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il Manifesto
- 25 Ottobre 2005
Senza
un altrove, sospesi tra i vivi e i morti
Un incontro con Ruth Klüger in occasione della ristampa per l'editore
SE di «Vivere ancora», un classico della letteratura di testimonianza
della Shoah, assente da dieci anni dalle nostre librerie. Autobiografia
di un'adolescenza nei campi, prima a Theresienstadt, poi ad Auschwitz.
Un racconto scarnificato che non cede né alla retorica né
al sentimentalismo
DANIELA PADOAN
Vivere
ancora, l'autobiografia di Ruth Klüger - un classico della letteratura
di testimonianza della Shoah pubblicato dieci anni fa da Einaudi - da
molto tempo non era più andato in ristampa. Fatto incomprensibile,
se si pensa che in Germania la prestigiosa casa editrice Reclam ha pubblicato
un libro di commenti e documenti su questo testo, come è d'uso
con i classici. A colmare un'imbarazzante lacuna ha pensato l'editore
SE, che lo ha recentemente dato alle stampe nella stessa, accurata traduzione
di Andreina Lavagetto (pp. 240, € 19). Ruth Klüger, nata a Vienna,
aveva 7 anni quando, nel 1938, Hitler proclamò l'Anschluss. A 12
anni venne deportata a Theresienstadt e poi ad Auschwitz. Dopo la liberazione
si trasferì negli Stati uniti, dove divenne docente di germanistica
in prestigiose università della California. Oltre alla sua autobiografia,
ha scritto preziosi saggi sulla letteratura tedesca.
In apertura
del suo libro scrive che «la fuga è sempre la cosa più
bella». E, più avanti, «Vienna è stata il primo
carcere da cui non sono riuscita a fuggire». Cos'è la fuga,
nella sua vita?
Quando, ormai
da anni negli Stati uniti, ho cominciato questo libro, ho voluto scriverlo
in tedesco, e ogni volta che non trovavo le parole, chiedevo alla bambina
austriaca che era in me di ricordarmele. In fin dei conti, è vero,
non sono mai andata via da Vienna, è una città dalla quale
non sono mai davvero scappata, ma al tempo stesso non posso stare troppo
a lungo in un posto, forse perché non mi sono mai sentita a casa
da nessuna parte. Se riesci ad andartene, puoi trovare posti migliori,
e la maggior parte delle volte funziona. La nostra è stata una
generazione di rifugiati, che si è spostata nel mondo come mai
prima di allora; io sono solo una di quegli innumerevoli rifugiati. La
fuga è diventata l'espressione del mio mondo e del periodo nel
quale sono vissuta; sono interamente una persona del XX secolo. E nel
XXI continueremo ad avere masse di rifugiati, intere generazioni di rifugiati.
Nel suo
caso, si tratta anche di una fuga dai luoghi comuni. Il suo è un
libro antiretorico, scarnificato.
Ho sempre
evitato il sentimentalismo. Quello che mi fa paura, nelle persone sentimentali,
è che mentono sulle cose. Credere che il mondo possa andare meglio,
è fare del sentimentalismo. Certo, anch'io vorrei che le cose andassero
diversamente, e quando, guardando i miei nipoti, penso a un mondo migliore
per loro, divento sentimentale. Ma nel mio libro e, credo, nella mia vita,
ho sempre cercato di analizzare in profondità le relazioni che
le persone intrattengono tra loro, specie nell'amicizia e nella famiglia.
In Vivere ancora - e questo ha dato fastidio a qualcuno - descrivo come,
durante l'esperienza dei campi, le relazioni non diventassero più
forti, ma continuassero invece a essere difficili e nevrotiche. La Shoah,
la catastrofe, non è stata un beneficio per le relazioni familiari,
è piuttosto ovvio. Eppure molta gente crede che, nelle difficoltà,
gli esseri umani diventino migliori. Perché mai circostanze peggiori
dovrebbero rendere migliori le persone? Auschwitz non è stata una
scuola di niente, men che meno di umanità e tolleranza. Mi è
capitato di parlare con uno studente tedesco che si stupiva di aver conosciuto
a Gerusalemme un ebreo ungherese sopravvissuto ad Auschwitz che detestava
gli arabi. Perché, ho reagito io, quell'esperienza avrebbe dovuto
renderlo più tollerante? i campi di concentramento sono stati distruttivi
dell'animo umano e non solo dei corpi; certo non una scuola di umanità.
