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Repubblica
- 17 agosto 2004
L'
uomo e la donna secondo la Chiesa
di Adriano Sofri
Si dice femminismo,
e, salve tutte le possibili cautele, si intende una tensione di libertà
e di consapevolezza. Si dice maschilismo e si intende un' ottusità
e una prepotenza. Dall' essere maschio non può derivare una consapevolezza
migliore, una liberazione? Credo di sì: ma solo parassitando discretamente
il femminismo. Letta la lettera ai vescovi, la tentazione di alzare le
spalle, e obiettare che la donna e l' uomo non esistono, ed esistono solo
le donne e gli uomini, è forte. Ci sono un po' più di tre
miliardi di donne, diverse una dall' altra, e quasi altrettanti uomini.
Tuttavia nessuna astrazione continua a sembrarci concreta e influente
come questa: la donna, l' uomo. Non c' è un solo momento del giorno
e della notte, della veglia e del sogno, in cui non mi ricordi di essere
uomo, maschio. Una volta non me ne ricordavo abbastanza, oppure solo come
ci si congratula di una nascita fortunata: poi vennero le donne, e il
femminismo (cose a loro volta distinte) e fu come essere avvertiti, rivestendosi,
che la vita a venire sarebbe stata una convalescenza. La lettera di Ratzinger
è stata salutata come una innovazione "sorprendente e dirompente"
(Luisa Muraro), o invece come la riformulazione di posizioni assodate.
Importa comunque il momento in cui è stata spedita. Con un paio
di bersagli dichiarati: il femminismo agonistico, e un femminismo di gender
(un po' messo in caricatura) che minimizza la differenza di natura in
nome della scelta di cultura, e la sua minaccia alla famiglia. E con due
mire non dichiarate, direi: la resistenza all' omosessualità, e
la ridefinizione dello statuto religioso e civile di uomini e donne di
fronte all' offensiva coranica sulla donna, che sta al cuore dell' aggressività
islamista. C' è un' ambiguità nell' insistenza sull' importanza
della differenza biologica di sesso. Per un verso, essa ribadisce il carattere
naturale della coppia eterosessuale e della famiglia, e dunque la deviazione
innaturale dell' omosessualità e di altre vocazioni. Per un altro,
valorizza la differenza, rinunciando a ridurre la specificità femminile
alla "neutralità" androcentrica. In generale, ogni rimando
alla biologia oscilla fra una soggezione reazionaria e un ancoraggio lucido
alla natura umana. L' uomo ri-creatore della propria natura pretende di
distaccarsi da nascita e morte e di scegliersi la sessualità. Già
al centro dell' utopia politica stava il sogno di un' umanità multiversa,
in cui tutti fossero tutto. Come anticipo sull' uomo nuovo (uomo, appunto)
ci si dedicava alla critica pratica dei ruoli ereditati per nascita o
guadagnati alla lotteria sociale, attraverso un mimetismo proteiforme:
si era alla rinfusa studenti e operai, settentrionali e meridionali, indigeni
e immigrati, pastori e ingegneri. Più difficile: giovani e vecchi.
Impossibile: maschi e femmine. Il femminismo intervenne a proclamare una
sorte che non consentiva la mimesi. Qualcuno provò il travestimento:
con esiti tristi, o caricaturali. Per una volta, bisognava rassegnarsi
a restare quello che si era, se si era maschi. Se si era donne, si diventava
quello che si era mettendo i maschi alla porta. Il mimetismo, bel teatro
del rimescolamento sociale, toccava il suo limite e rimbalzava indietro,
per accorgersi della dose di illusione e di alienazione contenuta già
nelle incarnazioni negli altri ruoli. Il riflusso fu questo rimbalzare
indietro, verso una propria identità più stretta e perfino
angusta e avara, verso casa propria e i propri vicini di casa, e infine
verso la natura umana. Le abbiamo provate, queste cose. L' insofferenza
per le differenze retrocessa a una resa alla differenza. Perfino il passo
celebre di san Paolo ai Galati: "In Cristo, non c' è più
padrone né schiavo, non ebreo né greco, non uomo né
donna", rischia il malinteso. Perché bisognerà liberarsi
della discriminazione sociale, di padrone e schiavo, e bisognerà
essere migliori del destino nazionale, di ebreo e greco, ma si resterà
uomo e donna. (Nella Lettera ai Colossesi il brano ricomparirà
tal quale, salva la menzione di uomo e donna). è successo al femminismo,
come a ogni rivendicazione di un' identità cancellata o oppressa,
di cercare nella rilettura della storia del genere umano, e più
esattamente nei suoi testi sacri (religiosi o laici: il marxismo diventò
presto una Sacra Scrittura), una propria genealogia oscurata. Il femminismo
ha reinterpretato il racconto della Genesi. Le riletture suscitate da
un punto di vista nuovo e rivoluzionario - e nessuno lo è stato
quanto quello femminista - mettono in luce significati ignorati e scoprono
tracce di eventi rimossi o dimenticati. Ma rischiano di chiedere troppo
a un testo che porta inevitabilmente il segno della mentalità e
del pregiudizio del proprio tempo. Riflessione che vale anche per i credenti
e la Scrittura Sacra, dal momento che, come detta il Concilio Vaticano
II sulla Rivelazione, Dio ha parlato "per mezzo di uomini e alla
maniera umana... Le parole di Dio, espresse in lingue umane, si sono fatte
simili al parlare dell' uomo, come già la Parola dell' Eterno Padre,
avendo assunto le debolezze dell' umana natura, si fece simile all' uomo".
