artiste sia in grado, e disposta, a sfruttare
appieno le conquiste delle generazioni precedenti di donne che hanno lottato
per segnare con la loro differenza il sistema, artistico e non?
Questa è
un nodo cruciale: non capisco perché questa generazione di artiste
non riesca pienamente a fare proprie le conquiste del femminismo. Forse
la spiegazione sta nel fatto che la nostra struttura psicologica è
fatta per ribellarci da figlie al padre e non da donne ad altre donne.
Per noi che eravamo ragazze arrabbiate negli anni Sessanta era semplicemente
perfetto: eravamo figlie che si ribellavano ai padri.
Quello che osservo è un rifiuto emotivo di definirsi femministe,
al quale corrisponde una sua successiva accettazione, ma soprattutto intellettuale.
Lo vedo anche nell'insegnamento: al mio corso spesso arrivano studentesse
sui trenta anni, mentre molto rare sono le donne più giovani. Anche
se mi sembra che qualcosa stia cambiando.
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