Lei parla
della tentazione di identificarsi e assentire alla persecuzione. Racconta
di quando guardava le facce del Rassenschänder, «I profanatori
della razza», ritratti nel giornale: «erano uguali identiche
a quelle dei miei zii, e io cercavo di immedesimarmi nello sguardo di
coloro che ne erano inorriditi».
Gli ebrei,
a Vienna, cercavano di trovare le ragioni per cui i non ebrei li odiavano,
e uno dei luoghi comuni ricorrenti era che avessero troppo denaro e che
lo ostentassero. Mia zia diceva che non bisognava indossare gioielli per
strada, per non fare «antisemitismo». Si cercava di non suscitare
aggressività, si assumeva su di sé lo sguardo dell'altro.
Era un vedersi riflessi nello specchio di occhi cattivi, per usare le
parole di Yeats nel Mirror of Malicious Eyes. Non si sfugge dall'immagine
che ti viene ritorta contro, si finisce per crederle. E questo è
forse il veleno più profondo e insidioso del razzismo.
Lo scrittore
israeliano Aaron Appelfeld, anch'egli sopravvissuto, sostiene che, a differenza
di tutte le discipline che si occupano della Shoah, la letteratura è
in grado di creare «quel genere di intimità che ci tocca
personalmente». Cosa pensa della contrapposizione che spesso si
è venuta a creare tra testimoni e storici?
Appelfeld
ha ragione, ma avrei qualcosa da aggiungere; la letteratura della Shoah
è una letteratura di sopravvissuti, di scampati, e questo dà
la confortevole sensazione che tutti ce l'abbiano fatta, ma non dobbiamo
dimenticare che la maggior parte delle persone, invece, sono morte nei
campi. È solo questa evidenza a poter davvero parlare della morte,
e non delle sofferenze che i pochi sopravvissuti hanno patito per pochi
anni; parliamo di circa sei milioni di persone che sono state uccise,
e questo è ciò che i sociologi e gli storici raccontano,
e non la letteratura, così abbiamo bisogno di entrambe.
Nella
sua scelta di cambiare nome c'è un indissolubile legame femminile.
Ruth emigrò non per fede ma per amore della suocera Naomi.
Il mio vero
nome era Ruth, il mio secondo Susan, ma da bambina tutti mi chiamavano
Susi. Quando sono arrivati i nazisti, però, ho voluto il mio nome
ebraico; allora non sapevo che anche Susanna lo fosse. Quando più
tardi lessi Il libro di Ruth ne fui molto felice, mi parve di essermi
riappropriata del nome giusto per me. Amo questo libro della Bibbia. Nel
Libro di Esther tutti i nemici degli ebrei vengono uccisi, il Libro di
Ruth è scritto contro questo genere di nazionalismo. Ruth non è
ebrea, è una mahabita che diventa ebrea, che decide di emigrare
perché stima di più l'amicizia con la suocera Naomi che
l'appartenenza alla stirpe.
«Volevo
che la vita continuasse», si legge nel suo libro. «Non volevo,
come la moglie di Lot, diventare pietra volgendomi a guardare la città
dei morti».
È
stato proprio dopo la guerra, quando era una questione di ricordare e
raccontare, o di dimenticare e andare avanti; io volevo andare avanti,
scoprire il mondo con tutte le cose belle che mi erano state precluse.
Non volevo guardare indietro. Volevo avere la mia vita, come tutti gli
altri. Cominciare quel genere di esistenza che avevo tanto desiderato
nei campi; ma ovviamente, al tempo stesso, volevo preservare quello che
mi era successo. Era un sentimento ambivalente.
Si può
parlare di questa ambivalenza come di una doppia cittadinanza, nel mondo
dei vivi e nel mondo dei morti?
Le docce
riguardano i morti, l'orrore delle docce riguarda i molti che sono stati
uccisi, e non i pochi superstiti che sono stati reintegrati nel mondo
dei vivi. Noi non abbiamo mai costituito un pericolo per la società,
abbiamo solo cercato di integrarci e, qualunque ferita o dramma avessimo
dentro di noi, abbiamo cercato di interiorizzarlo e conviverci. Sì,
abbiamo una grande parte di noi che è tra i viventi, in forma separata
da quelli che sono morti; ma una piccola parte di noi è due contemporaneamente.
Io sono più fantasma di quanto lei non sia, ma io appartengo a
lei più di quanto appartenga al mondo di mio fratello, che è
morto quando aveva 17 anni. È molto triste, ma è così.