Notevole pensiero, che sembra chiudere il cerchio della creazione, Dio
che si fa a immagine dell' uomo. Dunque ci si attenda dalla rilettura
la scoperta di significati nuovi, piuttosto che cedere alla superstizione
della filologia sacra e delle "guerre per un paragrafo". Quanto
al femminismo, mentre la lettura teologica ne viene spettacolosamente
arricchita - oltretutto, contro una ostinata resistenza delle istituzioni
teologiche all' accesso delle donne - l' ambizione di una rilettura radicale
della Scrittura che fondi l' autonomia e la libertà della donna,
se non lo smantellamento dell' immagine patriarcale e maschile di Dio,
è illusoria, e conclude a una interpretazione capziosa o forzata
del testo. Così mi sembra in studi interessanti come quelli di
Elizabeth A. Johnson (Io sono colei che sono, 1998), tesi a indicare nell'
affinità, fino allo scambio, fra la figura femminile di Sophia,
la sapienza di Dio (erede delle figure della Gran Madre, e specialmente
di Iside), e Gesù, il fondamento di una rilettura non androcentrica
della Bibbia, in cui il rapporto "dominazione/subordinazione"
ceda alla "reciprocità e alla mutua comunione". La Johnson
vuole rispettare "l' irriducibile maschilità dell' umanità
di Gesù", così come quella del Logos, maschio sia nella
personificazione che nel genere linguistico, e forse proprio per questo
preferito, sulla scorta del prologo del Vangelo di Giovanni, alla Sophia
della letteratura sapienziale, femminile nella personificazione come nel
genere linguistico. Ma il Gesù liberatore del Vangelo - e liberatore
specialmente delle donne, le ultime fra gli ultimi di ogni classe - le
sembra presto impoverito dentro una cristologia androcentrica. La conclusione
è che la raffigurazione di Gesù secondo la divina Sophia
rende "non impensabile - e nemmeno non biblico - confessare Gesù
Cristo come l' incarnazione di Dio immaginato come femminile". Conclusione
che suona come una consolazione un po' capziosa all' incidente per il
quale Dio non si è incarnato in una figlia. Il genere maschile
di Gesù non implica, dice Johnson, che Dio debba essere necessariamente
riconosciuto come maschio. "In Gesù Cristo incontriamo il
mistero di Dio che non è né maschio né femmina, ma
come Creatore di ambedue a propria immagine può essere immaginato
di volta in volta come l' uno o l' altro". Johnson rivendica che
"la riflessione cristologica che dà spazio all' immaginazione
femminile è capace di contribuire in teoria e in pratica all' apprezzamento
della dignità delle donne in carne e ossa". Intenzione preziosa,
a condizione di non forzare l' interpretazione dei testi, del loro linguaggio
e delle loro culture. E in che cosa potrebbe tradursi una rilettura antipatriarcale
che muovesse dall' intenzione di contribuire alla dignità delle
persone omosessuali? Nonostante le intimazioni della correttezza politica,
e del buon senso, continuiamo troppo spesso a dire "uomo" in
senso neutrale, ingoiando in quel maschile l' appendice femminile. Ho
consultato il mio cappellano biblista, Roberto Filippini (che non ha colpa
delle mie opinioni, naturalmente). La Genesi dice che Dio creò
"l' uomo, maschio e femmina lo creò". E il primo uomo,
che inventa il nome agli altri animali, chiama invece lei col femminile
del proprio nome: ish e isha - "uoma". A propria immagine e
somiglianza. Padre e madre - lo disse papa Luciani, facendo tanto rumore.
