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Repubblica - 15 settembre 2011
UN PAESE DI SCRITTORI Tutti
creano, nessuno legge Gli italiani secondo la Ortese
(il brano che segue è tratto da Da Moby Dick allOrsa
Bianca, raccolta di testi giornalistici di Anna Maria Ortese scritti
tra il 1939 e il 1994, in uscita da Adelphi, - pagg. 188, euro 13)
Non c' è forse, dopo l' Italia, un altro Paese al mondo dove ciascun
abitante abbia come massima ambizione lo scrivere, e ce n' è pochi
altri dove quel che ciascuno scrive - pura smania di dilettante o regolarissima
professione - scivoli, per così dire, sull' attenzione dell' altro,
come la pioggia su un vetro. Ma scivola è un' espressione indulgente:
inquieta, offende, avvilisce, si vorrebbe dire. Ogni abitante-scrittore
se ne sta sul suo manoscritto come il bambino, a tavola, col mento nella
sua scodella, sogguardando la scodella, cioè il manoscritto, dell'
altro: e se quello è più colmo, sono occhiatacce, lacrime...
si sente parlare del tale, del tal altro che ha pubblicato o sta per pubblicare
un nuovo libro. Subito, chi ha questa italianissima passione dello scrivere,
o dello scrivere ha fatto il suo mestiere, si precipita a vedere di che
si tratta, e in che cosa il rivale si mostri inferiore a quel che se ne
dice, o si temi. Se il sospetto, la paura, si rivelano infondati, è
un sollievo tinteggiato di nobile comprensione: «Un buon libro...
Hai letto l' ultimo libro di T.? Certo potrebbe far meglio... L' ho sfogliato
appena - e me ne dispiace - ma non ho mai il tempo di leggere...».
Ed è vero: perché se appena alle prime pagine il rivale
appare quel che si desidera - un mediocre - cessato l' allarme, la sua
modesta fatica non interessa più. Quando già alle prime
pagine, invece, lo scrittore-lettore si rende conto di trovarsi di fronte
a un' autentica novità e forza, il colpo che ne riceve è
così brusco che, lì per lì, non riesce a fiatare,
e se ne sta zitto e disfatto nel suo angolo. Di continuare non se ne parla,
prova una specie di nausea. In un secondo momento, però, scoppia
la reazione: si tratta di un' opera indegna, una vera truffa letteraria,
«ma dove andiamo a finire di questo passo... vedrai che a quello
gli danno un premio...», e così via. E il premio qualche
volta arriva, e allora è un dolore, un lutto generale, e si cominciano
a scrivere articoli abilissimi dove si parla perfino del primissimo elzeviro
dello studente di Caltagirone, o si elevano entusiastiche lodi all' ingegno
di V., che, novantenne, ha ristampato l' intera mole delle sue opere,
insipide e pesanti come patate: e solo si tace il nome del vero colpevole,
l' ultimo arrivato, che non è stato al gioco d' infilare le parole
l' una dopo l' altra, semplicemente, ma ha «adoperato» la
parola, l' ha mortificata mettendola al servizio di alcuni interessi.
Interessi! Non è che gli scrittori italiani non ne abbiano, e anche
belli e vivi: ma nulla, ad essi, per tradizione e per gusto, è
più caro del piacere di scrivere; e si sa come gli interessi, le
passioni, le ire, la costante ricerca di una verità che non sia
soltanto quella della nostra pelle, ma la verità tua e mia, siano
contrari a questo raffinatissimo tipo di piacere. Raffinatissimo per i
vecchi, naturalmente. Per i giovani, e non mi riferisco, s' intende, a
una giovinezza di soli anni, scrivere, se ci sono delle passioni o delle
collere da raccontare, è anche un piacere, ma per caso. Non scrive
per provare piacere, insomma, un giovane: scrive per farsi uomo, uomo
che esprime gli altri, che riveli in sé gli altri, che sia un'
aggiunta al patrimonio degli altri. Si capisce così, data questa
tendenza degli italiani a concepire lo scrivere come un piacere, perché
da noi tutti scrivano e nessuno legga, e quello che minaccia di farsi
leggere dagli altri che non siano gli scrittori colleghi sia considerato
un intruso e gli si tolga magari il saluto (...); si capisce perché
la nostra letteratura sia in genere un soliloquio, uno sfogo forbito oppure
curioso, mai un' autentica voce, un richiamo, un grido che turbi, una
parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze, il lampo di un
giorno nuovo. Noi scriviamo per piacere a noi stessi, nel migliore dei
casi; nel peggiore, agli altri: quando avremmo bisogno ogni giorno di
ripeterci che siamo la più fastidiosa espressione della nullità,
nella più arretrata e insignificante delle nazioni. Esemplare espressione
di un costume e anche di un Paese dove le lettere, nella loro generalità,
non furono mai fini a se stesse, ma modo di esprimersi di quegli interessi
e passioni che, soli, fanno umana la vita dell' uomo, e proprio per questo
diventano a volte altissima letteratura,è il carteggio M. Gorki
- A. Cechov. (...) Cechov e Gorki non erano soltanto due illustri letterati,
in certo senso non lo erano affatto, erano due enormi scrittori, non vivevano
per scrivere, ma scrivevano per vivere normalmente, per divenire, per
realizzarsi come uomini veramente liberi, come spiriti in cui moltitudini
di uomini si sarebbero ritrovati, riconosciuti, e sarebbero a loro volta
divenuti sinceri, onesti, liberi. E per questo, perché essi non
avevano altro scopo, i libri e le regole dello studio, del mestiere di
scrivere, ritornavano, come dovrebbe essere, al ruolo di secchi strumenti,
e per la vita guardata allo specchio non c' era posto. Contava la vita
nuda. Contava l' immersione continua nel mare doloroso del mondo, contava
il coraggio con cui si affrontava la vista di tutto il male, le sofferenze,
le vergogne possibili; e il collega era semplicemente, nella grande lotta
contro tutto ciò che opprime l' uomo, un compagno, la cui opera,
a quel fine, era importante quanto la propria. Perché si proponeva
qualche fine, allora, l' intelligenza. Un fine superiore al piacere, alla
pelle. Ed ecco l' interesse profondo di uno per l' altro, il rispetto,
l' ammirazione, la solidarietà, il bene. Cose che fanno sorridere,
adesso. Ma a leggere, in segreto, questo carteggio, ecco che il cuore
si mette a battere, e non siamo più nel nostro Paese, e neppure
nel nostro tempo, siamo molto lontano, non si vedono manifesti, ma si
odono voci: e gli occhi splendono, le mani ardono.
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