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il Manifesto
- 25 Aprile 2009
CRISI
GLOBALE
Ida Dominijanni
Voce autorevole nel dibattito internazionale, Loretta Napoleoni ha una
biografia che sembra una sintesi della globalizzazione: università
e nessuna prospettiva di lavoro in Italia negli anni '70, nel '79 un master
negli Stati uniti - «sono un'emigrata, non un cervello in fuga,
me ne sono dovuta andare dall'Italia contro la mia volontà, niente
di glamour» -, negli anni '80 due esperienze di lavoro a Budapest
per il Fondo monetario internazionale e nella City di Londra per una banca
russa, nel '93 una consulenza per la Berd (la banca europea deputata alla
transizione dei paesi dell'est verso l'economia di mercato) poi abbandonata
per contrasti politici, nel 2005 la presidenza del gruppo di lavoro sull'economia
terrorista per il Club de Madrid. E nel frattempo la specializzazione
alla London School of Economics, le collaborazioni con El Pais, Le Monde,
The Guardian, Internazionale, L'Unità, Repubblica, due saggi -
Economia canaglia e I numeri del Terrore, Il Saggiatore - tradotti in
quattordici lingue, e perfino due romanzi. L'ultimo nato, per l'editore
Chiare Lettere, si intitola La morsa e in questi giorni è oggetto
di un lancio mediatico imponente, e per una volta meritato, al quale volentieri
ci associamo. E' un libro che mette coraggiosamente i piedi nel piatto
delle ragioni inconfessate della crisi economica mondiale, argomentando
con dovizia di dati la seguente tesi: all'origine della crisi non c'è
un estemporaneo impazzimento della finanza, c'è una follia politica
che comincia dopo la caduta del Muro di Berlino e raggiunge l'apice nella
guerra al terrorismo di Bush, finanziata con l'abbattimento dei tassi
d'interesse e legittimata con l'uso della paura e l'illusione dell'arricchimento
facile. Quanto al futuro, due prescrizioni obbligatorie: dire addio al
consumismo sfrenato e farla finita con le classi dirigenti che ci imbrogliano
e con la nostra creduloneria verso le favole che ci raccontano. Chi teme
un indigesto tomo per specialisti si tranquillizzi: si tratta di un racconto
avvincente e tagliente ambientato nelle location più sintomatiche
del mondo globale, dalla New York scintillante di Clinton e impaurita
di Bush alla Londra dei personal shopper, dal parco giochi di Las Vegas
agli hotel a sette stelle di Dubai. Meglio di un film. Abbiamo cominciato
a discuterne durante un Faccia a faccia a Radio Tre mercoledì scorso
e continuiamo qui.
La morsa
che secondo te sta soffocando l'economia e la democrazia occidentale è
quella fra la paura del terrorismo e la bolla speculativa innescata dalla
guerra al terrorismo: in sintesi, Al Quaeda ci ha distratti mentre Wall
Street ci derubava. E' un'ipotesi che conquista, mettendo a contatto la
nostra esperienza del disastro politico mondiale successivo all'11 settembre
con quella del disastro economico attuale. Ma fa luce anche su dinamiche
poco esplorate del periodo fra l''89 e il 2001, gli anni ruggenti della
globalizzazione. Quali sono i passaggi principali di tutta questa vicenda?
Lo snodo cruciale è la politica economica con cui Bush risponde
all'attacco alle Torri gemelle: un abbattimento precipitoso e aggressivo
dei tassi d'interesse - dal 6% di fine 2001 all'1,5% della primavera 2003
- che serve a finanziare senza drenaggio fiscale le guerre in Afghanistan
e in Iraq e a legittimarle, creando le condizioni per la bolla speculativa
e alimentando contemporaneamente una bolla di consenso basata sulla crescita
continua. Con la vendita e la cartolarizzazione dei mutui subprime, la
bolla finanziaria crescerà a dismisura, fino a esplodere sei mesi
fa nella recessione che sappiamo. Dunque le responsabilità economiche
e politiche di Bush sono enormi. Tuttavia questa politica economica non
comincia con lui ma con Greenspam, negli anni '90, per garantire agli
Stati uniti la guida del processo di globalizzazione innescato dalla caduta
del Muro facilitando la deregulation. Ogni volta che sul mercato globale
si prospetta una crisi - la crisi del rublo, del dot.com, dei mercati
asiatici, della Turchia, del Messico - Greenspam taglia i tassi e pompa
il credito, proteggendo Wall Street, la City di Londra e tutta la finanza
occidentale da un'onda che in tal modo la sfiora ma non la travolge. Le
crisi restano regionali, la finanza occidentale ci specula sopra, ma la
crisi di sistema non viene scongiurata, viene solo rinviata. Finché
il meccanismo salta: stavolta la crisi è globale, ed epocale. Chiude
l'epoca cominciata nell'89 e culminata nella guerra al terrorismo.
