Libreria delle donne di Milano

Manifesto 21 Aprile 2011

Redazione del sito: Non riproduciamo la bibliografia perché ci sembra gravemente incompleta, mancano i numerosi lavori usciti in italia sul tema della lingua materna.


Le madri del linguaggio

Felice Cimatti

Incontro con l'antropologa Dean Falk, autrice di un saggio appena uscito da Bollati Boringhieri, «Lingua madre. Cure materne e origini del linguaggio» in cui sottrae la parola al dominio cognitivo e la assegna a ciò che è caldo, affettivo, corporeo. «I piccoli della specie Homo sapiens - dice - non usano i suoni linguistici per comunicare né per pensare, bensì per rimanere in contatto con la persona che si prende cura di loro, anche quando è impegnata in altre attività». E illustra il motherese, un parlato.
La tesi sostenuta dall'antropologa Dean Falk nel saggio titolato Lingua madre. Cure materne e origini del linguaggio, appena edito da Bollati Boringhieri, ci ricorda che il linguaggio umano è qualcosa di caldo, affettivo, corporeo. Tesi niente affatto scontata, visto che le due teorie più diffuse sull'origine e la funzione del linguaggio umano sono attualmente quella comunicativa (parliamo per «trasmettere» pensieri da una testa all'altra) e quella cognitiva (parliamo per articolare in modo esplicito i nostri pensieri). Di fatto entrambe queste teorie considerano il linguaggio un'entità mentale, qualcosa che ha a che fare più con il pensiero che con il corpo, più con il ragionamento che con l'emotività. La missione di Dean Falk, invece, sembra essere quella di riportare il linguaggio alla sua radice più elementare: all'inizio le piccole e i piccoli della specie Homo sapiens non usano i suoni linguistici per comunicare né per pensare, bensì per rimanere in contatto con la persona che si prende cura di loro anche quando questa è impegnata in altre attività, ad esempio il procacciamento del cibo.
La premessa antropologica della sua teoria sulle origini del linguaggio è il passaggio alla statura eretta. Potremmo dire che, all'inizio, c'erano i piedi?
Sì, i paleoantropologi ritengono che il muoversi su due piedi sia stato il cambiamento principale che ha separato i nostri antenati dalle scimmie antropomorfe fra i cinque e i sette milioni di anni fa. I piedi vennero per primi.
Quali sono le conseguenze di quella peculiarità biologica dei neonati umani che - diversamente da quanto accade agli scimpanzé - per molti mesi dopo la nascita li rende incapaci di aggrapparsi al corpo della madre?
Le conseguenze sono, per esempio, che le madri hanno sviluppato abilità, basate su sostrati neurologici caratteristici, che si traducono nella capacità di intendere i pianti, le espressioni facciali, i gesti dei neonati. Da parte loro i neonati hanno sviluppato nuovi modi di gridare, anch'essi basati su specifici meccanismi neuronali, incluso il grido accompagnato da lacrime, che le scimmie antropomorfe non conoscono. Le ricerche hanno mostrato che la maggior parte delle grida dei neonati nascono dal bisogno di contatto fisico con chi si prende cura di loro. I neonati gridano di meno in quelle culture in cui sono comunemente portati a tracolla e in cui viene loro permesso di dormire vicino alle madri. I giovani scimpanzé rimangono attaccati alle loro madri giorno e notte, e in quelle rare occasioni in cui in cui vengono separati dal loro corpo si lamentano piagnucolando. Più tardi, al tempo dello svezzamento, verso i quattro anni circa, le madri si rifiutano di trasportare i piccoli sul proprio corpo e questi vengono presi da vere e proprie crisi di collera.
Malgrado le profonde somiglianze fra il corpo e la mente degli umani e quelli degli scimpanzé, questi non hanno un linguaggio simile al nostro. Perché questa differenza?
In realtà fra scimmie antropomorfe e gli umani la somiglianza maggiore riguarda i corpi piuttosto che i loro processi mentali. Il cervello umano ha dimensioni circa tre volte maggiori di quello di una scimmia antropomorfa, e al suo interno è organizzato in un modo molto più complesso. In particolare, nella corteccia esterna del nostro cervello (ma non in quello delle scimmie antropomorfe) si sono evolute aree che favoriscono lo sviluppo del linguaggio. Questo è accaduto perché i predecessori degli umani attuali intrapresero un percorso evolutivo differente (avviato quando cominciarono a muoversi su due zampe), che ha portato a nuovi stili di vita, a loro volta stimolanti di più complesse forme di comunicazione vocale.
Il filosofo tedesco Arnold Gehlen sostiene che la chiave di volta per comprendere le caratteristiche specie-specifiche degli esseri umani va cercata nella loro neotenia, ovvero nel lungo periodo di immaturità e di mancanza di autonomia che contraddistingue i piccoli umani. Secondo questa prospettiva, il linguaggio non dipende da capacità logiche, al contrario, dipende dalla fragilità e impotenza dei nostri corpi naturali. È d'accordo?
