Libreria delle donne di Milano

Le madri di Israele
Il rifiuto delle donne
di Giuliana Sgrena e
La speranza è nella paura; paura di vedere un figlio
trasformato in soldato dell'esercito israeliano
di Deby Birnbaum

Manifesto 18 aprile 2002
Il rifiuto delle donne
La fine dell'occupazione della Palestina parte dalla smilitarizzazione della società israeliana, sostiene Ruth Hiller, una delle fondatrici del movimento New profile, impegnato a sostegno dell'obiezione di coscienza
GIULIANA SGRENA

«Quattro anni fa mio figlio Yinnon mi ha avvicinato e mi ha detto che non avrebbe potuto prestare servizio nell'esercito per motivi di coscienza. Mi ha detto di essere convinto che il pacifismo era il suo ideale. Aveva 16 anni». E' stata questa scelta del figlio a scombussolare la vita di Ruth Hiller, arrivata trent'anni fa in Israele per coltivare il suo ideale sionista in un kibbutz. Anche lei si era rifiutata di fare il servizio militare, ma la scelta del figlio era più dirompente in una società completamente militarizzata, dove «non fare il servizio militare era assolutamente tabu». Yinnon non era l'unico caso di obiezione in Israele. Da questa esperienza e dal contatto con gli obiettori di coscienza è nato, nel 1998, New profile, un movimento formato da donne, femministe, alle quali si sono aggiunti anche uomini, giovani - i militanti vanno dai 16 ai 75 anni - che condividono «il nostro modo di lavorare, senza gerarchie». E Ruth Hiller, che in questi giorni è stata in Italia, dopo essere stata ospite del Parlamento europeo, è una delle fondatrici di New Profile e una delle militanti più impegnate. «Il nostro obiettivo principale è la smilitarizzazione, perché la società israeliana è completamente militatizzata. Israele non è un paese con un esercito ma un esercito con un paese», sostiene la pacifista israeliana, la cui organizzazione ha fatto del rifiuto la sua priorità. Rifiuto a diversi livelli: «Rifiuto a servire l'occupazione e gli occupanti, rifiuto di crescere i figli per la guerra e di obbedire ad ordini immorali, rifiuto del silenzio e il rifiuto ad essere nemici», queste le parole d'ordine di New profile. In particolare, «le donne si rifiutano di essere il nemico» era la parola d'ordine della manifestazione che si è svolta tre settimane fa a Ramallah, ricorda Ruth, dove si sono viste molte facce nuove, segno che il movimento sta crescendo. «Le donne si rifiutano anche di fare uomini per l'esercito, ovvero di fare da supporto a figli, padri, fratelli o donne impegnati nella struttura militare».
[...]

Ruth Hiller è stata ospite del Parlamento europeo, ma cosa può fare l'Europa? «Intanto può aiutare a uscire dall'enfatizzazione di chi sostiene che chi manifesta contro Israele è contro gli ebrei, no è solo contro il governo. E attraverso l'esperienza europea può aiutare a fare emergere una società civile in Israele per mettere fine alla violenza e instaurare il dialogo», sostiene la pacifista che apprezza molto la decisione della Germania di sospendere la fornitura di armi a Israele, «perché le armi sono usate solo contro i palestinesi e per sperimentazioni». «Il blocco delle forniture militari e il boicottaggio delle merci israeliane, a partire da quelle prodotte negli insediamenti dei territori occupati», dovrebbero essere le prime misure da adottare.
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Azione non violenta Gennaio - Febbraio 2002
La speranza è nella paura; paura di vedere un figlio
trasformato in soldato dell'esercito israeliano

Deby Birnbaum

Quella che segue è una lettera inviata da una madre israeliana, Deby Birnbaum, all'associazione pacifista israeliana New Profile, che sostiene gli obiettori di coscienza.
Per chi volesse approfondire segnaliamo, sul sito www.nonviolenti.org, il dossier Israele e Palestina, nel quale presentiamo, tradotti in italiano, i contributi di alcuni tra i più importanti gruppi pacifisti attivi in quei territori.
i testi comprendono la testimonianza di azioni nonviolente, la denuncia di situazioni di violazione o l'ampliamento degli insediamenti israeliani, l'obiezione di coscienza in Israele, alcune voci del dibattito sulla risoluzione del conflitto per come viene affrontato negli ambienti nonviolenti.

