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Repubblica
- 20 gennaio 2008
Sorelle
d'Italia, le ragazze che non vogliono più perdere
EMANUELA AUDISIO
Donne vincenti.
Senza quote rosa. Professioniste dello sport. Brave e cattive. Sciolte,
sicure, un po' narcise. Un made in Italy che funziona. Addio Barbie.
Ragazze, mamme, signore. Non più figlie, fidanzate, mogli. Né
bamboline, né bambolotte, né bamboccione. Corpi tatuati,
come la volontà. Muscoli da prestazione, ma anche da copertina.
Piercing e iPod, vezzi della modernità. Pochi lamenti e rimorsi,
perché il segreto per vincere è quello di imparare a perdere.
Gente che fila, schiaccia, vola, nuota, segna, infilza, stende, mira.
E spesso colpisce l'oro. Goldengirls, appunto. Senza tabù.
Meglio prendere nota: la ragazza italiana nello sport è cambiata,
vuole e pretende, non si accontenta. È femminile, ma aggressiva,
è bambina, ma decisa. Sa aspettare, programmare, uccidere. Inchiodare
avversarie e stress non è più un problema. Poi torna a casa,
ad occuparsi di sé, della sua vita, e magari anche a divertirsi.
Qualcuna anche a fare calendari e sfilate: sarà mica un problema?
Lo sport al femminile è sempre più visibile, soprattutto
perché è il primo a tagliare il traguardo. Nord, centro,
sud, non è più questione di regioni. Ogni città,
paese, provincia ha la sua tradizione: il resto lo fa la mentalità
e la struttura tecnica. Ogni ragazza è diversa, ma uguale nel cercare
soddisfazione. Gloria, soldi, futuro. E capacità di rimonta, come
Denise Karbon, altoatesina, nuova valanga rosa, nata, cresciuta e caduta
sulla neve almeno una decina di volte, con fratture serie. Però
capace di riprendersi il tempo e i successi perduti. Per arrivare da sole
ci vuole talento, per farlo insieme organizzazione.
L'esempio viene dalle ragazze della pallavolo, che l'anno
scorso si sono prese l'Europa e che non perdono da ventidue partite
(era l'8 settembre). Sono lo stesse che nel 2006 costrinsero il
ct Marco Bonitta, con cui avevano vinto un mondiale, all'esonero
per «incapacità di gestione». Gesto forte, netto, quasi
freudiano: lo strappo violento con il padre padrone. Per dire no a certi
metodi da caserma. In un paese che fa a gara a non decidere, le ragazze
(tutte) scelsero. Disobbedirono, pagarono, ma rinacquero. E ora sono tra
le favorite dei Giochi di Pechino. Tra la più giovane, Serena Ortolani,
e la più vecchia, Manuela Secolo, ci sono dieci anni (87-'77).
Però sul campo non si vedono, perché il gruppo riesce a
dare ad ognuna freschezza ed esperienza. Anche se le azzurre ogni stagione
giocano quaranta-quarantacinque partite, per un impegno totale di centoquaranta
giorni tra ritiri, viaggi e gare. Significa stare fuori casa cinque mesi
l'anno, solo per la nazionale, che per il titolo europeo ha pagato
un premio di cinquantamila euro a testa.
Essere una famiglia aperta, a esigenze e dolori diversi, saper condividere
esperienze. Perché in squadra c'è la cubana Tai Aguero,
naturalizzata italiana, che per punizione non è più potuta
tornare nel suo paese, nemmeno per il funerale del padre, e Francesca
Piccinini, la prima a emigrare all'estero, in Brasile, tanti calendari
fa. Come spiega Eleonora Lo Bianco, ventisette anni, capitana: «Ho
cominciato a giocare a otto anni. Vivevo a Omegna, accanto a Verbania,
in provincia. Famiglia normale la mia, papà assicuratore, mamma
casalinga, io con la passione dello sci, che ho dovuto lasciar perdere.
A diciassette anni sono andata via di casa, il distacco da giovane è
difficile, l'indipendenza è bella, ma ha i suoi costi. Se
giochi a pallavolo, non torni ogni sera a mangiare a casa. Ti devi arrangiare.
