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il Manifesto
- 29 settembre 2004
MONTESSORI
Dietro il metodo una donna
Maria era praticante in una clinica psichiatrica. Cominciò a studiare
i frenastenici, individuò le responsabilità delle istituzioni
e della società nell'esclusione dei bambini «anormali»
e finì per denunciare i meccanismi di esclusione che facevano diventare
anormali anche i «normali». Da qui nasce il metodo Montessori
Maria Montessori è la prima donna laureata in medicina. Ci ha insegnato,
più di cent'anni fa, che dietro l'«anormalità»
ci sono ragioni sociali, di classe. E ha inventato un metodo
STEFANIA FICACCI
E' imbarazzante scoprire alla mia età di essere stata educata come
una bambina deficiente. Il significato letterale di questo termine è
«mancante». Sono stata dunque una bambina «mancante
di qualcosa»? L'assenza o meno di questo «qualcosa»,
caratterizza la differenza fra normalità e anormalità. In
sostanza, si potrebbe concludere, che essere deficiente significa non
essere normale. La straordinarietà che porta con sé l'infanzia
è la incapacità dei bambini di cogliere questa «biologica»
sfumatura fra la normalità e l'anormalità. Alle prese con
un castello di sabbia o una caccia al lombrico non mi sono mai posta il
problema.
Positivismo
e pazzia
Agli inizi
del Novecento l'anormalità ha attirato l'attenzione dei governi
nazionali e della comunità scientifica occidentale. Il positivismo,
da un lato godeva dei progressi nel campo della psichiatria, dall'altro
inorridiva di fronte all'aumento dei ricoverati nei manicomi. I frenastenici,
bambini con handicap psicomotori dovuti a carenze di natura «esclusivamente»
biologica, degeneravano nelle cliniche psichiatriche, in un isolamento
forzato, agonizzando nell'inedia. Una ragazza di poco meno di trent'anni,
Maria, fresca di studi in medicina, prestava praticantato nella clinica
psichiatrica dell'Università di Roma e aveva, fra i suoi compiti,
quello di individuare, fra i degenti dei manicomi cittadini, pazienti
idonei al ricovero nella struttura clinica in cui prestava servizio volontario.
In una delle sue visite Maria vide, rinchiusi in una stanza, gettati a
terra senza far nulla, dei bambini «deficienti» (ovvero mancanti
dei normali requisiti biologici), i cui unici eventi nella giornata erano
i pasti. Finito di consumare il loro cibo, queste creature si gettavano
sul pavimento raccogliendo briciole di pane: con le dita le accarezzavano,
le portavano alla bocca. Per essi quelle briciole erano gli unici oggetti
di svago presenti nella loro esistenza, mostrando così che la loro
mente desiderava impegnarsi in un compito.
L'impegno
verso quei bambini «deboli di mente» rapì le sue energie.
Sottoposti ad un ambiente che li stimolasse e li sviluppasse intellettualmente
e fisicamente, Maria riuscì a far sostenere loro l'esame di stato,
non in classi speciali ma insieme ai loro coetanei normali, sottoponendoli
alle prove di lettura, scrittura, aritmetica. Qualcuno di loro risultò
persino più bravo dei, così detti, «bambini normali».
Nel 1897 Maria, durante un Congresso aazionale di medicina svoltosi a
Torino, lanciò la sua prima, esplicita accusa, alla società,
alle sue strutture economiche, politiche e morali, della quale ella stessa
era stata e continuava ad essere vittima. Invitata a pronunciarsi sulle
cause della delinquenza minorile, Maria spiegò che il motivo principe
risiedeva nella mancanza di cure e di assistenza verso i bambini ritardati
e disturbati, da lei identificati come potenzialmente a rischio. L'origine
biologica non era la sola responsabile dei problemi psicofisici dei bambini
frenastenici; vi erano cause sociali, ambientali e storiche del disagio
mentale, dovute soprattutto alle pessime condizioni di vita (situazioni
igieniche precarie, miseria fisica e morale). La maggiore responsabilità
di questa degenerazione sociale degli individui già, naturalmente,
deboli, era la scuola, ossia l'impianto educativo, sia fisico che morale,
improntato sul binomio punizione-ricompensa. Gli insegnanti, vittime essi
stessi di questo sistema, punivano e castigavano i bambini frenastenici
fino a giungere alla espulsione dalla scuola, che aveva come traguardo
unico la strada, lo sfruttamento, la prigione o il manicomio. La società,
rappresentata dallo stato, tornava ad occuparsi di loro solo quando alcuni
finivano per diventare delinquenti. Così spiegava Maria: «Noi
con l'opera educativa vorremmo prevenire le conseguenze ultime della degenerazione
e della morbilità: se l'antropologia criminale ha saputo nella
società moderna trasformare una pena, noi dobbiamo proporci nella
scuola futura di trasformare un individuo».
