Libreria delle donne di Milano

il manifesto - 28 giugno 2005

Novecento italiano, tre fiori nel deserto
Antonio Gramsci, Mario Tronti, Luisa Muraro: le tre eccezioni alla regola della debolezza della filosofia italiana del XX secolo. «La differenza italiana» di Toni Negri
IDA DOMINIJANNI

Non so qual è la dimensione giusta della recensione di un libro di ventotto pagine; forse una trentina di righe, troppo difficile. Per giunta il librino in questione è firmato da un amico, Toni Negri, e parla di un comune amico e maestro, Mario Tronti, e di una mia amica e maestra, Luisa Muraro; forse più che una recensione dovrei fare un brindisi. Comunque ci provo, il librino - La differenza italiana, edizioni i sassi nottetempo, 3 euro - essendo piccolo ma denso, e importante. Con lo sguardo al futuro, Toni Negri guarda all'indietro la filosofia italiana del Novecento, la dipinge come un paesaggio deserto e salva tre nomi: Gramsci, Tronti e Muraro. Tesi spregiudicata e tutt'altro che scontata, anche rispetto al percorso dell'autore, che se a Tronti è legato da un antico sodalizio teorico, stretto ai tempi di Operai e capitale (ma rotto, o interrotto, ai tempi di Sull'autonomia del politico), con Luisa Muraro si incontra oggi per la prima volta alla Libreria Feltrinelli di piazza Piemonte a Milano dove il libro verrà presentato alle 18; e se negli ultimi libri scritti con Michael Hardt, Impero e Moltitudine, intercetta la gender theory americana, non aveva fin qui dialogato esplicitamente con il pensiero della differenza sessuale italiano. Ma prima che per le tre eccezioni, la tesi di Negri è rilevante per la regola che individua nella filosofia italiana del Novecento: posto che per filosofia si intenda, come lui, «quell'attività critica che permette di cogliere il proprio tempo e di orientarsi in esso». Se la filosofia è questo, scrive Negri, dopo un XIX secolo ricco di personalità come Leopardi, Rosmini, De Sanctis, Labriola, e dopo l'inizio del XX segnato da Gentile e Croce, «di filosofia in Italia non ce n'è stata più». Colpa dell'angustia dello spazio pubblico che caratterizza la storia dello stato unitario e della Repubblica, ma anche di una carenza intrinseca della filosofia italiana, «da sempre filosofia debole, debole davanti alla politica e ai padroni, ai dittatori e ai papi»; nonché di una divulgazione massmediatica connivente e salottiera, che nell'ultimo ventennio del secolo ha premiato solo o perlopiù dalle pagine culturali della Repubblica la filosofia giustappunto autodefinitasi «pensiero debole» e da quelle del Corriere «la necrosofia mitteleuropea della Magris Company» (ironia spietata dell'autore su entrambe le prospettive), o Habermas e Rawls ma solo «perché mostravano che da giovani si poteva essere radicali ma da vecchi si diventava necessariamente reazionari».

Va da sé che il quadro è di parte, di parte essendo dichiaratamente il punto di vista dell'autore, che guarda al processo storico, politico e filosofico avendone a cuore due punti di resistenza e di rottura, l'antifascismo e il `68. E come punti di resistenza e rottura sono presentate infatti le tre eccezioni alla regola. Gramsci negli anni Trenta, «il traditore dello stalinismo» che ha reimpiantato la filosofia là dove doveva stare, nella vita e nelle lotte della gente comune»; Tronti e Muraro negli anni Sessanta e Settanta, «due rotture fondamentali non solo nella continuità della storia della filosofia italiana fra XIX e XX secolo, ma nel tessuto materiale della vita intellettuale, nella struttura politico-linguistica della società italiana». Pensiero radicato nel conflitto sociale insomma; pratica teorica che si fa pratica politica e viceversa.

L'accostamento non mancherà di stupire molti e molte: quelli che pensano che l'interesse di Mario Tronti per il pensiero della differenza sia di facciata, e quelle che pensano che la critica femminista della politica sia incompatibile con il paradigma trontiano dell'autonomia del politico. Ma Negri coglie invece a mio avviso con precisione i punti formali, prima che contenutistici, di contatto fra la radice dell'operaismo e quella della differenza sessuale, che restano al di là dei pur ricorrenti punti di frizione: il comune luogo di nascita «sul tema biopolitico della riproduzione», contro le due forme di sfruttamento del dominio capitalistico e del dominio patriarcale; la comune postura anti-dialettica (nell'un caso e nell'altro, con l'irruzione sulla scena della differenza operaia e della differenza fem minile, non si dà più ricomposizione in Uno, «tutto è fissato sul due e sul molteplice, e non si ricompone»); la comune mossa iniziale del separatismo («classe operaia senza alleati», esodo femminile dalla politica maschile). Ed è soprattutto questa mossa iniziale, teorica e pratica insieme, che taglia la scena e fa epoché, culturale, linguistica e politica: trasformandosi rapidamente da resistenza a «guerriglia dalle molteplici forme», pratica trasformatrice capace di insidiare in forme micropolitiche l'ordine capitalistico e quello patriarcale, nelle università, nelle fabbriche, nelle famiglie, nei rapporti interpersonali e sociali: e non dai margini, come predicano molte litanie del postmoderno, ma dal centro del sistema. Dalla resistenza all'esodo, dalla critica dell'esistente alla modificazione collettiva e - grazie al femminismo- singolare.

«Svolta ontologica», «stacco creativo» che altri contesti, pure filosoficamente più ricchi di quello italiano come quello del post-strutturalismo francese che pure ha «pensato» e variamente declinato la differenza, non conoscono: perché nel deserto italiano la forza sorgiva dell'operaismo e del femminismo non trovava ostacoli in paradigmi preesistenti, e perché in Italia e non altrove si è dato l'innesto del pensiero della differenza sulla pratica e la trasformazione sociale. Rottura mai rientrata: a onta del ripiegamento della scena istituzionale nella transizione infinita degli anni Ottanta e Novanta, la differenza «produce avvenire». Al di là dei suoi due autori iniziali, che «come tutti i grandi autori non hanno lasciato scuole ma discendenze, che operano su più grandi scene», ovvero nella dimensione globale di oggi.

Per Negri infatti, e siamo alla conclusione delle sue 28 pagine, non c'è solo il vento di bufera dell'Angelus Novus a spingerci avanti: c'è anche il rischio-tragico a sua volta - dell'a-venire, lo sguardo che si spinge avanti, l'apertura all'imprevisto non gravata dall'incubo dell'origine e dal carico della storia. Anche questa ontologia della libertà, «contrapposta a ogni fondamento ontologico determinato», è un dono dell'avvento della differenza. Su questo credo che Mario Tronti e Luisa Muraro converranno. Su altro non so: Tronti si stupirà di essere letto come un filosofo della postmodernità, Muraro avrà da dire sul modo in cui Negri innesta la differenza femminile sulla produzione postfordista, o non la innesta sulle pratiche politiche dei movimenti di oggi. In comune, l'autore e le sue due «eccezioni» hanno il gusto della discussione e del conflitto. E anche le pagine culturali potrebbero approfittare di più dell'occasione.