Pensiero assodato per i biblisti, di un Dio padre dai sentimenti materni,
misericordioso come un grembo di madre. E tuttavia nel tono così
domestico di quel papa si sentì qualcosa di più, un Dio
davvero padre e madre. Nella Scrittura il rapporto fra Dio e il suo popolo,
o l' umanità (e poi la sua Chiesa) è quello fra il marito
e la sua sposa. Fonte di una contraddizione mai risolta, perché
la Chiesa-sposa è a sua volta eminentemente maschile: allora riproduce
la metafora nel rapporto fra la gerarchia maschile, vicaria di Dio e di
Gesù, e la parte femminile, e specialmente quella consacrata (benché
esclusa dal sacerdozio) della Chiesa. Il carattere patriarcale della legislazione
biblica non è in dubbio. La donna è una proprietà
del marito. La prima fra le proprietà viventi: "Non desiderare
la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua
schiava, né il suo bue, né il suo asino... ". Né
è in dubbio una diffusa ginofobia nella Bibbia - con eccezioni,
fino a quella meravigliosa del Cantico dei cantici: meraviglia nuziale,
del resto. Nella Genesi, la condizione della donna - oppressa come madre
da una ridda di dolori, tiranneggiata dal marito - serba la memoria di
un' origine decaduta. "All' inizio non è così".
Uomo e donna stanno uno accanto all' altra, uno fronteggiato dall' altra.
L' idea sponsale - il farsi una sola carne - è in un lusinghiero
equilibrio. C' è lui e, di contro, lei. C' è una coppia,
e fra loro tutte le possibilità: armonia, conflitto, fusione, distanza.
"Non è bene che l' uomo sia solo": non di altri ha bisogno,
ma dell' altra, diversa da lui, a lui complementare, e viceversa. In Grecia
l' equilibrio originario fra uomo e donna non si è rotto per la
corruzione del rapporto con Dio a causa del peccato, ma dopo un lungo
fronteggiarsi, una guerra calda prima e poi fredda fra uomo e donna. In
Grecia la memoria della guerra è ancora recente. In Israele è
già archiviata. Nella Grecia classica la donna è finita
agli arresti domiciliari, e declassata nella stessa passione amorosa:
ma gli uomini continuano a ricordarsi di averla temuta, e stanno ancora
attenti a non offrirle le spalle, a scanso di qualche tardiva coltellata
vendicatrice. La donna è umiliata e battuta, ma il suo fantasma
fa ancora paura. In Israele no. Per questo Gesù irrompe con la
sua tenerezza nuova, verso le donne - e i bambini, e gli animali. Verso
creature umili, piuttosto che umiliate, ultime, trascurate o vessate.
Ci sono state gran donne, eroine grandi (Ester) e piccole (Rizpa, piccola
Antigone) o - più spesso - nemiche astute e malevole, ma la donna
del tempo di Gesù non è più una nemica, neanche alla
memoria. Confrontatelo col Simposio di Platone - un racconto dell' origine
dei sessi che sta anch' esso alle famose radici dell' Europa. Là
all' inizio c' è l' unità, e le vocazioni sessuali (compresi
pederastia e lesbismo) vengono dalla divisione, e anelano all' unità
perduta. L' amore occidentale, quello del culto cortigiano e cavalleresco,
e poi romantico, nasce soprattutto nel Gesù dolce dei vangeli.
Si è teneri con creature che stanno in basso, e si sollevano fino
a sé. Non con nemici sconfitti, e onorati ancora della paura e
dell' ostilità. La tenerezza verso la donna è l' omaggio
e il tranello del corteggiamento maschile. Il suo declino è forse,
oggi, la rivincita dell' emancipazione, non della liberazione. Molto dell'
odierno accanito spettacolo sessuale ha a che fare con un trionfo dell'
emancipazione, a spese della liberazione. Nonostante certe pedanterie
leguleie, le versioni prevalenti dell' islam sono più rigidamente
patriarcali che non fosse il vecchio Testamento. Più esattamente,
la santa guerra islamista è una guerra preventiva di riaggiogamento
delle proprie donne, minacciate di passar di mano, al nemico occidentale,
o a se stesse - che è quasi, ma solo quasi, purtroppo, la stessa
cosa. L' America, il sionismo, l' occidente, minacciano di far evadere
la donna d' altri, e il resto degli animali e del petrolio e della roba.
Opponendo alla prigionia patriarcale delle donne nell' islam la parità
di diritti e insieme la differenza femminile, la chiesa cattolica si batte
su due fronti: il secondo è la riconquista delle proprie donne.
