Il Manifesto 30 settembre 2006

Quel che non sanno gli accusatori di Silvia
Gianni Minà

E' un vero piacere salutare la riguadagnata libertà di Silvia Baraldini, che ha usufruito di un passaggio dell'indulto recentemente approvato dal Parlamento italiano, e ha terminato di scontare la sua spropositata condanna. Certamente è più appropriato che usufruisca lei di questa riduzione di quasi 2 anni di pena, dopo averne passato 24 in prigionia (dei quali solo gli aultimi 5 agli arresti domiciliari) che tanti bancarottieri, mestatori della nostra società, rei di spudorati crimini economici e sociali.
Perché Silvia aveva violato le leggi che, negli Stati Uniti, reprimono la protesta sociale delle minoranze e, oltre a partecipare al comitato di difesa, aveva dato il suo contributo all'organizzazione del piano che permise, senza alcuno spargimento di sangue, l'evasione da un carcere di massima sicurezza di Assata Shakur, leader del movimento 19 maggio , ispirato dalle date di nascita di Malcom X e Ho Chi-Minh e contiguo a quello delle Black Panthers.
Ma non ha mai maneggiato un'arma nella sua vita, e nemmeno a mai preso parte ad assalti e rapine, come ancora oggi, con assoluta disonestà, viene affermato dai nostri ipocriti mezzi d'informazione che, pavidamente, si chiedono solo come la prenderanno a Washington e dimenticano che da questa accuse la Baraldini è stata già assolta dalla giustizia Usa.
Non hanno il coraggio, in realtà, di ammettere che una condanna a 43 anni di prigione per reati politici - che in Europa sarebbero stati sanzionati al massimo con 5 anni - è un'aberrazione giuridica, specie se si ricorda che 19 mesi di pena sono stati scontati da Silvia nell'infame unità speciale sotterranea del penitenziario di Lexington in Kentucky, in seguito chiuso per «inumanità» (grazie a una campagna di Amnesty International e delle Chiese protestanti) e successivamente per 4 anni nel carcere di Marianna, nelle paludi della Florida.
Quei disinformati politici della nostra progressista Unione come il sottosegretario Fabris e quei sostenitori insani dell'«ordine» più infame, come Ignazio La Russa, preoccupati di questa piccola riduzione di pena concessa alla Baraldini, dopo che non le è stata risparmiata nessuna sofferenza, materiale e morale, questii signori quale concezione hanno della giustizia, dei diritti umani, del rispetto delle persone o della pietà, visto che si presentano come cattolici e credenti?
Qualunque colpa dovesse scontare, Silvia l'aveva già ampiamente pagata, e da tempo. Se Fabris e La Russa avessero una coscienza, avrebbero dovuto insorgere per difendere i diritti di una cittadina italiana che gli Stati uniti hanno preteso per anni, in contrasto con la Convenzione di Strasburgo, di amministrare secondo i loro codici. Se non ci fosse stata, nel 2001, una delibera della Corte costituzionale sul diritto di un condannato ad essere gestito dal sistema giudiziario del proprio paese d'origine, dove per di più sta scontando la seconda parte di una pena inaudita, la Baraldini sarebbe ancora un essere umano senza diritti civili.
