Libreria delle donne di Milano

il manifesto - 30 novembre 2001

Enduring Freedom, dura minga
DIANA SARTORI

Libertà non è una parola d'ordine ma un campo di conflitto politico e culturale, irriducibile alla grammatica dei diritti, segnato al presente dalla differenza sessuale, aperto all'imprevisto. E invaso dalla inflessibilità della guerra

Tempi duri per la libertà. Al punto che è difficile vederla girare liberamente. Già la parola da un po' strisciava tirandosi fastidiosamente dietro il peso della sua "Casa", ma ora sta sulla bocca e nelle orecchie di tutti in altrettanto pesante compagnia: questo invadente e onnipresente enduring. Ma che senso ha Enduring Freedom? Nello sforzo di renderci partecipi di quel che andavamo a dire, e a fare, siamo stati informati che la traduzione è "libertà duratura", vista anche l'infelice sorte della "Giustizia infinita" che l'aveva preceduta, a riprova che le parole voleranno anche, ma pesano come bombe intelligenti. La traduzione è giusta, non discuto, e non oso pronunciarmi su quale cluster di significati e risonanze abbia per gli anglofoni, di certo a stare al dizionario il contrario fa crumble, decay, disintegrate, collapse, fall, perish. Enduring è insomma la durevolezza, il permanere e durare nel tempo. Ben comprensibile che suoni confortante. Ma a me, parlante italiano, enduring freedom evoca anche tutto un concerto di sonorità inquietanti. Come segnala la radice durus, si tratta di una libertà indurita, irrigidita, inasprita, congelata, solidificata, inflessibile, e che si fa sentire nella sua durezza, asprezza, insensibilità, crudeltà. Per durare si fa dura, si consolida (cristallizzando d'un sol colpo la domanda sulla constitutio libertatis), insomma diventa struttura, istituzione e forza. Ora, anche, guerra.
Per questo conviene prestare orecchio ai diversi "motivi" che la libertà fa risuonare. I Motivi della libertà, come titola appunto l'ultimo volume di "Democrazia e diritto". Pensato ben prima che in nome della libertà si aprisse il conflitto armato che viviamo, viene ora tempestivamente a ricordare che il conflitto in nome della libertà è sempre anche conflitto sul nome della libertà. Sottolinea Eric Foner nel suo contributo che se libertà è la parola più importante del vocabolario politico americano, fondante per la percezione di sé degli americani, il suo senso è andato definendosi attraverso conflitti concettuali sì, ma anche conflitti veri e propri. Il nuovo capitolo di questa storia che stiamo vivendo illustra con tutta la visibilità di un evento che ha la crucialità di una catastrofe simbolica quanto alla deriva e all'immiserimento del senso possa rispondere la terribile e semplificata simmetria della forza. E conferma tragicamente non solo fino a che punto possa rivelarsi insieme impotente e distruttiva l'accezione dominante (liberista e antipolitica) di libertà, ma quanto sia stato scellerato, oltre che perdente, per la sinistra disertare il campo del conflitto sulla libertà: consegnandola all'orizzonte liberaldemocratico e rinunciando all'eccedenza politica che una pratica della libertà comporta rispetto alla grammatica scritta dei diritti e delle garanzie.