Gehlen è nel giusto nel ritenere che il lungo periodo di immaturità di cui fanno esperienza i piccoli della specie umana sia cruciale per l'evoluzione di quelle caratteristiche che ci rendono umani. Di fatto lo studio comparato delle «storie di vita» nei primati umani e non umani attualmente sta ricevendo molta attenzione da parte degli antropologi. La prolungata dipendenza degli infanti consente loro di disporre di un tempo maggiore per venire introdotti alla socializzazione da parte chi si prende cura di loro (inclusi i fratelli) e per acquisire le conoscenze necessarie per la loro successiva sopravvivenza. Questa lunga dipendenza è anche associata a uno sviluppo più prolungato del sistema nervoso, che garantisce la base neurologica necessaria per l'evoluzione di comunicazioni vocali complesse, dalle quali si generano i primi barlumi del linguaggio. Credo che il prolungamento dell'immaturità, più che essere indicativo di una nostra fragilità costitutiva, abbia funzionato come un adattamento positivo al cambiamento dell'anatomia.
Le sembra pertinente paragonare il linguaggio umano a una specie di ninna nanna, anche se molto complessa?
Il linguaggio umano è davvero molto complicato, e effettivamente presenta aspetti musicali, spesso non riconosciuti, che derivano, probabilmente, da antichi sostrati neuronali che sfociarono successivamente nelle ninne nanne presenti in tutte le culture umane. Gli aspetti musicali del linguaggio includono la prosodia come il tono di voce. Benché si tenda a pensare il linguaggio come composto soltanto da sequenze di suoni significativi o simbolici, il tono di voce veicola una larga quantità di informazioni circa le intenzioni del parlante, la sua attendibilità, e le sue risposte emotive al contenuto di quanto detto. Gli adulti sono in grado di comprendere in modo molto rapido, e spesso subliminalmente, il contenuto prosodico del parlato, così come il linguaggio corporeo.
Nel suo libro ci si imbatte nella parola «motherese». Come ce ne spiegherebbe il significato?
Il motherese è una buffa parola per indicare quella particolare modalità linguistica usata dagli adulti per parlare ai neonati. Nonostante le diversità culturali, ciò che contraddistingue il motherese è una forma di parlato lenta, ripetitiva, melodica, che spesso in modo inconscio accentua alcune caratteristiche del parlato consueto. Il suo vocabolario è semplificato, il che aiuta i neonati ad assimilare le strutture di base della lingua che stanno apprendendo. Per esempio, il motherese implica la segmentazione del flusso sonoro, la capacità di capire dove finisce una sillaba o una parola e dove ne comincia un'altra, e questo aiuta i neonati a entrare nel mondo, favorisce il loro processo di socializzazione. Le sue funzioni non si esauriscono nel «lanciare» il processo dell'acquisizione di una lingua, perché serve anche a esprimere emozioni e a insegnare dove sta il pericolo: l'esempio più ovvio è il «noooo» pronunciato per dire «stai lontano da quell'oggetto pericoloso». L'antropologa Wenda Trevathan, che ha assistito a più di duecento parti, ha scoperto come subito dopo la nascita del piccolo le madri comincino a parlargli con un tono di voce più alto del normale, e anche questa è una caratteristica del motherese.
Quali sono i collegamenti biologici fra musica e linguaggio?
Credo che linguaggio e musica si siano evoluti allo stesso tempo da sostrati neurologici simili a quelli che permettono le grida dei primati non umani. La musica è considerata un «linguaggio delle emozioni» e effettivamente lo è. Viene elaborata dall'emisfero destro del cervello, quello intuitivo, olistico, emozionale. Il linguaggio, invece, è estesamente una funzione dell'emisfero sinistro del cervello, e implica il trattamento di segmenti di suono che vengono arrangiati (e riarrangiati) per assumere un significato simbolico. Quando parliamo, noi usiamo entrambi gli emisferi; il destro, in particolare, provvede alla musica del nostro parlato, ossia al tono di voce.
Una caratteristica specifica del linguaggio umano è la sintassi: come può una relazione così intima e calda come quella che si stabilisce fra il neonato e sua madre essersi evoluta in un dispositivo, quello sintattico, che sembra invece del tutto incorporeo e formale?
La sintassi, probabilmente, non è stata inventata dalle madri dei primi gruppi di ominini, potrebbe essere entrata in gioco molto più tardi, e potrebbe essere stata inventata dai bambini. Le porto un esempio dei nostri giorni: è stata osservata in un gruppo di bambini sordi nicaraguensi l'emergenza di una lingua dei segni completamente nuova. Nei primati superiori non umani sono spesso le madri e gli individui più giovani a diffondere quelle che si chiamano invenzioni «protoculturali». Il lavaggio dei chicchi di grano da parte di alcuni macachi giapponesi è solo uno dei numerosi esempi documentati. Come ho spiegato nel mio libro, è ragionevole immaginare che le vocalizzazioni non linguistiche intercorse fra le prime madri ominine e i loro figli abbiano spianato la strada alla comparsa, molto più recente, delle prime parole, le quali probabilmente precedono una comparsa ancora più recente di altre proprietà del linguaggio, inclusa la sintassi.

