Libreria delle donne di Milano

Micromega - Ottobre 2006

Come un agnello
Luisa Muraro

Ragioniamo, sì, ma che siano ragionamenti non disgiunti da quel sentimento di pietà e ammirazione che la breve vita di Hina Saleem reclama da noi.
Le terribili circostanze della sua morte sono note, ma, per la loro stessa enormità, fanno un'ombra oscura. Colpisce il modo in cui la vita le è stata tolta, per sgozzamento. Come un agnello. E come alcuni ostaggi delle bande armate che si oppongono all'occupazione dell'Iraq. L'accostamento non vuole spiegare niente, ma forse significa qualcosa. I parenti di Hina hanno potuto vedere in televisione lo spettacolo di quelle uccisioni, e potrebbero averlo adottato come il linguaggio di un'immaginaria rivincita. Ed averlo usato in questo senso sulla loro giovane parente troppo presa dagli usi e costumi occidentali? Si stenta a crederlo, ma questo pensiero è plausibile.
Se vale la storia della nostra emigrazione povera, io conosco un po' quella verso il Belgio delle miniere e verso la Germania delle automobili, è risaputo che gli uomini, ben più delle donne, patiscono l'offesa di non veder riconosciuta intorno a sè la propria cultura e spesso neanche la loro dignità, e a questa cultura si aggrappano e legano le loro donne, per una necessità simbolica che io non condivido ma capisco (sono una donna) e che mi pare troppo disinvoltamente misconosciuta dai loro simili più fortunati. Ho assistito a scene imbarazzanti di disprezzo verso la sensibilità di persone di cultura islamica, anche da parte di uomini che erano tenuti, per cultura e ruolo pubblico, a ben altro comportamento. (Detto per inciso, non includo tra questi fatti il grave lapsus di papa Ratzinger a Ratisbona, che fa pensare piuttosto ad una mancanza di senso politico non insolita fra gli studiosi.)
L'ignoranza nostrana della cultura e della religione islamica è grande ed è aggravata da tutta una serie di pesanti stereotipi. La voglia di conoscenze nuove scarseggia, me ne sono resa conto quando ho cercato di far conoscere certi fatti notevoli, come la lezione tenuta da Aicha El Hajjami al re del Marocco Mohamed VI e alla sua corte nel Ramadan del 2004 (le foto di questo evento sono apparse sul n. 73 di "Via Dogana"). Evento indubbiamente straordinario, ma non eccezionale nel contesto dei cambiamenti in corso nella società maghrebina e araba. Penso anche, sempre restando alla mia esperienza personale, al convegno di studi delle donne presso l'università di San'a, capitale dello Yemen, nel 1999, che ha riunito donne di ventuno paesi di cultura islamica, arabi e non, insieme a una minoranza di europee.
Quanto può crescere la sofferenza di chi fa riferimento ad una cultura disprezzata nel proprio ambiente di vita? E quella delle donne impedite d'interagire liberamente con il nuovo contesto, dall'obbligo o dal sincero desiderio di sostenere i loro uomini? C'è questo pensiero, mi pare, dietro alle parole con cui il segretario della Camera del lavoro di Brescia ha commentato la morte di Hina: con questi uomini, se iscritti al sindacato, si parla di questioni di lavoro ed è troppo poco, il problema è che la libertà femminile che avanza fa paura anche a noi.
Gli uccisori di Hina portano tutta la responsabilità del loro atto nefando, ma nel miscuglio perverso di risentimenti e ragionamenti che li ha portati ad uccidere una persona inerme e fiduciosa, non poteva esserci anche una parte di violenza raccolta lungo i percorsi della loro emigrazione, violenza reale e simbolica?
