Libreria delle donne di Milano

Pedagogika.it n.2-3 anno XIII, "Educare oggi"

Condividere il mondo. Intervista a Luce Irigaray
di Maria Piacente

Luce Irigaray, filosofa, vive e lavora a Parigi dove dirige il Centre National de la Recherche Scientifique. Tra le opere che l'hanno resa nota in Italia ricordiamo "La via dell'amore", "Oltre i propri confini", "La democrazia comincia a due". Abbiamo qui voluto intervistarla sul suo ultimo libro pubblicato: "Condividere il mondo"

Come è arrivata a scrivere Condividere il mondo? Qual è stato il suo percorso?
"Il mondo qual è già non possiamo condividerlo, a eccezione dell'universo naturale [...] Un mondo da poter condividere è ancora e sempre da elaborare da noi e fra noi a partire dalla percezione e dall'affermazione di ciò che e chi siamo in quanto umani qui ed ora. Degli umani che si sforzano di usare la propria energia e quella nata dalla (e) loro differenza (e) per creare: creare se stessi, aiutare l'altro a crearsi accettando anche il suo aiuto, e creare un mondo dove vivere in pace e felici lavorando al divenire dell'umanità a partire dall'appartenenza e dal mondo naturali che sono i nostri".
Così finisce il mio libro Condividere il mondo in cui cerco di definire e proporre elementi e cammini per costruire un mondo condivisibile nella nostra epoca. I nostri sistemi educativi ci incitano ancora ad adattarci a un mondo già esistente, più che a creare il nostro proprio mondo, rispettando quello dell'altro, degli altri. Questo poteva sembrare valido finché vivevamo all'interno di una sola comunità o società, condividendo una stessa cultura o tradizione. Una simile convivenza in un mondo unico è ormai al passato e dobbiamo inventare un modo di essere e di coesistere che convenga ai nostri tempi multiculturali, in cui i popoli e le tradizioni diverse convivono sullo stesso territorio. La consapevolezza e il rispetto dalle differenze sono gli atteggiamenti chiave per costruire il mondo che spetta a noi di costruire. Abbiamo da scoprire il ruolo positivo delle differenze tra le persone, fra le culture. Delle differenze che possono arricchirci se le accogliamo perché ci svelano un aspetto dello sviluppo dell'umanità che non conoscevamo.

In questa società liquida come viene definita dal sociologo Bauman, sembra che le relazioni tra le persone non abbiano più senso, un sentimento nichilista sembra attraversare gli uomini e le donne della nostra società occidentale. Mi chiedo: come può il contenuto di un libro come il suo contaminare il mondo e gli orizzonti di senso che esso ci impone/propone?
Spero che il contenuto del mio libro non "contaminerà" nessuno. In effetti il senso di questa parola è negativo e non capisco bene l'uso che certe persone ne fanno oggi. Desidero che le proposte che faccio in Condividere il mondo possano, invece, arrestare una contaminazione, fra l' altro nichilista, che risulta da un'assenza di limiti. Aprirci alle differenze che fanno parte della nostra vita quotidiana non significa rinunciare ad ogni limite per scioglierci in un flusso indifferenziato. Per incontrare l'altro in quanto altro, dobbiamo essere capaci di rimanere noi stessi, cioè di stare in due, senza integrare/assimilare l'uno all'altro né comporre un'unità che abolisca la(e) nostra(e) differenza(e).
In un'epoca in cui la critica dei nostri valori occidentali ci fa perdere i nostri punti di riferimento, rispettare l'altro come altro è ciò che ci può permettere di emergere da un nichilismo distruttore. L'altro, l'escluso dall'elaborazione della nostra cultura, è quello che ci offre oggi la possibilità di un futuro.