Alle quali si riconosce il diritto a fare, e fare bene, le cose che si
sono ritenute troppo a lungo riservate ai maschi; a rinunciare, quando
lo vogliano, e non solo nella proiezione consacrata, alla maternità;
a fare, e far bene, con la solidarietà delle istituzioni e degli
uomini, da mogli e madri. E insieme le si ammonisce a non rinnegare la
propria natura, la vocazione a prendersi cura degli altri e del mondo,
e anzi a contagiarne gli stessi uomini. In cambio, si chiede alle donne
(e dunque agli uomini) di rifiutarsi all' idea di una libera scelta sessuale,
alla riproduzione assistita, all' ambizione al sacerdozio femminile. A
questo fine, si mette pressoché in caricatura lo sviluppo dei gender
studies, descrivendoli come l' intenzione di cancellare ogni determinazione
biologica nella sessualità - e nell' insieme dell' esistenza -
umana. C' è bensì un' ideologia della riduzione della sessualità
al capriccio, e di una pittoresca sessualità poliversa: ma è
appunto un' ideologia, solo più chiassosa e vistosa dell' ideologia
eterosessuale (e maschile) durata così a lungo da diventare per
i più di noi inavvertita e innocente, fino alla disdetta femminile.
La natura umana, dice Platone, non è sempre stata la stessa. Noi
oggi - qualcuno di noi, almeno - siamo sbatacchiati fra due sponde. Da
un lato vediamo, con ammirazione, con paura, un' oltranza della scienza
e della tecnologia che mostra di voler rifare da capo a fondo la creatura
umana, e di saperlo fare. La "seconda natura" suona ormai come
una cara formula antica. Dall' altro ammettiamo sempre più rassegnatamente,
o quasi con sollievo, la "natura umana", dopo averne sfidato
l' esistenza in nome dell' "uomo nuovo" dell' ingegneria politica
piuttosto che dell' ingegneria genetica. è questo il possibile
centro della discussione incitata dalla lettera alle migliaia di vescovi
del mondo. Naturalmente ci sono state dozzine di altre occasioni. C' è
una cattiva legge e un buon referendum sulla fecondazione assistita, c'
è un' autorizzazione condizionale alla clonazione umana, ci sono
risse e leggi sul velo e sul crocifisso, c' è un libero mercato
postcomunista che al posto dell' uomo nuovo ha prodotto la mafia dei "nuovirussi",
e una travolgente prostituzione di donne nuove, c' è una specie
di sprofondamento silenzioso del femminismo dopo qualche anno di guerriglia
dei sessi e di amori spezzati, come una voragine su un' autostrada. Non
è bastato. Mi ricordo di una discussione di tanti anni fa - quasi
quaranta, la ospitarono i Quaderni Piacentini - che ebbe questo al centro:
il nesso fra storia naturale e storia umana, l' esistenza della natura
umana al di là del suo abuso reazionario, il rapporto fra volontà
politica e malattia, infelicità, vecchiezza, morte. Era laica,
anzi materialista, la discussione di allora: Sul materialismo, la intitolò
il suo protagonista, Sebastiano Timpanaro. Tuttavia a suscitarla era stato,
se non sbaglio, il contrasto fra il pensiero di un grande antropologo,
Ernesto De Martino, uno che aveva studiato genialmente morte e pianto
rituale, e le circostanze della sua morte personale. Politicamente e scientificamente
quella discussione è pesantemente "datata". Ma ha un'
attualità più profonda e inaspettata. "Se invece si
intende la negazione del condizionamento che la natura esercita tuttora
sull' uomo, la relegazione della biologicità dell' uomo in una
specie di prologo preistorico dell' umanità, il disconoscimento
della rilevanza che certi dati biologici hanno in rapporto all' esigenza
della felicità... allora queste pagine sono deliberatamente "materialistico-volgari"".
Così Timpanaro nella prefazione del 1970 alla raccolta dei suoi
interventi. Timpanaro confidava allora nella biologia come la scienza
meno astratta e spiritualista e più legata alla storia naturale:
la biologia, con l' ingegneria genetica, ha dopo di allora preteso sempre
più alla hybris della ri-creazione della natura. Tuttavia, benché
nell' arco di una generazione ci siano state promesse nascite svincolate
dalla sessualità e longevità pressoché infinita,
la vita che abbiamo vissuto ci ha fatto sperimentare il limite naturale,
e non sempre come una sconfitta. Chi ricordi quella discussione troverà
imbarazzante (Timpanaro l' avrebbe trovata scandalosa) l' idea che la
si riapra sulla scia di una Lettera della Congregazione della Dottrina
della Fede. Eppure, magari succedesse.
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