| Sull'articolo
di Galimberti "La tortura delle donne" Repubblica
delle Donne del 22-5-2004 Parto
da una mia considerazione: penso che se le donne sono state finora perlopiù
lontane dalla violenza è perché non hanno condiviso il POTERE degli
uomini, quello voluto e costruito in massima parte da loro. Oggi la tortura, e
le immagini che abbiamo visto sui giornali credo che abbiano costretto tutte noi
a porci delle domande, fa saltare secondo me un equivoco, quello secondo il quale
PER NATURA le donne sarebbero aliene dalla violenza. Ora è su questo equivoco
che io vorrei insistere, perché rappresenta a mio parere un'arma a doppio
taglio, frutto di uno stereotipo che io contesto e che vedo presentato, e sfruttato,
in maniera emblematica, anche se forse non pienamente consapevole del danno, dall'articolo
di Galimberti. La cosa curiosa è che nel suo articolo Galimberti afferma
proprio il contrario, scrive cioè a conclusione del suo discorso, dopo
le argomentazioni che citerò più sotto, "nessuna meraviglia
quindi che le donne sappiano torturare meglio degli uomini." La donna,
scrive infatti Galimberti, detiene il potere di vita e di morte, perché
può generare o spegnere la vita prima della nascita. E appena prima scriveva:
"Affine alla natura, capace di creare e distruggere, la donna detiene quel
potere assoluto che il re le ha invidiato, cercando in qualche modo di appropriarsene:
il potere di vita e di morte." Fin qui niente di nuovo sotto il sole, ma
è più oltre che arriva il bello. State a sentire. "Questa
familiarità tra la donna e il corpo", continua più oltre Galimberti,
"rende comprensibile perché, quando il sentimento diventa risentimento
e fiancheggia le figure dell'odio, la donna non uccide, ma, come dicono quegli
allampanati dei maschi che conoscono il corpo solo come corpo di fatica e corpo
di piacere, la donna tortura, logora, infligge quelle pene che, con un
linguaggio ricavato dalle torture, siamo soliti chiamare stillicidio."
A questo punto mi sono risuonate all'orecchio le parole di un mio vicino di
casa. Si parlava della campagna di Amnesty International contro la violenza alle
donne. Sì, diceva lui, la campagna è sacrosanta, le donne però
(Attenzione ai però, nascondono sempre un'insidia). Le donne, continuava
lui, possono accanirsi con le parole, sanno distruggere con le parole. Eccoci
al punto dunque: lo stillicidio quotidiano. Ora, io mi guardo bene
dal mettere sullo stesso piano le parole di Galimberti con quelle del mio benpensante
e sprovveduto vicino di casa. No, Galimberti parla di "penitenze corporali
inflitte nei collegi", di quella "condizione di potere giocata sull'impotenza
dei corpi, quando l'infermo non ha più anima ma solo corpo, reso cedevole
dall'infermità
esercizio di potere in quell'ambito dove la donna non
teme concorrenza: il corpo." Parla cioè delle violenze esercitate
nei collegi e negli ospedali dalle donne che devono prendersi cura dell'anima
come del corpo. Pure qualche cosa nei due discorsi mi suona pericolosamente affine.
Sottolineo, pericolosamente affine. E tanto più mi addolora e mi provoca
rabbia e sconcerto in quanto è un uomo, un filosofo che stimo a pronunziarle.