Però c'è una differenza tra il ricordare i morti e l'essere
morti: chi ricorda i morti è ancora vivo. Io ho un grande vantaggio,
sono viva; mio fratello è morto e non ha avuto una vita, dopo.
Senza vita, nessuna altra cosa è possibile, nessuna cosa può
essere pensata o sentita. Ho vissuto fino a 73 anni, e ricordare mio fratello
è solo un minimo tributo. Si tratta di un senso di morte, e del
senso di colpa che abbiamo verso i morti. I miei figli non hanno potuto
sapere chi era mio padre; era un giovane uomo, io sono molto più
vecchia di quanto lui sia mai arrivato ad essere. Mio fratello era un
ragazzo... così, davvero, apparteniamo a due diversi regni, a due
diverse categorie di persone, loro appartengono a quelli che hanno perso
tutto quello che c'è, la vita, nelle docce; è per loro che
le docce sono state quello che sono state, il più orrendo evento
del XX secolo.
Lei ha
scritto che è importante quale dolore si soffre. Cosa significa
convivere con il dolore del ricordo, la consapevolezza che gli uomini
sono capaci di questo?
È
un bilico. Un giorno guardavo mia nuora con i suoi bambini, i miei amati
e meravigliosi nipoti, e ho pensato: e se qualcuno venisse a prenderli,
a strapparli da lei? E poi ho pensato, no, è una cosa che non le
potrà mai accadere, questa donna californiana è qui al sicuro,
non accadrà... e per me questo è un regalo. Non gliel'ho
detto perché immagino che mi avrebbero preso per pazza, ma in quel
momento ero nel mio vecchio mondo, dove potevano venire uomini in uniforme
e prendere i bambini. Questo non passa, questo è sempre qui. Possiamo
perdere tutto. È un sentimento di fondo molto forte in me: essenzialmente
niente mi appartiene, tutto mi può essere tolto, anche la vita
dei miei più piccoli familiari.
«Pensavo
che dopo la guerra avrei avuto qualcosa di interessante e importante da
raccontare», lei scrive. «Ma la gente non ha voluto sentirlo,
oppure soltanto in una certa posa, non come interlocutori, ma come persone
che si sottopongono a un compito spiacevole, con una sorta di rispetto
che facilmente si capovolge in nausea, due sensazioni che comunque si
completano, perché gli oggetti del rispetto, come quelli della
nausea, li si tiene lontani da sé».
Credo che
la parola che ho usato in tedesco fosse più forte di «rispetto»,
qualcosa come «venerazione», o «timore reverenziale».
Si tratta di un sentimento molto vicino alla nausea, al disgusto. Dopo
la guerra, molti affermarono che i sopravvissuti non erano credibili,
così noi divenimmo sospetti; la gente si allontanò da noi
e da allora siamo diventati una sorta di generazione di martiri. Siamo
stati in un certo senso esaltati, e questo è ciò che voglio
dire con il contrasto tra la nausea e il timore reverenziale.
Quando
scriveva che nulla l'ha mai ferita quanto l'accusa che i reduci dai lager
fossero moralmente corrotti, aveva in mente il giudizio di Hannah Arendt
in Le origini del totalitarismo?
Allora non
conoscevo quel passaggio delle Origini del totalitarismo, ma subito dopo
la guerra - perché poi, in Eichmann a Gerusalemme, Arendt cambiò
opinione - anche lei fu partecipe di un comune sentimento di rigetto nei
confronti dei sopravvissuti. Non è stata l'unica, anche se è
stata la più importante. Uno tra i profughi allora più in
vista disse che ci sarebbero voluti istituti di rieducazione per i bambini
come me, perché eravamo completamente corrotti ed eticamente inferiori.
Quando ho sentito queste affermazioni, ho pensato che gli istituti di
rieducazione avrebbero dovuto essere organizzati per quelli che avevano
perpetrato i crimini, i colpevoli, e non per le vittime. Ho molto riflettuto
su questo argomento e penso che davvero fossimo innocenti; quello che
avveniva nei campi non era un crimine, ma un profondo istinto di sopravvivenza.
Rubare il cibo a qualcun altro faceva parte di quella realtà, e
in ogni libro sui campi di concentramento si può leggere che era
del tutto comune coalizzarsi in due, tre persone, per sopravvivere: Elie
Wiesel e suo padre, Primo Levi e i suoi due compagni. Lo stesso accadde
a me, a mia madre e a Susan, la ragazza che mia madre adottò nel
campo, e che nel libro ho chiamato Ditha. Ovunque, la gente ha continuato
a cercare di essere umana, e bisogna giudicare caso per caso. Ma molti
pensavano che i campi avessero avuto un'influenza totalmente corruttrice.