Secondo Jacques Lacan il linguaggio può apparire, nello sviluppo del piccolo umano, solo quando una terza figura, il padre, si interpone fra madre e figlio. Con questa operazione si instaura l'ordine simbolico. Senza l'intromissione del padre non ci sarebbe linguaggio, perché la strettissima relazione fra madre e figlio non ne avrebbe bisogno.
La mia teoria è ovviamente molto diversa da quella di Lacan, più orientata sul ruolo del maschio. Nessuno può avere certezza sul quando si siano formate le unioni di coppia fra uomini e donne, o su quando i nostri antenati abbiano cominciato a comprendere la nozione di paternità. Sembra altamente probabile, comunque, che i nostri più antichi predecessori maschi e femmine si impegnassero in attività diverse (conoscevano già una prima divisione del lavoro), che la selezione naturale avesse selezionato le coppie madre-neonato, e che le madri abbiano contato sulle altre donne più che sugli uomini per tutto ciò che riguardava i propri figli. Il linguaggio potrebbe anche non essere necessario a stabilire forti relazioni fra le madri umane e i loro piccoli, ma lo è la comunicazione a due vie, quella che si basa su gesti corporei e facciali, sulle grida degli infanti, su ninne nanne e altre vocalizzazioni prosodiche. Credo che le prime parole scaturirono da queste radici, alle quali nessuna figura terza è necessaria.

Lei crede c'entri la sua identità sessuale con l'avere attirato l'attenzione sul fatto che, all'inizio, il linguaggio è una forma di contatto verbale?
Credo di sì e vorrei fornirle il retroterra di questa mia posizione. Nel 1997 partecipai a Firenze a un seminario molto interessante sul tema Uomo, mente, musica. Ellen Dissanayake, una studiosa indipendente, tenne una conferenza sull'importanza del motherese nell'evoluzione delle arti temporali, che mi colpì particolarmente. E mi fece comprendere come il motherese fosse dovuto comparire molto presto nell'evoluzione umana. Il primo seme delle mie idee sulla comparsa del linguaggio viene da quella conferenza. Madri e figli devono avere elaborato una sorta di parafulmine contro la dura selezione naturale causata da quel drastico e decisivo cambiamento corporeo e cerebrale che rese il parto molto più difficile. Nonostante oggi, nel campo della paleoantropologia, ci si occupi delle femmine più di quanto non succedesse un tempo, gli effetti della selezione naturale sulle donne e i bambini non hanno ancora ricevuto la piena attenzione che meritano. La mia personale esperienza nell'aver dato alla luce due bambini mi ha reso chiaro che la nostra specie si è trovata di fronte a un «dilemma ostetrico» nel momento in cui il canale del parto si restrinse in conseguenza dell'andatura bipede, mentre il volume cerebrale del nascituro aumentava. Molti piccoli umani, insieme alle loro madri, devono essere morti durante questo processo. Sopravvisse, evidentemente, chi possedeva caratteristiche adattative, come lo sviluppo rallentato dei neonati, che cambiarono radicalmente il corso dell'evoluzione umana.