Nacque così
Il metodo, non tanto una teoria pedagogica, quanto una pratica educativa,
attraverso la quale il bambino frenastenico, sottoposto a stimoli continui
e invitato a compiere lavori manuali ed intellettuali, acquisiva competenze
professionali attraverso le quali sarebbe divenuto utile a sé ed
alla società. Tuttavia, l'interesse di Maria non era solo indirizzato
ai bambini con difficoltà mentali. «Mentre tutti ammiravano
i progressi dei miei idioti, io cercavo i motivi per cui i bambini sani
e felici della scuola pubblica restavano su un piano talmente basso che
i miei allievi infelici li uguagliavano nei test d'intelligenza».
Maria guardava oltre quel miracolo. Guardava ad una società che
non riconosceva come diritto fondamentale dell'individuo la possibilità
di realizzare la propria persona mediante le personali capacità.
Bisognava cambiare il bambino per trasformare la società. Quel
metodo, che si era rivelato così efficace per stimolare «alla
vita» i suoi piccoli pazienti, applicato su bambini normali «avrebbe
liberato la loro personalità in modo meraviglioso e sorprendente».
Le ragioni
di classe
Ma c'era
qualcosa in più. Maria aveva colto un'analogia. L'ambiente misero
della campagna e della città, lo sfruttamento della classe proletaria,
l'ignoranza e l'analfabetismo erano caratteristiche di un ambiente che
favoriva la degenerazione fisica e morale anche di bambini normalissimi.
E non solo dei bambini. Sì, perché dietro a un bambino sporco,
malato, affamato, sfruttato, c'era una famiglia sporca, malata, affamata,
sfruttata e, prima fra tutti, una madre. Le cause che facevano degenerare
i bambini «anormali» erano le stesse che impedivano uno sviluppo
sereno della personalità dei ragazzini «normali». Era
la società a essere «deficiente», a giacere in un'ignoranza
secolare, costretta a raccogliere briciole, condannata all'inedia.
Maria, nata
a Chiaravalle, nella provincia anconetana, il 31 agosto 1870, è
stata la prima donna in Italia a conseguire la laurea in Medicina, subendo
l'ostilità degli uomini verso una donna così audace da sfidare
persino le leggi scientifiche, che avvaloravano la tesi dell'inferiorità
biologica del sesso femminile: era come se «essere donne»
ed «essere deficienti», all'epoca, fosse la stessa cosa. Per
questo la scuola di Maria si basò, prima di tutto, su una rivoluzione
sessuale: maschi e femmine lavoravano insieme, svolgevano gli stessi compiti,
si sottoponevano agli stessi esercizi fisici e intellettuali, imparavano
le stesse cose. Le classi separate, abolite in Italia solo negli anni
Settanta del XX secolo, per Maria erano la proiezione della futura società.
Sui banchi di scuola s'imparava la violenza, la fobia per il diverso,
la negazione della propria personalità, la legge della punizione
e del castigo.
Da perseguitata,
Maria abbracciò con entusiasmo la causa femminista che stava nascendo
sulla fine del XIX secolo. Scagliandosi contro la sentenza «emessa
nel nome della scienza: che la donna è biologicamente, cioè
totalmente inferiore, che il volume del suo cervello è destinato
da natura a una inferiorità contro la quale nulla si può»,
Maria intuì che l'emancipazione femminile avrebbe potuto realizzarsi
attraverso una nuova «pedagogia della diversità».