"Qualcosa d'ignoto mi governa a partire da un più intimo di me, qualcosa che non appare né ai sensi né alla mia conoscenza e tuttavia incontestabilmente c'è, più presente a me di ogni altra presenza" (pag. 60). Ecco i conti che devo/voglio/desidero(?) fare, quando al crocevia incontro l'altro o l'Altro da me. E l'angoscia subito mi si presenta. Perché l'angoscia?
Non posso rispondere al suo posto perché provi angoscia. In modo più generale, potrei dire che il passaggio da uno stato a un altro può suscitare angoscia. Per di più il brano che lei cita allude alla perdita di ciò che era familiare a causa del risveglio di un'intimità che risulta dall'incontro con l'altro. Questo incontro ha dato nascita non a un futuro bambino concepito dai due, ma a un nuovo essere che era ignoto ed è più intimo di tutto quello che era già sperimentato. Ciò che era familiare, in quanto prossimità esterna al mondo circostante, svanisce, si disgrega, è soppiantato da una vita intima, finora sconosciuta, che anima il respiro, i gesti, la scelta delle parole. Ma, se accetto di fidarmi dell'esistenza di quella che sono diventata, perché non rallegrarmi di questo stato non scontato, perché non ringraziare e lodare per questa energia ricevuta dall'incontro con l'altro, perché non coltivare questa vita intima che mi è stata così rivelata, sia per la mia propria crescita, sia per il divenire della relazione con l'altro? Non sarebbe la paura di un'evoluzione, di una mutazione verso lo sbocciare di un'umanità più compiuta, che ci trattiene in un universo familiare al posto di arrischiarci alla scoperta e alla condivisione dell'intimità con l'altro?

L'altro, nei suoi saggi, e penso anche a La via dell'amore, viene rappresentato come qualcosa di divino. Quali percorsi possono essere intrapresi, nella quotidianità del nostro stare al mondo?
Non capisco a cosa lei allude. Per me l'altro non è "qualcosa di divino". Non riesco nemmeno a capire il senso di queste parole. E quando, in certe traduzioni dei miei testi, l'altro è scritto con la maiuscola, chiedo di toglierla per evitare ogni confusione fra l'altro di cui sto parlando e l'Altro, in quanto assoluto, che si riferisce a Dio. La cosa che tento di dire è che coltivare il rispetto e l'amore dell'altro in quanto altro è necessario al nostro diventare divini. E anche: che questo divenire divino dell'umanità deve raggiungersi in due, due differenti. In effetti, rispettare ciò che chiamo la trascendenza orizzontale dell'altro - cioè la sua irriducibile alterità rispetto a me - educa i miei istinti e pulsioni verso la coltivazione di un'aspirazione alla trascendenza che fa parte della stessa umanità. Essere umani esige la capacità di trascendersi. Ma al posto di puntare direttamente a una trascendenza assoluta - al tutt'Altro - è utile imparare a rispettare la trascendenza dell'altro, di chi sta, qui e ora, vicino a me. Questa via dell'amore verso un prossimo che sempre mi rimane in parte ignoto ed estraneo, mi incammina a poco a poco verso una percezione della trascendenza che non danneggia il compimento della mia umanità. Per di più, rispettare la trascendenza orizzontale nei confronti dell'altro può fare da tramite fra tutte le diversità - di genere, di generazione, di tradizione, ecc. - e aiutarci a superare le incomprensioni e i conflitti che risultano da una percezione differente della trascendenza assoluta e della maniera di raggiungerla. Può aiutarci a costruire e condividere un mondo nuovo.