A questo tipo di prova, fardello di tutti gli emigranti esposti ad un discredito che non hanno modo di compensare con il potere dei soldi, si aggiunge dal 2002 quella rappresentata dalla disgraziata avventura angloamericana in Iraq. Non pretendo, sia chiaro, che la guerra dell'Iraq c'entri alla stregua di una causa, con il problema che ci pone la vicenda di Hina. Ma questa e quella rientrano ormai in uno stesso copione secondo il quale tendiamo a leggere cose molto disparate, al punto da creare delle sovrapposizioni, anche queste a modo loro perverse. Parlo, chiaramente, del cosiddetto scontro di civiltà, l'islamica e l'occidentale. Il copione è stato ideato nei primi anni novanta, da un tipo che sembra dedito ad una letteratura della discordia, a metà fra la politica e la fiction. Molti non sanno che Samuel P. Huntington ci ha provato (senza successo) anche con gli ispanici massicciamente presenti negli Usa, di cui ha sostenuto che sarebbero una minaccia per l'identità americana a causa che non vogliono passare a parlare inglese. Lo scontro di civiltà, invece, ha avuto un successo incredibile. Poteva servire a realizzare, che ne so, un serial televisivo, e invece è diventato lo schema della politica estera degli Usa in questi dieci anni, e ha dato una spinta formidabile a Osama Bin Laden, fornendogli l'opportunità e forse anche l'idea di dichiarare guerra agli Usa e di promuoversi capo dell'estremismo islamista (fino allora dedito piuttosto alla guerra intestina).
Ora il copione si espande anche in Europa, condizionando la lettura della realtà e per finire anche i nostri comportamenti. Perché vero? No, perché semplice e perché sempre più "verificato", come capita alle convinzioni che s'impadroniscono della mente, specialmente quelle di natura ossessiva e paranoica, e fanno vedere la realtà in un certo modo. Il copione si è così sovrapposto alla complessità di un processo culturale di confronto e scambio, di cui gli Usa a suo tempo ci hanno dato notevoli esempi positivi, e che anche da noi è cominciato, per fortuna, ma nell'ombra, dovendo scontare la distrazione dei mezzi di comunicazione di massa che preferiscono il reality show. Ed è secondo quel copione che hanno agito, ai nostri occhi, gli uccisori della ragazza e lei è apparsa al senso comune come la vittima dello scontro tra l'occidente liberale e l'islam che opprime le donne.
Invano le persone più responsabili hanno ricordato che la legge islamica non dà al padre il diritto di vita e di morte sui figli, e che i parenti di Hina hanno agito contro la volontà di Dio. Qualche giornale ha riportato queste parole, ma tutti hanno continuato ad interpretare i fatti associando strettamente l'islam al delitto e sforzandosi - alcuni, reattivamente - di rompere quell'associazione.
Mi chiedo se quell'associazione non si sia stabilita anche in quelli che criticano lo scontro di civiltà. Non credo, forse il punto è un altro e cioè, detto molto in breve, che la sinistra non ha trovato argomenti suoi, argomenti intendo che fossero all'altezza della commozione pubblica. L'accusa di reticenza rivoltale dalla destra, non era infondata, tant'è che a quest'accusa si è reagito con un certo affanno. Penso a quell'abbasso la comunità, viva la persona singola, che ho letto sul manifesto, cui seguiva il rigetto del multiculturalismo, in nome del primato da dare alla persona singola rispetto alla sua comunità di appartenenza. Posizione condivisibile che però non tiene conto che le comunità forniscono un'assistenza simbolica e materiale quando ai singoli è difficile trovarla da altre parti. E che non apre prospettive se non quella del mercato del lavoro alle sue condizioni. Perché no? Purchè ricordiamo quello che Marx ha detto meglio di tutti: il capitale scioglie i vincoli non economici, libera le persone da padri, madri, preti e capitribù, e le mette nude e crude a disposizione del mercato della forza lavoro, per definizione libero. Ci sarebbero i diritti, ma la strada per arrivarci è molto lunga, se non sei nata fra i privilegiati del globo...
Perciò ho molto apprezzato l'uscita del gruppo Differenza donna che, per bocca di Gabriella Paparazzo, su Liberazione, così ha risposto alla chiamata in causa delle femministe da parte di chi vede in Hina la vittima dello scontro fra Occidente e Islam: è vero, c'è uno scontro di civiltà, ma non è quello che dite voi, la guerra di civiltà è tra donne e uomini.
