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Repubblica
- 14 febbraio 2005
Riproposto
un libro 'storico' di Lea Vergine
Le
donne nell' arte tra gloria e oblio
L'altra
metà dell' avanguardia' è un inventario coraggioso e anche
doloroso
ENRICO
REGAZZONI
MILANO -
«Vuole sapere che effetto mi fa? Me ne fa due, uno bello e uno brutto:
proprio come quando rincontri un amore dopo venticinque anni». Con
la consueta ironia, il sorriso reso ancor più luminoso dal tempo,
Lea Vergine parla di questa nuova edizione de L' altra metà dell'
avanguardia 1910-1940 che il Saggiatore sta per mandare in libreria e
che verrà presentato domani pomeriggio a Palazzo Reale, in Milano.
Proprio la sede in cui, all' inizio del 1980, da questa ricerca prese
corpo una mostra che poi sarebbe emigrata a Roma e a Stoccolma, e dopo
la quale la percezione dell' arte femminile non sarebbe più stata
la stessa. Un inventario coraggioso e anche doloroso del lavoro di oltre
cento artiste che diedero un contributo tutt' altro che marginale alle
avanguardie del Novecento, ma che pure si videro spesso emarginate, o
si autoemarginarono, perché donne, e dunque ombre, testimoni, tutt'
al più compagne. Cubiste e futuriste, vorticiste e dadaiste, astrattiste
e surrealiste, derubricate a figure minori, recuperarono dignità
e senso, grazie al lavoro di Lea. Tanto che la ripubblicazione del libro,
aggiornato nelle vicende professionali e negli apparati iconografici,
sembra oggi la riproposta di un solido manuale di storia, che può
essere perfezionato ma non contraddetto. Qual è l' effetto bello
di questa riedizione? E quale quello brutto? «Bello è constatare
che questo lavoro ha anticipato il modo di vedere certe cose dell' arte.
E il fatto che un editore giovane si invaghisca di un libro simile e lo
ripubblichi, mi pare un riconoscimento ulteriore. Brutto è l' essermi
dovuta rituffare, per oltre un anno, in un mondo già visto, e da
me consumato. Con tutte le ansie del caso». Allude alla vita delle
donne? «Certo, fantasmi che tornano, e ai quali hai già dato
tanto della tua vita. Con loro, si ripresentano i conti che pensavi di
aver già chiuso, quelli che ogni figura femminile deve fare con
gli archetipi: la madre, la nonna. Fantasmi più di prima, perché
le poche sopravvissute sono, nel frattempo, morte. Mi ha pesato non avere
più una figura come Meret Oppenheim che con la sua ironia alleggeriva
tutto, anche il bellissimo racconto della sua terribile vita». Chi
è viva ancora, di queste artiste? «Carol Rama è viva
e operante come una diciottenne. Lo sa che si nutre solo di cappuccini?
Sono anche vive Leonora Carrington e Dorothea Tanning. Ma loro due, se
pure lavorano, lo fanno con esiti non interessanti». Ebbe la giusta
fortuna, questa sua ricerca? «Forse ne ebbe troppo poca. Le artiste
che non avevano bisogno di me, tipo Oppenheim e Delaunay, continuarono
il loro lavoro. Ma la metà delle altre rientrò nell' ombra
e riprese la strada dell' oblio». Provò mai antipatia per
qualcuna di queste artiste? «Antipatia, no. Un po' di rincrescimento
per quelle che si erano buttate via negli anni '50 e '60. Come la de Lempicka.
O come la Nusch, che avrebbe potuto far meglio». Col tempo, ha modificato
la sua idea dello specifico femminile, in arte? «No, la penso sempre
allo stesso modo. Credo che esista, e sia pieno di ironia, capacità
di disobbedire, coraggio. Fanno arte, le donne, e la fanno bene: ma non
si prendono mai troppo sul serio, così come tengono presente che
nella vita esistono cose ben più importanti dell' arte. Di qui
il loro coraggio». E non le è mai venuto il dubbio che il
mercato, alla fine, sia un giudice abbastanza equo dei valori artistici?
«Certo che lo è, ma magari questo riconoscimento del mercato
arriva che l' artista è morto. Anche ai tempi del Vasari la scomparsa
dell' autore triplicava il valore delle opere. Delle mie artiste, soltanto
la metà ebbe un giusto mercato in vita. Frida Kahlo, ai suoi tempi,
era conosciuta solo in uno stretto giro di intellettuali sovietici. Oggi,
dopo che Madonna ha acquistato dei suoi pezzi, ha una valutazione iperbolica».
Ricorda delle critiche che la infastidirono? «L' equivoco sul quale
si gioca, oggi come allora, è quello della rivincita femminista:
quello per cui ogni donna sarebbe capace, se non schiacciata dal maschio,
di fare cose straordinarie. Una retorica da Vispe Terese che offendeva
la dignità di queste disgraziate». Che lei selezionava solo
in base alla qualità. «Chiaro. Ne ho scartate tantissime.
Non volevo fare né un lavoro sociologico, né un' opera di
riparazione storica. Io investigavo nei gruppi, poiché mi interessava
lo spazio che queste donne riuscivano a procurarsi in ambiti decisamente
maschili. Proprio per contrastare il criterio di "moglie di"
o "amante di". Ma dovevano essere brave. Ciò che mi faceva
ridere allora, e mi ha rifatto ridere adesso, è che mentre le artiste
fra il 10 e il 20, tipo le astrattiste e futuriste russe, sembravano suore
laiche, tutte dedite alla famiglia, le dadaiste e le surrealiste ne facevano
di tutti i colori».
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