Lo sanno, gli onorevoli signori, che questa donna, disposta, per coerenza alle sue idee, a giocarsi metà della vita, è stata condannata a 20 anni sulla testimonianza di un collaboratore del Fbi che ha sbagliato, nella deposizione, perfino il colore dei suoi inconfondibili occhi azzurri?
Lo sanno che, per caricarle sulle spalle i secondi 20 anni, i giudici del paese vessillo della democrazia hanno generato un aborto giuridico e hanno rubricato come un reato comune quello che era, per loro stessa ammissione nell'istruttoria, un reato politico, e questo per poter applicare la legge Rico , scritta per reprimere i complici mafiosi?
Lo sanno che gli ulteriori tre anni Silvia li ha presi per presunto oltraggio alla corte, solo per non aver saputo dare, secondo i giudici, informazioni esaurienti sulla provenienza di un comunicato delle Fuerzas Armadas de Liberacioòn Nacional de Puerto Rico, ritrovato nella sua abitazione e che era stato, comunque, pubblicato da tutti i quotidiani di New York?
E' tutto scritto nei faldoni che Janet Reno, ministro della giustizia di Bill Clinton, ha inviato al Parlamento italiano all'epoca della restituzione della condannata Baraldini al suo paese d'origine.
Ma forse Fabris e La Russa non sanno leggere l'inglese. E allora io spero che Silvia, malgrado le tante ferite, morali e fisiche, che ha dovuto sopportare in questi anni, anche per la superficialità di politici come questi, trovi la voglia e il tempo di querelare uno come La Russa (e anche il Tg2 che gli concede lo spazio) che si permette di dichiarare «Quest'indulto fa uscire di galera i peggior criminali, i peggiori terroristi e para-terroristi, come la Baraldini».
La verità è che quelli come l'onorevole di An o come Gasparri e Tajani, che hanno continuato per anni a citare Silvia nei loro scombinati interventi in Parlamento o in tv, speravano, con la solita spregiudicatezza, di barattare una Baraldini con i tanti bombaroli neri che hanno insanguinato con 7 stragi il nostro paese negli anni di piombo.
Purtroppo per loro, qualunque slogan continuino a ripetere, Silvia Baraldini non ha mai giocato con la vita degli altri e l'indulto che ha salvato tanti «furbetti» corrotti dell'economia e della politica italiana, per ironia del destino, questa volta ha reso giustizia a una persona esageratamente vittima della violenza della giustizia nordamericana.
(Dal numero 96 di Latinoamerica in uscita dal 17 ottobre 2006 nelle librerie Feltrinelli)