Oltre alla retorica incisiva, c'è in questa presa di posizione uno spostamento di punti di vista che è una mossa giusta e precisa nei confronti della destra e, direi ancor più, nei confronti della cultura politica di sinistra. Dobbiamo chiederci, infatti, se quest'ultima sia in condizione di raccontare la storia politica delle donne, ossia la storia di donne e uomini dal punto di vista della libertà femminile. Il dubbio nasce dal fatto che la cultura politica di sinistra non ha ancora veramente abbandonato la sua vecchia impostazione, ma solo ammodernato il vecchio linguaggio della "questione femminile" in quello dei diritti, restando sempre dentro l'orizzonte della parità fra donne e uomini, che significa in pratica l'omologazione delle donne agli uomini. La vicenda di Hina si riduce così ad una storia di diritti negati, e diventa pressoché impossibile, nel presente contesto storico, impedire che altri ci costruiscano sopra il confronto sommario fra la sua cultura di origine e la nostra. Lo mostra bene questo titolo del Foglio: "Il silenzio femminista sulle schiave di Allah. Neanche la tragedia di Hina ha smosso le paladine dei diritti delle donne: è ora di svegliarsi". C'è una cosa che vorrei dire qui, circa l'abusato "silenzio delle femministe": la formula, inventata da una giornalista dalle buone intenzioni per una riuscita manifestazione ("Usciamo dal silenzio" poi corretto con "Siamo uscite dal silenzio"), è diventata il leitmotiv dell'ignoranza pregressa e persistente su quello che le femministe dicono. Ma è anche il sintomo di una difficoltà a sapere e dire quello che è veramente accaduto in questi decenni con il movimento femminista, del quale dobbiamo ricordare, fra l'altro, che non è riducibile alla cultura e alla storia del cosiddetto Occidente.
Sulla vicenda di Hina Saleem, la sinistra critica, unitamente ad una parte della cultura conservatrice, quella veramente liberale, scontano una difficoltà ulteriore e cioè che non capiscono a che cosa serva la religione nella vita pubblica, se non a fare una pericolosa confusione, e considerano un valore imprescindibile la separazione tra religione e ordinamento statale. Come noto, ci sono alcuni paesi islamici che conoscono questa separazione, come la Siria, l'Egitto, l'Iraq di Saddam Hussein, ma la cultura islamica, nel suo insieme, non ha elaborato il senso della laicità come noi l'intendiamo. La dottrina islamica, come si sa o si dovrebbe sapere, orienta dettagliatamente le persone nella vita personale come in quella pubblica, favorendo, fra l'altro, anche comportamenti pubblici di grande nobiltà. Fra gli islamici ci sono ovviamente gli ipocriti e, soprattutto, ci sono quelli che non ci stanno: la giovane Hina, per fare un esempio piccolo ma notevole, non accettava più quell'orientamento. Domanda: siamo noi in condizione di apprezzare l'entità e la natura del conflitto da lei aperto, probabilmente nella maniera più spontanea e disarmata, con la sua gente? Preciso che questa domanda io la pongo non dal punto di vista del relativismo, nel quale non credo, così come non credo nel pluralismo, perché penso che la sfida del vero e del giusto va accettata e riformulata incessantemente. La pongo dal punto di vista di una che ha alcune critiche da fare alla modernità proprio in tema di religione, più o meno le stesse critiche e negli stessi termini che troviamo nella filosofia di Giacomo Leopardi.
Insomma, in questa fase storica, nei rapporti con il mondo islamico, è richiesto un grande lavoro di mediazione creativa, le distanze essendo diventate grandi perché noi siamo andati distanti, in bene e in male: distanti, non avanti.
Perciò il pensiero critico non basta e può perfino fare danno quando arriva all'ipercriticismo e proclama che il tempo delle grandi narrazioni è finito. C'è da narrare, io dico, la storia delle donne, storia anche politica di una lotta per la libertà che attraversa le civiltà in più sensi e a più livelli - quando dico "delle donne", intendo: delle donne senza escludere gli uomini, per cui si tratta, in definitiva, della vera storia dell'umanità.