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| Il manifesto, 23 Novembre 2005 INTERVISTA Già, la guerra è un ricordo vago e lontano per i giovani: due terzi dei 60 milioni di iraniani ha meno di trent'anni e ha solo vaghissimi ricordi di appelli ad andare al fronte, allarmi antiaerei, missili scud che si abbattono sulle case. Resta però nelle vite di tanti iraniani. Resta nella vita di Gilaneh: la seconda parte del film ce la mostra quindici anni dopo, nel 2003, madre ormai stanca dell'esistenza, che si consuma per assistere il figlio menomato dalle armi chimiche. Resta nelle vite delle «madri dei martiri», povere donne rimaste sole che trovano ormai l'unico senso di sé nell'accudire la tomba del figlio caduto in guerra (nel documentario Behesht Zahra, girato da Mehran Tamadon con Firouzeh Khosrovani nel grande cimitero a sud della capitale iraniana, il «cimitero dei martiri»: anche questo è stato proiettato a Roma nell'ambito della rassegna asiatica). Parte del messaggio è nel commento amaro di un uomo che guarda la tv, nella notte dei bombardamenti su Tehran, e sbotta: «Il governo poteva mettere fine a questo massacro molto prima». «L'Iran dovrebbe ripensare quella guerra, non rimuoverla», continua Fatemeh Motamed Aria - è questo, dice, il messaggio che ha voluto mettere in quel film (Gilaneh sarà presentato questa sera alla Casa del Cinema, a Roma, alla presenza dell'attrice). La storia della madre del veterano disabile è parte di una trilogia della regista Rakhshan Bani-Etemad, considerata oggi una decana del cinema iraniano (e Fatemeh Motamed Aria ha recitato in più d'uno dei suoi film). Sulla quarantina, Fatemeh Motamed Aria si considera parte della «vecchia generazione» del cinema iraniano, quella che aveva cominciato prima della rivoluzione islamica nel 1979. In effetti lei aveva cominciato a studiare teatro da quattordicenne, per una decina d'anni. «Poi però dopo la rivoluzione il teatro è stato bandito - solo negli ultimi anni è ripreso. Allora sono passata al cinema. Oggi sono molto contenta di questo passaggio, ma sono anche felice di aver cominciato con la recitazione classica». Spiega: «Ho lottato molto per portare nel nostro cinema cose che allora non c'erano. Per esempio usare la mia voce, la ripresa in diretta senza doppiaggio. Ho insistito che un'attrice non deve necessariamente essere bella, deve saper recitare. Deve avere un'idea: io ho sempre preteso di avere voce in capitolo. E tutto questo l'avevo imparato con il teatro. Oggi tutto questo è diventata la norma, e sono contenta di essere stata tra i fautori di questo cambiamento». Oggi il cinema iraniano è in una fase di passaggio, dice Fatemeh Motamed Aria. «C'è la vecchia generazione e ce n'è una nuova, post-rivoluzionaria, forse più audace. Ma è come se ci fosse un vuoto tra le due, linguaggi troppo diversi per mescolarsi». Certo è che il cinema oggi è una delle forme espressive dominanti in Iran. Ne testimoniano una produzione di una sessantina di film all'anno, un'audience interna e internazionale, una decina di magazines di cinema sia in farsi che in inglese. Alcuni film gireranno però solo nel mercato underground, in videocassette e dvd (tutta la produzione occidentale arriva in Iran così). «Gli iraniani vanno al cinema volentieri, il pubblico è di ogni età: ci vanno i molto giovani, ma è anche un passatempo di famiglia». Sono estremamente popolari i festival di cinema: quelli più rinomati a Tehran e a Isfahan, e diversi festival minori, rassegne di cortometraggi, cartoni animati, un festival di film sull'ambiente. «Il pubblico accetta quando parli con onestà. Cosa intendo dire? Prendi la guerra: nessuno accetterebbe i proclami patriottici». Negli anni `90 il cinema iraniano ha vissuto una rinascita, come in genere le arti. I film hanno cominciato a mostrare donne in rottura con il loro mondo, questioni sociali, storie d'amore, le complessità della vita: temi sempre al limite. Registi e registe sono diventati autorità. Sono venute alla ribalta donne di grande capacità: come Bani-Etemad, o come la femminista Tahmineh Milani, o la giovane (ha 23 anni) Samina Makhmalbaf - tutte conosciute nei festival internazionali, ma conosciute e viste prima di tutto in Iran. Tutte e tutti si sono scontrati con la censura, prima o poi (Milani è anche andata in carcere, per il film La metà nascosta, del 2001, in cui ripercorre in modo critico il ruolo e la sorte dei gruppi studenteschi durante la rivoluzione, quando si scontrarono laici e islamici. Ma il film continuava a restare nelle sale, e alla fine anche lei è stata rilasciata per intercessione del'allora presidente Mohammad Khatami). In Iran ogni progetto e sceneggiatura va sottoposto in anticipo all'approvazione dell'autorità, così come la selezione del cast e l'editing finale. Ma ormai generazioni di registi e attori-attrici hanno imparato come spingersi ai limiti del permesso e forzarli. «E' un meccanismo subdolo. Tutti noi conosciamo bene cosa si può e non si può fare, non c'è neppure bisogno che ci venga detto: ci auto-censuriamo benissimo. Ma se sai usare il linguaggio del cinema, riesci a dire quello che vuoi. Se mi sono scontrata con la censura? certo. Ma sono riuscita ad aggirarla. In Gilaneh io, la madre, abbraccio e bacio mio figlio, lo tocco [per trascinarlo sulla sedia a rotelle, ndr]. Questo è vietatissimo da tutte le regole, niente contatto fisico tra donne e uomini. E però i censori l'hanno accettato, alle strette non hanno potuto rifiutare. Se sai fare cinema hai un certo potere». Certo, resta un esercizio difficile, spesso estenuante. A volte le sceneggiature aspettano anni prima di ricevere il nulla osta (come del resto i libri). In fondo, nel cinema è successo come per la stampa e l'editoria: è diventato un terreno di scontro molto politico, fin dai tempi di cui Mohammad Khatami era ministro della cultura (nel `92 aveva dato le dimissioni in protesta contro «l'ignoranza e arretratezza» dei censori) e poi quando, arrivato alla presidenza della repubblica, aveva inaugurato una stagione di apertura nella società iraniana - e se le riforme politiche sono fallite, il cambiamento nel clima culturale del paese è forse il maggiore successo di quegli otto anni. Ora
quella stagione politica è chiusa, l'Iran ha un parlamento a maggioranza
conservatrice e un presidente, Mahmoud Ahmadi-Nejad, che si definisce fondamentalista.
«Sì, ora abbiamo i radicali al potere. Cosa succede ora? per il momento
nulla di molto visibile: come se tutti fossero in attesa. Ma non potranno riportare
l'Iran indietro di 27 anni», commenta Fatemeh Motamed Aria. «La nuova
generazione, quella che è cresciuta con la rivoluzione islamica, non accetta
facilmente le imposizioni». |