Ovvio che non fosse stata un'esperienza edificante: volevano ridurci a
niente. Ma non è così facile distruggere le persone. Dipende
da chi sono. E gli ebrei che arrivavano lì, spesso avevano alle
spalle un bagaglio solido - famiglie amorevoli, tradizioni intellettuali
-, che dava loro una certa forza. Bisogna giudicare caso per caso.
Con parole
ironiche, dissacranti, e che pure vibrano di passione, lei passa in rassegna
i luoghi comuni della letteratura sulla Shoah: l'uso retorico che troppo
spesso viene fatto di Celan, i «piagnistei di Erich Kästner
sulle scarpe ammucchiate dei bambini morti» («una scarpa non
è un'adeguata pars pro toto»), la buona coscienza della visita
ad Auschwitz.
Sono convinta
che i fatti non parlino mai per se stessi ma vadano sempre interpretati,
e che le semplificazioni non mostrino nulla. I mucchi delle piccole scarpe
diventate un simbolo dell'uccisione dei bambini ebrei vanno sempre interpretate,
altrimenti si rischia di guardarle con un sentimentalismo che finisce
col rispecchiarsi in se stesso. E, per questo, i sopravvissuti sono gli
interpreti più legittimi. Dobbiamo guardarci dai sentimentalismi,
dalla tentazione di osservare e limitarci a dire, «che brava persona
sono perché mi vengono le lacrime agli occhi nel vedere queste
cose». Bisogna che continuiamo a focalizzare la nostra attenzione
su quello che è là da capire, e non su noi stessi.
Oggi si
parla continuamente del dovere della memoria. Cos'è la memoria,
per lei?
Credo che
anche la memoria passi da una generazione all'altra, e che cambi, proprio
come cambiano i ricordi nell'arco delle nostre vite. Ogni generazione
ricorderà quello che vorrà ricordare. Lei non ricorderà
quello che a me sembra più importante; adesso potrei raccontarle
quello che a me sembra più importante, e sperare che lei lo integri
nella sua memoria, ma la cosa essenziale è che lei cercherà
e sceglierà, e i suoi figli cercheranno e sceglieranno qualcos'altro.
Non possiamo imporre la nostra esperienza alle generazioni future. Nell'800
tutti pensavano che le guerre napoleoniche sarebbero state la cosa più
importante per secoli, ma ora c'è molto di più nella nostra
memoria collettiva. La Shoah è differente, in molti modi, ma anche
lì la memoria collettiva diventerà selettiva man mano che
passerà il tempo, e anche se continuiamo a dire ai nostri figli,
«non dimenticate, non fate che possa ripetersi ancora», loro
dimenticheranno, e in qualche modo perdoneranno, perché perdonare
è parte del dimenticare. Dimenticare è altrettanto importante
che ricordare. C'è così tanto materiale nella mente umana,
e il modo in cui lo sistematizziamo dipende dalle circostanze della vita
di ciascuno.
Se Auschwitz
non è comunicabile, al fallimento della comprensione lei sembra
offrirci un appiglio: la forza del paragone.
Molte persone
dicono che questa esperienza è talmente incomparabile, inattingibile,
che non si dovrebbero neppure tentare paragoni; bisognerebbe insistere
sul fatto che si è trattato di un evento unico. Ma la mia convinzione
è che tutto può essere comparato, e che solo la comparazione
porta a una qualche comprensione. Quando parlo del mio trasporto sul carro
bestiame, penso che le persone che, chiuse in locali angusti, hanno conosciuto
la paura di morire, possiedano un ponte per comprendere quello che dico.
Quanto a me, anche se so che non potrò mai pienamente capire cosa
significhi essere gasati insieme a una massa di altre persone - che è
la morte più umiliante che posso immaginare - faccio appello al
ricordo del mio trasporto su un carro bestiame sovraffollato. È
un punto di paragone, anche se sono consapevole che non capirò
mai fino in fondo. Ci sono molte esperienze di guerra fatte non all'interno
dei campi che possono essere usate come paragone, purché non si
pensi che le cose siano identiche. Non potremmo comprendere nulla, se
non attraverso la comparazione con qualcosa che già sappiamo; non
abbiamo altri modi. La riflessione sulle condizioni umane non può
prescindere da ciò che si può riconoscere come affine, dall'immedesimazione,
altrimenti non si può che finire col mettere la cosa agli atti.
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