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La Repubblica 15 luglio 08
Simone Weil la guerriera Il
mito greco e lorrore nazista
di Nadia Fusini La
filosofa francese espresse le sue idee in un saggio sull´Iliade, scritto
a pochi mesi dall´occupazione tedesca di Parigi Una riflessione al femminile
sui temi della forza e della ferocia. Tre esperienze diverse a contatto con la
brutalità del Novecento Leggere l´opera di Omero l´aiutò:
nel passato trovò principi e valori con cui rispondere all´angoscia
del presente Il culto della virilità non è solo una prerogativa
di Hitler ma serpeggia nel fondo ideologico delle politiche e delle società
dell´Occidente Anni
fa, Angela Putino, un´indimenticabile amica filosofa troppo presto scomparsa,
scriveva: «Simone Weil è una donna e il significante che la presenta
al mondo degli altri è precisamente quello di "donna", che la
pone in un luogo che dice della sua esperienza come un esperire che non è
di ognuno». A Simone Weil Angela ha dedicato negli anni un´attenzione
fervida, incarnata in interventi orali e in libri, sì che è diventata
il mio ponte verso Simone. Io leggo Simone con Angela, mai senza di lei. Insieme
ci eravamo più volte interrogate sulla violenza; se e come, essendo per
noi donne un´esperienza di cui siamo spesso vittime, non si produca in noi
per ciò stesso un pensiero differente. Che contrasta, fessura, scarta rispetto
ai luoghi comuni, ai pregiudizi, alle convenzioni. Chi si presenta al mondo
vestita di quel significante che l´abbiglia di certi carismi e doni, sa
che tra quei doni e carismi c´è la vulnerabilità. Nella donna,
il genere umano si coglie nella sua propria nudità di preda. E´ un
sentimento di sé che una donna conosce bene; a volte, ci gioca. E fa la
preda; si atteggia, come la Lulù di Wedekind, a meravigliosa belva. Ma
per lo più, subisce. E ha paura. Spesso e volentieri una donna convive
con un sentimento di sé, direi alla Jane Austen, di un gentil sesso debole,
quanto a equipaggiamento fisico. La sua forza la depone come fosse un seme, o
un uovo, altrove: la cova o la coltiva nella sopportazione di dolori che l´uomo
non conosce. E´ lei a partorire la vita e sempre lei al capezzale di chi
muore. Al contrario, l´esercizio della forza è un compito da cui
la cultura, la civiltà l´hanno assolta. Non le chiedevano, almeno
nel passato, di combattere. Nella tradizione, se una donna andava in guerra era
per curare i feriti. Ora è vero, ci sono donne - soldato, ma l´ipocrisia
vuole che quegli eserciti siano al servizio non della guerra, ma della pace. Per
lo più è ancora vero che se si tratta di violare, penetrare, è
piuttosto l´uomo maschio chiamato a farlo. Lui si è specializzato
nella performance. E nel gusto. Proprio per questo, tanto più interessante
risulta che nel cuore del secolo scorso tre donne diverse, lontane tra loro, si
siano arrischiate in una riflessione sulla violenza di un´altezza abissale.
Di queste tre donne - Simone Weil, Rachel Bespaloff, Hannah Arendt - vi racconterò. Mi
direte: non solo delle donne si sono interrogate in quegli anni su che cosa accadesse;
anche degli uomini l´hanno fatto. E io risponderò che queste tre
donne in particolare sono scese come palombare nelle tenebre del male assoluto,
della violenza smisurata che segnò il cuore dei loro anni. Hitler e l´hitlerismo
ponevano questioni alla mente, al cuore e alla carne, che queste tre donne seppero
sostenere. Per dirlo con una bravissima studiosa di Simone Weil, Rita Fulco, seppero
«corrispondere al limite». E cioè, rispondere di contraddizioni
strazianti, che mettevano il pensiero di fronte all´impensabile. Perché
donne? Lo seppero fare, intendo dire, proprio perché donne? Risponderei
di sì, e non per orgoglio femminista, ma perché mi torna alla mente
una conversazione con un´amica psicoanalista argentina, Maria Elena Petrilli,
in cui mi diceva come da parte delle bambine vi sia una precoce percezione del
proprio corpo, tanto più misteriosa perché, al contrario dei maschi,
non possono verificare in modo semplice e diretto l´integrità di
organi interni, invisibili. E´ per questo, mi chiedevo mentre la mia
amica parlava, che il corpo per una donna non è mai mero oggetto, ma sempre