Il Manifesto 27 settembre 2006

«La mia vita per una Black Panther»
Parla la Baraldini
«La libertà è inebriante. Ma non rinnego di aver fatto evadere Assata Shakur, la primula rossa delle Pantere nere. Non c'è reato di cui non venga accusata ed io ero convinta che andasse liberata»
Alessandra Riccio

La libertà è inebriante, mi dice Silvia Baraldini con gli occhi che scintillano. Dopo 24 anni in cui la sua libertà è stata coercita con 19, terribili, mesi di isolamento, con anni e anni di carcere in diversi Stati degli Usa, e per finire con una «detenzione domiciliare» ottenuta con una decisione della nostra Corte costituzionale, l'irriducibile Baraldini può tornare a disporre delle sue ore e del suo tempo nella Roma in cui è arrivata, dopo una dura battaglia con le autorità statunitensi, malata e stanca ma giusto in tempo per accompagnare l'anziana madre nel momento della morte. Da quando la sua unica sorella era perita in un drammatico incidente aereo, dalla sua immacolata e sorvegliatissima cella, la Baraldini aveva capito e accettato, per la prima volta nella sua vita di impegno militante, che c'erano degli affetti, degli obblighi e delle responsabilità più importanti di altri: «Riunire questa famiglia di due persone è diventato l'obbiettivo principale. Per questo ho firmato l'accordo che mi consentiva di tornare in Italia e per questo, prima di atterrare a Roma, ho sottoscritto, quasi ad occhi chiusi, la trasformazione della sentenza americana nei termini della nostra giurisprudenza». Quella condanna americana per reati associativi (evasione e tentata rapina) in base al dispositivo della legge Rico, una legge fatta apposta per colpire la mafia, è stata aggravata dalla Corte d'appello di Roma con il reato di estorsione per una mera questione accademica, ma questo ha significato che, invece di finire la condanna il 29 marzo 2008, Silvia sarebbe tornata in libertà il 29 luglio.
Ma ora questi quattro mesi che le pesavano come macigni non hanno più importanza, Silvia torna ad essere libera dopo aver scontato i reati che ha commesso e che non rinnega, e cioè quelli di aver partecipato, svolgendo un ruolo logistico secondario, all'evasione della giovane «Pantera Nera» Assata Shakur, condannata a 120 anni di carcere per «essere stata presente durante la sparatoria in cui sono morti il suo compagno e un poliziotto». Gli occhi azzurri di Silvia sono lucidi quando ricorda la traiettoria di questa studentessa nera di New York, coraggiosa militante in un partito di cui l'Fbi aveva decretato l'annientamento attraverso un programma (il Co.Intel.Pro) di repressione dei tremila iscritti e molte brutalità, come l'uccisione a Chicago di Fred Hampton. In questo clima di emergenza il partito aprì un dibattito aspro che vide i militanti della West Coast a favore della mobilitazione dell'opinione internazionale e della lotta per vie legali, mentre quelli della East Coast, come Assata, più propensi alla clandestinità.
«Giovane, bella, donna e nera, l'Fbi non esita a farne una specie di primula rossa delle Pantere nere. Non c'è reato di cui non venga accusata e quando viene fermata sull'autostrada fra New York e Washington e ferita in una sparatoria la cui dinamica non è mai stata chiarita, su di lei si scatenano sette processi». E' stata ferita sotto l'ascella - il che dimostra che era con le mani in alto - maltrattata, processata, assolta in sei processi su sette ma condannata comunque a 120 anni di carcere.
«Per chiarezza politica ho riconosciuto il mio ruolo nell'evasione di Assata perché ero persuasa che andasse liberata. Buttata nello scantinato di un carcere maschile, incinta, ha dovuto partorire barbaramente. Il movimento di opinione contro questi abusi era fortissimo e io che facevo parte del suo comitato di difesa legale ero convinta che l'evasione fosse l'unica soluzione, anche se il prezzo da pagare è stato altissimo, perché io non sono stata incastrata, sono stata castigata con una sentenza fortemente punitiva. 40 anni di condanna sono incomprensibili». Per gli altri che insieme a lei hanno lavorato a quell'impresa (2 donne, una assolta, e 4 uomini), ci sono stati otto processi e le condanne sono state pesantissime. Ma perché si sono lasciati prendere? «Sapevo che mi avrebbe interrogato il Gran jury per la mia attività politica pubblica. Avevano già cercato di incolparmi di una rapina ma ho dimostrato che in quel momento ero in Africa. Non potevo immaginare che avrebbero usato la legge Rico che ritiene colpevoli del delitto tutti coloro che appartengono al gruppo accusato. L'uso della Rico contro i politici era nuovo e noi eravamo impreparati».