Che cosa
succede nel frattempo nell'altro campo, quello del terrorismo internazionale?
Il tuo libro dà molto rilievo alle dinamiche della finanza islamica.
La finanza islamica nasce negli anni 70, dopo la prima crisi del petrolio,
ma resta allo stato embrionale fino all'ingresso di Cipro nell'area dell'euro,
quando Dubai diventa uno snodo finanziario cruciale fra Est e Ovest. L'impulso
decisivo per il grande salto, però, lo riceve anch'essa, per una
strana eterogenesi dei fini, dalla guerra americana al terrorismo. Il
Patriot Act, la famosa legge antiterrorismo varata dal Congresso all'indomani
dell'11 settembre, oltre a limitare pesantemente le libertà civili
conteneva delle norme contro il riciclaggio del danaro sporco, volte a
bloccare l'ingresso negli Stati uniti di soldi di Al Quaeda. Il sistema
bancario internazionale reagì suggerendo ai clienti di disinvestire
in dollari e investire in euro. Ma una parte dell'ingente flusso di danaro
che uscì dagli Usa era fatto di capitali arabi - 900 miliardi di
dollari, prima dell'11 settembre - , che non furono reinvestiti in euro
ma rimpatriati nei paesi d'origine, soprattutto in Malesia e a Dubai,
dando così impeto alla finanza islamica. Tutto questo è
avvenuto nella più completa ignoranza e sottovalutazione da parte
degli Stati uniti, che non solo non ne sapevano nulla prima dell'11 settembre,
ma dopo si guardarono bene dal seguire le piste finanziarie per indagare
e combattere Al Quaeda.
Eppure
all'epoca si disse che era la prima pista da seguire, come mai non fu
fatto?
Perché quello che importava a Bush non era affatto catturare Osama
Bin Laden, ma scatenare la «guerra al terrore» per invadere
l'Iraq, dove Al Quaeda non c'era, e mettere in atto a partire dal «Grande
Medioriente» il progetto di dominio globale degli Stati uniti delineato
dai neoconservatori. Risultato: il sogno di Bin Laden di dissanguare il
capitalismo occidentale si è realizzato, per merito non suo ma
dei governi occidentali.
La finanza
islamica è diversa da quella occidentale? In che cosa?
Completamente diversa, perché poggia sul codice etico della Sharia
che vieta la speculazione: il danaro non può essere usato per creare
danaro, il credito viene concesso solo per finanziare delle imprese produttive.
E il rapporto fra banca e cliente è un rapporto solidale, di due
soci in affari. Questi due elementi hanno tenuto la finanza islamica fuori
dal business dei mutui subprime. Da noi invece si vende il rischio come
se fosse un bene, e le banche non hanno più nulla di un'istituzione
sociale, sono diventate solo aziende a fini di lucro.
Tu hai
studiato l'economia criminale. Che ruolo hanno avuto le mafie nell'incubazione
di questa crisi, e che ruolo possono giocare ora che è esplosa?
Un ruolo enorme in entrambi i casi. Dubai è cresciuta negli anni
90 anche come paradiso fiscale della mafia russa. Dopo il Patriot Act,
la 'ndrangheta si è avvalsa del trasferimento del business del
riciclaggio dagli Stati uniti all'Europa. E oggi, la crisi è di
sicuro una grande occasione per l'economia criminale, come insegna la
storia della mafia americana dopo il '29. Quando non c'è né
liquidità né credito, un'economia come quella mafiosa basata
sui contanti ha un enorme potere di penetrazione ed è pronta a
soccorrere le imprese che le banche abbandonano. Inoltre, in tempi di
crisi il controllo politico si abbassa: non si bada troppo alla provenienza
dei soldi, pecunia non olet. Infatti al G20 s'è parlato dei paradisi
fiscali degli evasori, ma non di quelli del crimine organizzato.