vita? Per dirla con Husserl, mai Körper, sempre Leib? E cioè, essere
vivente? Non è così, evidentemente, per un uomo maschio, se può
violentare un corpo di donna. E se lo fa, e può farlo, è perché
il corpo dell´«altro», evidentemente, non lo sente, né
lo pensa come il suo´. Ma chi non percepisce l´altro come
essere vivente, chi addirittura arriva a pensare che la violenza corrisponde a
un fantasma di godimento, una specifica joussance, o volupté femminile;
chi riesce a sottrarsi alla percezione dell´altro come di sé medesimo,
chi non sperimenti in sé l´estraneo, è questo un uomo? «Sperimentazione
dell´estraneo», chiama Simone Weil la facoltà che più
le interessa. E si chiede: perché non si interroga sul proprio perverso
piacere chi nell´altro si diverte a suscitare il grido di dolore? Finché
non si avrà il coraggio di andare a vedere´ lo spazio cieco
in cui nasce questa violenza, insiste, non si comprenderà lo sfondo spettrale
e cieco della violenza tout court. Ma chi può farlo? Non certo chi la violenza
la esercita. Perché in chi provoca sventura c´è una voluta
ignoranza della sofferenza che provoca. Ecco perché la violenza è
cieca. Non che Simone Weil non veda la complicità tra il fantasma della
forza e l´attitudine alla sottomissione, il nodo che aggioga vittima e carnefice
nella medesima anestesia del corpo e della mente. Simone anzi riconosce che il
culto della Forza non è solo la tabe viriloide dell´hitlerismo, ma
serpeggia nel fondo ideale e ideologico delle politiche e delle società
d´Occidente. Legge la sua drammatica potenza e tragica realtà
nell´Iliade, che ribattezza «il poema della forza». E proprio
prima di partire per New York, onde sfuggire alla persecuzione razzista, consegna
alla rivista Cahiers du Sud il saggio sull´Iliade, che comparirà
a Marsiglia nel gennaio 1941, a firma di Emile Novis, anagramma di Simone Weil. Il
saggio si apre con queste parole: «L´Iliade è il poema della
forza. Il vero eroe, il vero argomento dell´Iliade è la forza».
E continua: «la forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso
una cosa». Sono affermazioni che risuonano nette come uno schiaffo, sonore,
definitive. A conferma di una condanna, a cui la spinge il pacifismo radicale
che la ispira. La forza, sia che la si possieda come Achille, sia che la si subisca
come Ettore, distrugge. Sono paurose, insiste Simone, le visioni di violenza che
si aprono nel poema omerico, dove l´essere coincide con l´essere-per-la-morte,
dove è il pensiero della morte a dare agli eventi «il colore dell´eternità».
La forza è l´ingiustizia, la forza è il male. Omero, né
dalla parte dei Greci, né dalla parte dei Troiani, la descrive con amarezza
e imparzialità. Con la sconfitta della Francia nel 1940, l´occupazione
di Parigi, e la montante barbarie nazista, inesorabile, tremenda, la storia imponeva
non solo a Simone di alzare la guardia. Leggere il grande libro l´aiutò;
in uno scrigno del passato trovò principi e valori con cui rispondere all´angoscia
del presente. Lesse di come la violenza tenda all´annientamento della presenza
umana, quanto la forza sia irreale, che cumulo di menzogne produca. La forza «de-realizza»,
comprese Simone: «la violenza stritola quelli che tocca», «uccidere
è sempre uccidersi». Tra le pieghe del grande libro colse la visione
dell´annullamento della presenza umana. Può forse il guerriero desiderare
che l´altro viva? si chiese. Evidentemente no. Pure, per lei, era questo
essere umani, l´unica forza a cui umanamente soccombere era quella di Amore;
solo Amore fa guerra alla guerra - proclamò la «pensatrice guerriera». Non
era certo facile in quegli anni violenti trovare la forza di rinnegare ogni uso
della forza ai fini della vita, proclamare la necessità dell´amore
contro la necessità della forza. Di fronte all´ «irrealtà»
che aveva in quegli anni il nome di Hitler l´idea di giustizia guidò
l´«impolitica» Simone alla capriola finale: prese parte alla
guerra, si fece per l´appunto «guerriera». Tornò dagli
Stati Uniti a Londra, chiese di essere paracadutata oltre le linee nemiche. E
alla fine, non potendo mettere fine alla battaglia, se la conficcò come
una croce nel suo proprio cuore, e ne morì. (1. Continua) |