In Israele, le madri che hanno paura - gli uomini non hanno mai paura - sono definite "troppo ansiose", irrazionali e incapaci di pensare chiaramente. E un modo tutto israeliano per disfarsi della paura. Una emozione legata ai fatti, la paura; una emozione che è razionale ed essenziale per sopravvivere. Le madri vengono considerate "incapaci di comprendere" perché "la loro ansia annebbia la capacità di pensare razionalmente". Vorrei dare voce a quello che sento. Io ho paura quando penso al mio figlio più grande, arruolato nell'esercito, e so che verrà sottoposto ad una formazione che lo priverà della sua identità, indipendenza, sentimenti, paure e speranze, e della sua capacità di pensare in modo critico e creativo. Tutto questo rientra negli sforzi necessari per fare di lui un soldato efficiente, che obbedisce incondizionatamente agli ordini. Ho paura perché so che, nel momento in cui mio figlio entrerà con la sua anima e i suoi sentimenti nella "stanza dei sigilli", le sue possibilità di uscirne saranno pressoché nulle. Ho paura perché so che mio figlio assumerà il linguaggio e il comportamento del potere; che per lui il dialogo diventerà una battaglia da vincere, perché questo sarà l'unico modo per diventare un ragazzo in gamba e sopravvivere alle missioni di morte e di distruzione che richiedono di ritenersi invincibili.
Ho paura perché so che finirà per disumanizzare chiunque rappresenti, in quel momento, il nemico. Questo sarà per lui l'unico modo per diventare capace di uccidere, o di essere ucciso.
Ho paura perché so che farà suo il modo di pensare per cui "non c è alternativa". Dovrà convincersi che il potere e la violenza sono modi legittimi per risolvere i conflitti sociali e politici, o non potrà accettare di opprimere, di uccidere, o di mettere in pericolo la propria vita.
Ho paura perché so che finirà per credere che il diritto alla vita degli ebrei in Israele ha la priorità sulle altre fedi o nazionalità. E che è impossibile condividere le risorse, ma solo soccombere o far soccombere. Solo con questo atteggiamento interiore potrà rischiare la propria vita o sopprimere quella di altre persone.
Ho paura perché so che, a dispetto di tutte le canzoni, le preghiere e i miti di eroismo, l'esercito è una istituzione progettata per uccidere e distruggere nel modo più efficiente possibile. Ho paura perché so che chi prende decisioni politiche in tema di sicurezza, in Israele, non è mai stato un semplice civile, non è mai stato ''pauroso'', è stato solo un generale e, prima di questo, un soldato. Queste persone sperimentano la parte più dolce della gerarchia, cioè possedere un potere immenso che nessun civile può teoricamente contraddire, avere tutti i privilegi di classe, e il senso di onnipotenza di chi ha subordinati che obbediscono agli ordini senza fare domande. Ho paura perché chi decide è occupato con cosucce banali - giochi di potere e di prestigio - e tratta tutto con la stessa serietà e la stessa pesantezza. Non ho visto in loro il coraggio e la speranza che occorrono, per portare una società confusa e frammentata alla trasformazione dei valori e dei comportamenti, necessaria per una soluzione giusta. Stanno sprecando tempo e vite umane. Io so che questo tempo si paga con il sangue.
Ho paura perché so che il conflitto continuo con i palestinesi, i siriani e i libanesi è una copertura per non occuparsi del nucleo corrotto della questione, dovuto alla negligenza di tutti i governi precedenti - povertà, razzismo, disoccupazione, estremismo, discriminazione, oppressione dei deboli. Di fronte a queste complesse difficoltà, la cosa più sicura è sempre stata ripetere il mito del proprio essere piccoli, vulnerabili, minacciati, in un mondo che ci odia e che vuole distruggerci.
Ho paura perché so che abbiamo abbastanza armi convenzionali, chimiche e atomiche per "sentirci al sicuro". Ed inoltre le cosiddette fonti militari sostengono che questo apparato è inadeguato - inadeguato per i militari e per quelli che guadagnano dai profitti della guerra. Così, le enormi risorse che potrebbero venire applicate alla soluzione dei problemi reali, vengono deviate su progetti immaginari, e continuano ad alimentare una sicurezza illusoria.
Io ho paura perché mio figlio è stato educato in un sistema ideologico che gli trasmette messaggi come "la guerra è inevitabile", "non ci sono alternative", e "il massimo è diventare un eroe". Io ho paura perché le mie possibilità di convincerlo che le alternative esistono, non sono il massimo. Io ho paura perché non ci sono speranze che l'esercito avvii una seria ricerca delle soluzioni, o si chieda quanti sono gli elementi necessari per i suoi contingenti, o accetti di comunicare in modo trasparente sul numero di coloro che non vengono chiamati alla leva, o prenda in considerazione la possibilità di ridurre le proprie dimensioni e risorse.
Io ho paura perché non c'è nessuna autorità civile che possa rispondere al mio appello per esaminare seriamente la struttura e gli obiettivi dell'esercito.
La mia paura è diventata una opportunità di conoscenza. Ogni volta che la sento, mi fermo ad osservarla e scopro nuove sfaccettature.
La paura è la voce che mi chiede di fermarmi ad ascoltare. Che mi chiede di ascoltare, insieme, la mia mente e il mio cuore. Attraverso una maggiore conoscenza, possiamo decidere come agire. Certo, ho presentato solo parte della questione, e molto di più potrebbe essere detto. Ma, per quanto mi riguarda, ho deciso che ne so già abbastanza.
Non ho intenzione di aspettare di conoscere "tutto lo scibile sulla sicurezza nazionale" per fare la pace. Non ho intenzione di collaborare. Mi rifiuto, dal profondo della mia coscienza, di entrare a far parte della macchina ben oliata che trasforma mio figlio in un soldato. Mi rifiuto di chiudere gli occhi sperando il meglio, e di ripetere il mantra, così familiare tra ebrei-israeliani, "non ci sono alternative, la guerra deve andare.
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