Dura e benvenuta diagnosi che appunto ha mosso il progetto di questo libro: tenere fermo appunto all'anima politica della libertà, "rideclinandola, in controcanto con le sue definizioni riduttive oggi prevalenti, come azione e non garanzia, relazione e non proprietà individuale, esposizione al contatto e alla contingenza e non immunità, apertura al rischio e non assenza di impedimento, conflitto e non ordine". Insomma, riaprire "una più ampia contesa sull'idea e la pratica della libertà". Così Ida Dominijanni che cura il volume, e che avendo ben presente la politica del simbolico nominata e praticata dalle donne, chiama a tenere ben saldo il terreno insieme delle idee e delle pratiche. Mossa decisiva per l'altra sfida cui chiama il progetto: che il suddetto conflitto sulla libertà non possa aprirsi se non nominando e investendo il "conflitto non dichiarato sull'iscrizione o la cancellazione, il riconoscimento o l'amputazione, della rivoluzione della differenza sessuale e delle sue conseguenze sull'ordine socio-simbolico e sull'ordine del discorso politico". Passaggio ineludibile, ma anche esigente, porta stretta alla soglia della quale si può vedere chi raccoglie un invito e una scommessa che più ancora che il motore di questo libro è motore del tempo presente.
Per esorcizzare i fantasmi di un varco troppo inquietante, mettiamola così: beh, ma come è andata la festa? Come spesso di questi tempi alle feste della mia generazione: tanta gente, sì, si parla molto, ma pochi ballano. O meglio, pochi uomini ballano, gli uomini vengono ma poi non ballano. Poi alle feste di rappresentanza della politica molte donne non ci vanno, magari ci vanno anche, ma poi non parlano. All'invito di questo libro hanno risposto in tanti, più uomini (Tronti, Esposito, Ferrajoli, Iacono, Barcellona, Cotturri, Serra e altri) che donne (Maria Luisa Boccia, Tamar Pitch, Cecilia D'Elia, Tiziana Vettor), e il risultato è che sicuramente dall'ascolto delle loro voci e di quelle chiamate in causa da queste, ci si può fare un quadro piuttosto chiaro di quale polifonia di motivi la libertà possa ispirare. L'impressione è però che sul motivo della libertà le donne danzano, invitano alle danze gli uomini esponendosi vuoi con l'incoraggiamento, vuoi con la provocazione, ma pochi si fanno cavalieri, gli altri preferiscono continuare a stare seduti a parlare tra loro (o a corteggiare altre donne più seduttive?).

Fuor di metafora, se l'invito ad aprire il conflitto sulla libertà, contendendola alla tradizione dominante, all'accezione vincente, persino alla storia della propria parte politica e intellettuale, è raccolto e produce una varia e copiosa messe di discorso critico e autocritico (in alcuni casi anche spietato e coraggioso), sul raccogliere il secondo invito e il portarsi all'incrocio del conflitto aperto dalla libertà femminile, la difficoltà permane. A che dovuta? Non sta a me nominarlo, ma dai segnali che rilevo immagino che la porta stretta abbia a che fare con la messa in gioco dell'autorità femminile, e con il mettersi in gioco in una pratica di libertà.
"A questo punto, l'idea di libertà deve ripartire da sé", dice Tronti in quello che è il pezzo più generoso nel raccogliere la sfida, raccomandando che nel farlo ci vogliono però pensiero e storia. Niente di meno, d'accordo; ma il punto è che ci vuole di più, ci vuole un salto nella libertà che ha a che fare con un partire da sé che fa ri-partire la libertà. Partire da sé e trovarsi all'incrocio di altro, e di un altro ordine di autorità, è uno dei pilastri della porta stretta che apre a una pratica di libertà. Mentre il rischio, tristemente reale, è di stare seduti piegati su di sé, presi nelle volute di un pensiero al meglio critico e autocritico, a intrecciare discorsi che a sempre più orecchie di donne tendono a farsi barbuti e barbosi. Pensiero critico e autocritico hanno spesso il vizio dell'accumulo e della conferma autoritativa. Eppure, per tornare a ciò che risuona nella lingua, criticare significa tagliare, fare un taglio che divide, segnare la linea del taglio del conflitto, non solo schierarsi dall'una o l'altra parte ripetendo il taglio dato e i conflitti già segnati. Il conflitto non è sempre là dove è già disegnato, ricordava poco tempo fa su questo giornale Chiara Zamboni.

Libertà ha a che fare appunto con l'apertura di un taglio di conflitto imprevisto, come ha mostrato il taglio della differenza - taglio simbolico, del pensiero e insieme della realtà - che ha aperto la libertà femminile. Senza differenza che sempre taglia nuovamente il conflitto di libertà, la libertà tende davvero a farsi enduring, permanenza consolidata e ripetizione. I motivi della libertà possono diventare altrettanto ripetitivi dei motivetti che vorrebbero rappresentare la liberazione di Kabul. E la libertà femminile ostaggio e conferma di un conflitto non in nome nostro. Come, in questi tempi di dura libertà, nella spasmodica ricerca di donne che ne confermino, togliendosi il burqa, il nome e il senso, con il fastidio che la rappresentazione della loro libertà non sia altrettanto pronta della velocità con la quale gli uomini (là e qua similmente barbuti e temo barbosi) si tagliano la barba. Giurerei di averla sentita, una voce femminile di sotto al burqa che borbottava strane parole afgane: dura minga...