E soprattutto devi migliorarti. Il nuovo ct Massimo Barbolini ci ha dato
serenità e ci ha insegnato a non avere fretta, a non sprecare,
a saper ripartire. Siamo migliorate. È cambiato il rapporto muro
e difesa, siamo più ordinate, usiamo il contrattacco, abbiamo studiato
battuta e ricezione. Il livello è cresciuto, non ci sono più
partite facili, e il volley non è più quello della scuola».
Anche se è proprio a scuola che cominci a giocare: duecentoventimila
tesserate, tanta provincia, oggi come ieri, Bergamo, Perugia, Ravenna,
Matera.
Salde e muscolose. Pure nella testa. Macché fidanzato, meglio lo
sport, meglio trenta ore di palestra a settimana, meglio il sogno di volare
sull'oro di Pechino. Amore sì. Tre metri sopra il cielo,
ma per la ginnastica. Vanessa Ferrari, diciotto anni, prima azzurra a
vincere un mondiale, è grande anche se piccola nelle misure, 1,43
di altezza per 36 chili, taglia 34, anche perché se mangia pasta,
ha diritto a ventuno penne, né una di più, né una
di meno. Vive a Genivolta, Cremona, ha due fratelli, sua madre Galia è
bulgara. E ha un ct, Enrico Casella, cinquant'anni, ex giocatore
di rugby, ingegnere nucleare che all'atomo ha sostituito la ginnastica.
«Abbiamo studiato russe e rumene, le grandi scuole, anche perché
oggi questo sport è cambiato, non servono più peluche, ma
fisici asciutti e potenti, con grande mobilità articolare».
Nessuna idea di femminilità da tutelare, nessun corpo da bambina
da proteggere. Solo doti e qualità da esaltare. E così Vanessa,
che odia i giornalisti perché le fanno perdere tempo, è
riuscita a farsi costruire una palestra. Aveva iniziato in una piscina
dismessa vicina al casello di Brescia Ovest, un posto dove riempivano
le vasche con la gommapiuma. Miracolo da artigiani.
Federica Pellegrini è zuppa d'acqua sin da bambina. Ha vent'anni,
è di Mirano, Venezia, gareggia per il circolo Canottieri Aniene
di Roma, ma si allena con il ct Castagnetti al centro federale di Verona
dove c'è anche Marin, ex fidanzato di Laure Manadou. A quattro
anni era già in piscina. Precoce. A sedici, minorenne e esordiente,
nel 2004 ad Atene vinse l'argento nei 200 stile libero e riportò
l'Italia sul podio del nuoto femminile dopo trentadue anni. Gambe
lunghe, spalle larghe, sempre collegata all'iPod, fino al momento
del tuffo, ha un tatuaggio con la fenice che risorge. Federica ostenta,
non nasconde voglie e pretese. Se è contenta, batte i pugni in
acqua, si mette le mani sul viso. A Pechino l'attende la sfida di
gelosia con la francese Manadou. Acque e cuori tempestosi. Non è
l'unica azzurra a combattere tra le onde. C'è anche
Alessia Filippi, dorsista, ventuno anni, romana e tifosa di Totti. Un'altra
cresciuta in piscina, che a forza di guardare sempre in alto, si è
convinta che anche a lei spetti un pezzo di cielo. Però le piace
anche divertirsi e trova sempre un modo per scappare a ballare.
Di fioretto in fioretto Margherita Granbassi, nata a Trieste, casa a Narni
e palestra a Terni, in Umbria, è una duellante cresciuta con il
cartoon Lady Oscar e con una canzone: «Tuo padre voleva un maschietto,
ahimè sei nata tu, nella culla ti ha messo un fioretto, Lady Oscar
sei proprio tu». Per diventare una tipa alla Kill Bill ha molto
lavorato su se stessa, con uno psicologo, anche perché per farsi
largo ha dovuto trafiggere due mamme ostinate, Valentina Vezzali e Giovanna
Trillini, sue compagne di squadra. E si sa, battersi tra amiche, crea
malessere: ognuna conosce i crucci dell'altra. Margherita era timida,
troppo per lo sport. «Ero scarsa di egoismo. In pedana non riuscivo
a pensare a me stessa. Le avversarie spaccone mi intimidivano. Se una
decisione arbitrale mi danneggiava, subivo la decisione e la stoccata
successiva. Se andavo in vantaggio venivo raggiunta, se andavo sotto faticavo
a tornare a galla. Pensavo e facevo la cosa sbagliata, ora non più».
