| La Repubblica
09/04/2010 Ipazia, Sinesio e Mario
Luzi Di ROBERTA DE MONTICELLI "Lo
so,/per noi tutti che vi fummo insieme in quei tempi/ Alessandria vibra ancora
della sua febbre fina/ e anche del suo un po´ frenetico deliquio...".
Così Sinesio di Cirene, dotto poeta e ragionatore alessandrino, ricorda
la città della sua giovinezza. La città dove si era consumata, fra
la fine del IV secolo e l´inizio del V, nell´incendio della più
grande biblioteca dell´Antichità, l´ultimo "sogno della
ragione greca": simbolicamente massacrata nel marzo del 414 nel corpo di
Ipazia. Essa fu matematica e filosofa neoplatonica, commentatrice di Platone e
Plotino, Euclide, Archimede e Diofanto, inventrice del planisfero e dell´astrolabio
- secondo quanto ci riportano le poche testimonianze giunte fino a noi. Perché
della sua opera, come di quella del padre Teone, anche lui grande matematico,
non c´è rimasto nulla. Eppure quei frammenti bastano a testimoniare
la fama e l´ammirazione di cui godeva questa donna, che in Alessandria teneva
scuola di filosofia. La sua uccisione, scrisse Gibbon in Declino e caduta
dell´impero romano, resta "una macchia indelebile" sul cristianesimo.
Perché fu massacrata, pare, da una plebaglia fanatica ma eccitata alla
vendetta, si dice, dal vescovo Cirillo. Fu vittima quindi di un gioco per la conquista
della supremazia politica sulla città di Alessandria: ma il delitto inaugurava,
con l´epoca cristiana, l´orrore della violenza che invoca il nome
di Dio invano - per la verità in tutti i luoghi e i tempi dove una religione
diventa istituzione di potere terreno. Era da poco in vigore l´editto di
Teodosio, con il quale, nel 391, il cristianesimo era stato proclamato religione
di stato. Il Sinesio che ho citato è in realtà la voce di Mario
Luzi, che nello splendido piccolo dramma Il libro di Ipazia, pubblicato nel 1978,
fa dell´antico discepolo della filosofa alessandrina il testimone pensoso
di un´epoca di trapasso, di tramonto e di nuova barbarie: "Città
davvero mutata, talvolta cerco di capire/se nel tuo ventre guasto e sfatto/si
rimescola una nuova vita/o soltanto la dissipazione di tutto./E non trovo risposta".
E´ questa voce di poeta che prendiamo a guida di una possibile riflessione
sull´impotenza della filosofia, della ricerca di ragioni e di luce anche
per l´azione, quando essa lascia il suo "luogo alto, dove annidare
la mente" e scende sulla piazza. Dove - come dice a Sinesio uno sconsolato
amico - "l´intimazione della verità è un´arte di
oggi,/come la persuasione lo fu di ieri". "Agora", appunto, si
intitola il film su Ipazia del regista spagnolo Alejandro Amenábar, finalmente
in arrivo anche da noi. Si dice che sia "un duro atto d´accusa contro
tutti i fondamentalismi religiosi", tanto duro nei confronti del neonato
potere temporale della chiesa da aver subito addirittura ostacoli e ritardi alla
sua programmazione nel nostro Paese. Vedremo: in attesa, può ben essere
la splendida figura di questo vescovo perplesso a guidarci nella riflessione.
"Il suo destino sembra esitare incerto sopra di lui". Sinesio, neoplatonico
lui stesso, fu davvero in seguito eletto vescovo di Cirene: quando ancora era
indeciso fra i due mondi, ancora perduto nel sogno dell´armonia fra la ragione
che governa le cose terrene e il soffio sottile di quelle divine. In un tempo
in cui, invece - proprio come nel nostro - "la sorte della città è
precaria/esige risoluzioni forti, parole chiare all´istante. /Occorrono
idee brevi e decise - oppure cinismo". Ipazia poi è diventata
simbolo di molte cose. Il contrasto fra gli Elementi di Euclide e la Bibbia, ad
esempio - "le due summae del pensiero matematico greco e della mitologia
ebraico cristiana", come scrisse Odifreddi". Oppure la possibilità
provata che anche le donne sappiano pensare, ed eccellere addirittura nelle scienze
matematiche: e se guardate in rete troverete ancora parecchie, un po´ incongrue,
difese del pensiero "al femminile" condotte in suo nome (mentre parrebbe
difficile dare un sesso alla geometria euclidea). Ma noi ancora per un poco
preferiamo farci guidare, prima ancora che dalla voce di Sinesio, da quella del
poeta che lo anima. Mario Luzi ci accompagna fino nella più segreta stanza
notturna di Ipazia, dove questa donna che "vede lontano", lontano al
punto che "una luce d´aurora" promana da "quei discorsi accesi
da un fuoco di crepuscolo" - conduce la sua ultima conversazione con Dio.
"Sono come sei tu. Perché io sono te./Te e altro da te". E´
colta di sorpresa, Ipazia: e oppone resistenza: "Perché ti manifesti
ora? Sono stanca/e mi credevo compiuta." Terribile la risposta: "Non
lo sei ancora. C´è tutta l´enorme distesa del diverso,/del
brutale, del violento/contrario alla geometria del tuo pensiero/che devi veramente
intendere". Che devi veramente intendere: Ipazia così, nella perfetta
fedeltà al suo essere, che è amore del vero, filosofia, ricerca,
Ipazia alla cui parola "si addice la temperatura del fuoco" si avvia
verso quello che già intravede come l´estremo sacrificio. "Non
c´è ritirata possibile, Sinesio./ Qualcuno ci ha dato ascolto, in
molti hanno creduto/nella forza redentrice della nostra voce di scienza e di ragione. /Dobbiamo
deflettere a lasciarli al loro disinganno?". E ancora, il poeta dà
voce alla speranza che infine è quella di tutti noi, degli sconfitti: "La
nostra causa è perduta, e questo lo so bene./Ma dopo? Che sappiamo del
poi?/Il frutto scoppiato dissemina i suoi grani." Ma non c´è
scampo. Ipazia viene trascinata in una chiesa, e fatta a pezzi. "Così
finisce il sogno della ragione ellenica./Così, sul pavimento di Cristo". Ecco:
Ipazia e la sua Idea sono emblemi di un tale spessore, di una tale profondità
intellettuale e spirituale, e di un modo d´essere fatto di luminosa intransigenza
(così diverso da quello di Luzi, benché altrettanto preso nel sentimento
dell´assoluto), che fantastico a volte potesse trattarsi di una figura capace
di incarnare una vera alternativa - in quegli anni - alla dialettica indulgenza
di "Sinesio". Cioè di Luzi. Un ultimo sconsolato lume di intelligenza
illumina una scena che si restringe paurosamente dopo questa tragedia. Alessandria
è un ricordo lontano, e anche l´urto dei mondi, la trasvalutazione
dei valori lo sono. La scena si chiude su una Cirene rimpicciolita fino a coincidere
proprio con quella tanto piccola e meschina che è la nostra di oggi: "Spesso
me lo ripeto:/ senza un´idea di sé/ da dare o da difendere/non si
regna, si scivola a intrighi di taverna".
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