La donna
doveva assumersi compiti pubblici, doveva entrare nella società
ribadendo il proprio ruolo, la propria identità, il proprio pensiero.«È
finito il tempo in cui la donna era passiva, in cui bastava ch'ella non
facesse il male, in cui ogni sua virtù importava una negazione:
sii ignorante della vita; non ti occupare della cosa pubblica; non lavorare;
non ti prendere responsabilità pei figliuoli; non ti occupare dell'amministrazione
dei beni; sii passiva, annichila la tua volontà a favore del marito;
non vivere per altro che per lui, ma senza occuparti di comprenderlo;
pensa solo a non fare il male, e il male consiste nel non fare ciò
che piace al marito. Dal così opprimente negativismo la donna si
è scossa ed è passata al moto e all'azione "Lavora!
fa' il bene!"».
Il femminismo,
quello politico, la prese con sé e, nel 1899, fu rappresentante
delle donne Italiane a Londra. Poco fiduciosa della politica, credeva
nell'importanza della scienza nella lotta contro l'ignoranza, specie riguardo
alla sessualità. L'educazione sessuale, che tentò di far
introdurre nella riforma Gentile chiedendo sostegno a un imbarazzato Mussolini,
era lo strumento di prevenzione delle malattie di origine biologica, nonché
un valido aiuto nell'affermazione della libertà della donna: «Non
solo sarà libera nella scelta dell'uomo; ma diverrà anche
la vera compagna di lui, la collaboratrice, l'amica, la sorella sociale».
Pur battendosi per la «conquista dell'indipendenza economica»
delle donne e per «l'esperienza e la coscienza conquistate nelle
lotte sociali», temeva che la politicizzazione del movimento rompesse
la necessaria unità che le donne sapevano mostrare di fronte alla
lotta. Fedele alle sue idee sul lavoro, lo fu anche nella vita. Maria
non si sposò e nascose al mondo il figlio avuto dal suo amato compagno.
La cartella
arancione
Avevo appena
tre anni e una cartella arancione che era la fine del mondo. Stranamente
mi piaceva l'asilo. Ogni mattina sui banchi di fòrmica trovavo
dei cesti con delle costruzioni: mattoncini, cilindri, forme non identificate,
sempre quotidianamente diverse. Prima però timbravo il mio cartellino:
un piccolo quadrato di cartone sul quale erano disegnate due ciliegie.
Riponevo il cappotto nel mio armadietto ed entravo. A ricreazione giocavo
in colorate casette su misura sparse nel grande parco: maschi e femmine,
senza distinzione, curavano la loro casa, andavano a fare la spesa, giocavano
a «fare la famiglia». Solo poco tempo fa ho scoperto di essere
stata educata secondo il metodo Montessori. All'improvviso sentii il forte
legame che mi univa a quella donna raffigurata sulle vecchie, amate, mille
lire. Forse ho capito perché odio così tanto l'euro: la
lira mi ricordava l'infanzia.
Maria Montessori
è stata una donna pratica. C'era qualcosa in lei che la spingeva
a credere che solo l'esperienza, l'immissione nel circuito di stimoli
nuovi, diversi da quelli tradizionali, potesse cambiare il sistema, proprio
come era accaduto ai suoi amati bambini. Maria è stata soprattutto
una donna e come tale ha subìto l'ostracismo della diversità.
Da diversa ha sperato di cambiare la società.
Oggi la scuola
italiana ha adottato il metodo Montessori, anche se, mi sembra, ancora
solo parzialmente. I bambini imparano insieme alle bambine, è tollerato
sporcarsi il grembiule di tempera e si incoraggiano i piccoli a esprimere
le loro emozioni attraverso l'arte: si dipinge, si canta, si balla. Quel
che più fa bene al cuore è vedere le classi piene di ragazzini
di ogni razza, di ogni religione, giocare insieme. Non mancano bambini
down, autistici o con problemi psicomotori. Eppure, c'è ancora
chi vorrebbe le classi «sessualmente» separate, per non parlare
di tanta, dilagante, xenofobia.
Maria Montessori
ci ha insegnato che la diversità è quello stimolo che può
cambiare la società, che può farla progredire in meglio.
E questo è un compito assegnato soprattutto alle donne, alle quali
ha insegnato che solo l'unità delle idee e delle energie può
distruggere i pregiudizi sul sesso, sulla morale e sulla libera espressione
del proprio pensiero. Una lezione che la nostra classe dirigente e, a
volte, il femminismo stesso, dovrebbero ricordare un po' più spesso.
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