A fare sempre la cosa giusta c'è Valentina Vezzali, una che
tiene la vita in punta e zac, appena si muove, colpisce. Infatti di soprannome
fa Killer e non D'Artagnan. A trentadue anni ha vinto il suo quinto
mondiale dopo una maternità e un infortunio. Sposata con Mimmo
Giugliano, calciatore a Campobasso, non fa fatica a tirare giù
la maschera. «Siamo brave perché ci applichiamo, da due anni
non perdiamo con avversarie straniere. Noi donne siamo un usato sicuro.
Tra casa, figli e lavoro, non ci perdiamo d'animo. Ci diamo dentro,
se c'è da lavorare e da sacrificarsi. Ci siamo emancipate
dalla paura, dall'umiltà, dallo stare sempre nascoste. Forse
la società non si muove, ma noi sì. Cerchiamo l'indipendenza,
seguiamo le nostre aspirazioni».
Figurarsi se si perde d'animo Michela Brunelli, trentasei anni,
la prima disabile a vincere contro quelle "normali". A Terni
l'anno scorso si è aggiudicata il doppio nel campionato italiano
di ping-pong quarta categoria. Lei in carrozzina, le altre in piedi. Michela
attacca, schiaccia di rovescio, ha servizi micidiali. Andrà a Pechino
alle Paralimpiadi. «Gioco dal 94, ma i risultati stanno arrivando
ora, perché io non mollo mai». Vive a Bussolengo, alle porte
di Verona, ai tornei ci va da sola, guidando la macchina, si allena quattro
volte a settimana per un totale di quindici ore. Ha conosciuto lo sport
dopo l'incidente. Aveva diciotto anni, andava in motorino, venne
investita, ricoverata al Negrar. E scoprì che la vita poteva ricominciare
attorno a un tavolo. «La mia metà è il ping-pong,
niente fidanzato, i sentimenti prendono tempo e io tempo da sprecare non
ce l'ho. Preferisco gli stimoli alla pietà».
Ragazze terribili come Alessandra Sensini, trentotto anni tra una settimana,
che dopo tre medaglie olimpiche, è diventata campionessa del mondo
ieri in Nuova Zelanda e ancora va in giro a cavalcare le onde sulla tavola
a vela. Da Grosseto verso Pechino, senza problemi e con la voglia di sempre.
Quando lo sport è una questione di testa e una pratica quotidiana
da highlander. Adrenalina e progetto. Equilibrio e vento. O come Antonietta
Di Martino che a ventinove anni, pure se sbucciata, e donna del sud, solo
169 centimetri tra tante stangone, si è ripresa la vita ed è
volata a 2,03, migliorando il record italiano, fermo a Sara Simeoni dal
1977, quando le canzoni di moda erano di Patty Pravo. Antonietta, che
a Cava dei Tirreni dorme ancora in stanza con la sorella, non aveva mai
potuto giocare con il futuro, a vent'anni si era dovuta fermare:
sei stagioni d'infortuni, gessi, radiografie e ospedali. Un'atleta
interrotta, con le stampelle, zoppicante. Che si reinventa, si slaccia
dalle avversarie e dal vecchio fidanzato che metteva il broncio se lei
non stava a casa ad aspettarlo. A Pechino tratterà il mondo alla
pari. Lo farà anche Marta Bastianelli, ventuno anni, campionessa
del mondo di ciclismo, che vive a Lariano, in provincia di Roma, e viaggia
su due ruote già da bambina. Piccola dittatrice dei suoi sogni.
Come le altre sorelle d'Italia.
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