Silvia è libera. La destra insulta
Angelo Mastrandrea

Non se lo aspettava nemmeno lei che così, da un giorno all'altro, sarebbe potuta uscire a cena come una cittadina qualsiasi. Un gesto comune per ben 24 anni a lei negato, così come per vent'anni, raccontò una volta tornata in Italia, le era stato impossibile andare in bagno chiudendo la porta. La domanda per accedere ai benefici dell'indulto era stata fatta quasi per caso. Ieri pomeriggio, improvvisa, attorno alle 15,30, la risposta: Silvia Baraldini sei libera, finalmente libera, due anni prima del fine pena. Libera per intero e non a metà, come dal 21 aprile del 2001, quando il tribunale di sorveglianza le concesse gli arresti domiciliari in quanto malata di cancro. O come in seguito quando le fu concesso di poter uscire per andare al lavoro, come consulente per il comune di Roma, all'Arci, percorso obbligato dal Pigneto al Tiburtino, tra mille restrizioni e divieti.
«Finalmente ce l'abbiamo fatta, sono tornata una donna libera e posso fare le cose da adulta, tipo tornare a casa tardi la sera», ciò che non ha potuto fare fino a 57 anni, ha raccontato soddisfatta al telefono agli amici, negandosi invece ai giornalisti. Anzi, per sottrarsi al prevedibile assalto ha anche lasciato la sua abitazione. Ma tutto ciò non ha evitato le consuete, immancabili, polemiche dal centrodestra. Nel volgere di poche ore la sua scarcerazione è messa sotto accusa da garantisti doc come l'avvocato di Forza Italia Gaetano Pecorella ma anche da tutto lo stato maggiore di Alleanza nazionale, da Gianfranco Fini a Maurizio Gasparri passando per Storace e Alemanno. Tutti indignati del fatto che una «terrorista» possa essere scarcerata grazie all'indulto, ignorando il fatto che Silvia Baraldini non è mai stata condannata per fatti violenti o di sangue ma per reati associativi e per concorso esterno in evasione, che la condanna a 43 anni di carcere ricevuta negli Stati uniti è assolutamente abnorme rispetto alle leggi italiane e che anche senza l'indulto il 29 luglio del 2008 la donna sarebbe comunque stata definitivamente libera dopo aver scontato ben 26 anni di carcere, dei quali venti negli States prima dell'estradizione in Italia, il 24 luglio del 2000. Ma nel mirino c'è soprattutto il simbolo della sinistra, la donna oggetto di campagne e manifestazioni, cantata da Assalti frontali e Francesco Guccini, che nel '93 scriveva «mi chiedo se ci sono idee per cui valga restare là in prigione. E Silvia non ha ucciso mai nessuno e non ha mai rubato niente».
Pecorella parla di violazione degli accordi con gli Stati uniti: «E' evidente che l'indulto non poteva essere concesso in relazione a condanne inflitte da uno Stato straniero, anche se l'esecuzione avviene in Italia, e che comunque tra i reati esclusi dal beneficio vi sono quelli di terrorismo per i quali la Baraldini è stata condannata». Ma l'ordinanza che le è stata notificata ieri dice il contrario, e cioè che gli «accordi intergovernativi» non possono contrastare con i principi fondamentali della Costituzione italiana, nello specifico quelli dell'uguaglianza e della libertà personale, come aveva puntualizzato la Corte costituzionale con la sentenza numero 73 del 2001, e che dunque in caso di «disomogeneità degli ordinamenti» italiano e statunitense si privilegiano i «diritti inalienabili della persona». Tradotto in soldoni, vuol dire che anche se l'accordo siglato dall'allora presidente del Consiglio Massimo D'Alema e della Giustizia Oliviero Diliberto prevedeva che alla Baraldini estradata in Italia si applicasse la legge americana, questo non ha alcun valore.
Inoltre, spiega il legale Usa della Baraldini Elizabeth Fink, «per gli stessi reati sarebbe stata condannata a cinque anni e sei mesi invece che a 43», grazie all'applicazione di una «legge speciale», il Rico act approvato per punire i crimini mafiosi e in via straordinaria applicato al suo caso. Questo racconta dell'abnormità di una carcerazione durata complessivamente 24 anni, tra il famigerato penitenziario texano di Lexington e l'ultima fase tra il carcere romano di Rebibbia, la detenzione domiciliare e l'ospedale per vincere il cancro. Tutto per aver militato, come «consulente legale» e militante, in un movimento che traeva il suo nome, «19 maggio», dalla data di nascita del leader comunista vietnamita ed eroe della resistenza anti-americana Ho Chi Min. Inoltre, «se fosse rimasta negli Usa probabilmente sarebbe stata scarcerata già da tempo, visto che il presidente Clinton alla fine del suo mandato ha graziato due delle sue compagne, condannate per reati ben più gravi». Si chiamavano Linda Sue Evans e Susan Rosenberg, era il gennaio del 2001. Silvia Baraldini era in Italia da qualche mese. In carcere.