"Il sé dell'uomo si riceve prima da un altro che, avvolgendolo, gli resta impercettibile come altro: sua madre[...]. La madre, e poi la donna, restano assimilate ad un mondo solo naturale da cui è necessario emergere per diventare un uomo" (pag.10/11). C'è in questa parte, ancora una volta, un'interrogazione al tempo che precede l'autonomia, rivolta, in particolare, al tempo del rapporto con la madre e alle sue conseguenze nella nostra vita attuale.
Nel brano che lei cita, alludo alla costituzione della soggettività maschile nella cultura occidentale. Spiego come, non riconoscendo la sua madre come un altro trascendente a se stesso, un altro in cui ha la sua prima origine e da cui si è ricevuto per primo, l'uomo ha assimilato la madre, e poi ogni donna, a un mondo solo naturale. Un mondo, a cui lui appartiene e da cui dovrebbe emergere, che dovrebbe padroneggiare e dominare per diventare un soggetto maschile.
Torno anche su questa confusione fra madre e natura nel capitolo quarto di Condividere il mondo quando cerco di definire i problemi che l'uomo incontra rispetto alla conquista di un'auto-affezione che gli sia realmente propria e per cui non abbia bisogno di confondersi con il mondo ambientale o con la donna assimilata al mondo materno. Per il fatto che non abbia ancora pienamente riconosciuto la realtà della differenza fra la soggettività femminile e quella maschile, l'uomo resta dipendente dal mondo materno. Ciò spiega probabilmente perché sia rimasto dipendente dalla famiglia, per cui la donna-madre fa da cemento, e anche che abbia provato a trasformare ogni ambito in un sostituto del mondo materno, che si tratti della madre patria o della madre chiesa ad esempio. Ogni ambito si trova così assimilato ad un mondo in cui lui si sente a casa. Almeno era così finché siamo entrati in un mondo dove diversi tipi di tradizioni si confrontano, fra l'altro, rispetto al ruolo della famiglia. La nostra epoca costringe il soggetto maschile a emanciparsi dal mondo materno per conquistare un'autonomia tuttora incompiuta e problematica. Affermando la sua differenza in quanto donna, piuttosto che i suoi ruoli e potere materni, la donna può aiutare l'uomo, e di conseguenza se stessa, a fare un passo di più verso la costruzione di una società più adulta e in cui le differenze sono la condizione di una condivisione nella libertà grazie alla conquista e al rispetto dell'autonomia di ciascuno/a.

Ogni volta che mi accosto alla lettura dei suoi saggi, in particolare La via dell'amore e Condividere il mondo, mi commuovo, mi angoscio. Mi angoscio e mi commuovo perché vivo la parzialità delle parole e del loro non cogliere tutto il dicibile. La domanda che non so pronunciare e che sta sulla soglia: dobbiamo, noi donne, ancora tentare di creare altre soglie?
Non nascerebbe talvolta l'angoscia dall'incapacità di ringraziare e lodare per il risveglio di un'emozione che ci ha suscitato l'altro? Dopo questa domanda - che più di una volta ho posto a me stessa in diverse occasioni con un effetto positivo - vorrei precisare che la soglia di cui parlo nel primo capitolo di Condividere il mondo è una soglia che ci consente di uscire dal nostro proprio mondo per poter incontrarci con l'altro. Non si tratta dunque di una soglia che invita l'altro a penetrare in noi stesse in quanto donne, come lei sembra aver capito. Più che lasciare entrare l'altro nel proprio mondo, si tratta di uscirne per allestire uno spazio di incontro che non appartiene né al proprio mondo né al mondo dell'altro. Il gesto va, quindi, da sé verso l'altro e non dall'altro verso sé, come lei aveva interpretato, forse a causa dell'importanza delle soglie nel corpo femminile. L'incontro con l'altro come altro richiede di andare oltre a una semplice determinazione della morfologia corporea quale che sia l'importanza di questa. E un tale gesto aiuta a mettere in prospettiva l'appartenenza biologica: ad assumerla senza ridursi ad essa, segnatamente nella relazione con l'altro.
Aprire una soglia che permetta di uscire dal proprio mondo per aprirsi al mondo dell'altro dà un margine di libertà rispetto ad un determinismo istintivo che spinge la femmina a sottomettersi all'istinto del maschio. Prima di fare portare all'uomo tutta la colpa dell'infelicità delle donne, sarebbe utile chiederci come educare i nostri istinti e pulsioni in modo da entrare in un'altra economia della relazione nella differenza. Una relazione che ormai si fonda sulla condivisione di un desiderio colto e reciproco e non su un'istintività cieca, in cui la femmina aspetta dal maschio che si incarichi attivamente della soddisfazione di un risveglio dell'attrazione sessuale. Un simile atteggiamento non può accontentare né la donna né l'uomo perché li fa ricadere in uno stato che non è umano e non può regalare la felicità né all'uno né all'altro. Ma spetta ai due superare la sottomissione ai propri istinti. Aspettare che l'uomo solo lo faccia non sarebbe da parte della donna è effetto di un assoggettamento all'istinto che si manifesta a un altro livello?

Luce Irigaray
Condividere il mondo
Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 133, Euro 14,00.