In «Economia
canaglia» hai analizzato il mercato del sesso come ingrediente importante
della globalizzazione. C'è una relazione fra questo mercato e quello
dell'economia criminale?
Sì, strettissima. Dopo l''89 l'industria del sesso in Occidente
è diventata un immenso business a cui partecipano e attraverso
cui sono entrate in contatto le mafie europee, quella russa e quella americana.
Negli
anni passati hai seguito la transizione degli ex paesi dell'Est all'economia
di mercato. Come li vedi in questa crisi?
E' uno dei punti fragili dell'Europa, ed è un punto potenzialmente
esplosivo anche per le banche europee che hanno investito molto nell'ex
Est: un collasso del mercato immobiliare lì avrebbe conseguenze
molto negative qui. Per ora la situazione è sotto controllo perché
l'Europa è intervenuta, ma il problema è fino a quando continuerà
ad aiutarli, e come. Non vedo alternative al quantitative easing, la creazione
di moneta apposita da immettere in questi paesi, anche se per ora la Bce
esita di fronte ai rischi di inflazione.
Questa
crisi penalizzerà, com'è sempre accaduto, più le
donne che gli uomini?
Stavolta pare di no: negli Usa sta producendo disoccupazione più
maschile che femminile, colpendo un settore prevalentemente maschile come
la finanza. E' un dato interessante, un'inversione di tendenza rispetto
al passato.
Ma se
il tracollo di oggi ha avuto un'incubazione lunga come quella che tu descrivi,
perché nessuno ha suonato l'allarme prima? Gli economisti non hanno
nessuna responsabilità? E l'informazione? Abbiamo ballato tutti
sul Titanic, sottovalutando quello che si preparava?
Va detto intanto che negli anni '90 tutti gli economisti sono finiti a
lavorare in finanza, e osservare un fenomeno da dentro è molto
diverso che osservarlo da fuori. Salvo poche voci isolate e inascoltate,
ha prevalso una euforia della globalizzazione che ha convinto tutti dell'infallibilità
del modello occidentale. Fatto sta che oggi, di fronte alla crisi del
modello infallibile, non abbiamo una teoria economica alternativa! Quanto
all'informazione, ha fatto solo da eco alle favole dei politici e degli
uomini di finanza. Mi rendo conto che oggi i giornalisti non hanno tempo
di approfondire nulla, ma possibile che nessuno guardi a un orizzonte
di lungo periodo?
In attesa
della teoria alternativa, proviamo almeno a ipotizzare qualche rimedio.
Come se ne esce? Obama, secondo te, ha preso la strada giusta?
Primo rimedio: per uscirne dobbiamo prendere in considerazione tutto,
Marx, Keynes, la teoria della decrescita, tutto quello che ci può
aiutare, senza farci appannare da veli ideologici. Secondo: il consumismo
sfrenato e la finanza cosiddetta creativa, che io preferisco chiamare
finanza degli effetti speciali, ci ha portato a questo disastro: fermiamoci.
Terzo: il protezionismo, che si associa sempre al nazionalismo, al populismo
e agli arroccamenti identitari e razzisti, sarebbe un rimedio peggiore
del male. Questa è una delle ragioni per cui nutro dei dubbi sulla
strategia anticrisi di Obama, che non mi pare esente dal virus protezionista.
E le altre
ragioni?
Non mi convince una risposta alla recessione che invece di porsi il problema
di azzerare il rischio si limita a trasferirlo dal settore privato allo
Stato, salvando il sistema bancario: ci vedo un tentativo di ripristinare
lo status quo ante, un palliativo che non aggredisce il male alla radice.
Per aggredirlo davvero bisogna cambiare più radicalmente strada,
cominciando a infrangere tre miti: quello del rischio come bene commerciabile,
quello del consumo invece della produzione come motore dell'economia,
quello degli immobili come generatori automatici di ricchezza. Bisogna
rilanciare la produzione riconvertendola. E soprattutto bisogna che noi
cittadini ricominciamo a vigilare su quello che politici e banchieri ci
raccontano, e su quello che non ci raccontano: la crisi non è affatto
superata e può riservarci ancora brutte sorprese.
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