Galimberti, non lo posso dimenticare e gliene sono riconoscente, ha scritto a
volte cose mirabili, anche sulla tortura, quando l'ha definita come un esito quasi
obbligato della distorsione psicologica che la guerra infligge a chi, per mestiere,
è preposto ad uccidere. No, caro Galimberti, il modo "truce"
in cui questa volta ti sei espresso per arrivare alla conclusione che le donne
saprebbero torturare meglio degli uomini non deriva solo, come tu scrivi nell'ultima
parte dell'articolo, dal fatto che vorresti "...rendere consapevoli le donne
della loro stretta parentela con la natura, che crea con la stessa indifferenza
con cui distrugge". (Dunque, le minorate, poverine, non capiscono fino a
quando un uomo di cultura, come Galimberti, non arriva in soccorso a fare loro
un discorso un po' caricato nei toni? Scusatemi questa piccola cattiveria,
ma è stata proprio una reazione di pelle.) Ma dunque, questa vera e
propria assurdità dell'affermazione secondo la quale le donne avrebbero
una sorta di dono naturale per la tortura (assurda, è inutile dirlo, anche
perché non provata dai fatti e dai dati) deriva a mio parere da quell'equivoco
di cui scrivevo all'inizio, che ho definito stereotipo, e che riguarda la vicinanza
della donna con la natura, lo stereotipo per cui le donne sarebbero naturalmente
aliene dalla violenza e che può offrire, a quanto pare il destro, per affermare
l'esatto contrario. Insomma è il naturalmente che contesto. A
me pare che qui ci sia lo stesso stereotipo, ma rovesciato, che è alla
base di tante discriminazioni e ghettizzazioni delle donne. Mi domando se non
sia questo stereotipo alla base delle norme tradizionali in certi paesi sulle
mutilazioni genitali femminili. O quello che ha nutrito in anni bui la caccia
alle streghe e i roghi. Il temuto potere di generare. E' vero, come scrive Galimberti,
che questo potere il maschio lo ha ampliato fino a vedervi come un'ala scura che
si allunga sopra di lui, e lo minaccia. E allora, per scongiurarlo lo ha negato
(vedi Aristotele con la sua teoria per cui la forza vitale risiederebbe nel seme
e la donna non sarebbe che il recipiente passivo di tanta offerta). O ha voluto
vedervi, di volta in volta, una forza in combutta col Maligno, o l'opaca indifferenza
della natura (quella che Galimberti cita come alla base della possibilità,
per le donne, di meglio torturare). Ebbene, amiche care tutto questo ci è
estraneo. Se siamo arrivate a crederci è perché questa è
una delle immagini, forse la più potente e la più ricorrente, di
tutte le immagini che l'uomo, la società maschile, ci ha rimandato indietro
di noi. Ricordo con un certo fastidio il titolo del libro della psicoanalista
Pinkola (cito a memoria e non ricordo se si chiamasse davvero così), che
peraltro mi ha interessato e anche affascinato per l'utilizzo che fa delle fiabe
nel suo testo: "Donne che corrono coi lupi". Correre con i lupi, mi
ero chiesta e mi chiedo, ma dove? ma quando? Preferisco allora, forse con un salto
logico o di culture, prestare ascolto alle ipotesi (o forse già compiutamente
provate teorie scientifiche) per cui nel cervello delle donne esisterebbe una
maggiore possibilità di comunicazione e di scambio tra i due emisferi cerebrali,
quello destro preposto all'emotività e all'espressione, e quello sinistro
che si fa carico della razionalità. Oppure, mi chiedo, avrebbe ragione
Simone De Beauvoir, quando scrive che non si nasce donna, ma lo si diventa? No,
tutto sommato, penso ancora che il dato biologico abbia un'importanza determinante.
Si nasce donne o uomini, e le figlie hanno come primo punto di riferimento su
cui intessere il loro rapporto col mondo qualcuno che è simile a loro,
mentre gli uomini devono fare i conti col fatto che nascono dalle viscere di un
essere che è diverso da loro. Sul puro dato biologico s'innesca subito
un processo che, se non è già storia, verso la storia si dirige
per acquistare senso compiuto. Ed è da qui che, come ci ha insegnato il
pensiero della differenza, la nuova cultura deve partire. Il rischio è
che invece subito ci si incanali, si venga imbrigliate per uno stretto sentiero
che altri, la storia fatta da altri, la cultura in cui ci troviamo ad esistere,
ha tracciato per noi. E' un rischio mai del tutto superato, la battaglia di ogni
giorno. Si tratta allora per noi di scoprire non una perduta identità
mitica e originaria (le società matriarcali, ad esempio, che è pur
vero che sembra siano esistite), o un'identità che ci sarebbe stata taciuta
o negata, di cui non sembriamo essere consapevoli e su cui oggi ciascuno può
intessere a suo piacere le più stravaganti teorie, (l'apparentamento stretto,
che in certi casi si tramuta in un abbraccio mortifero con la natura), ma un'apertura,
una strada che come donne non abbiamo percorso e che è ancora aperta davanti
a noi, i dati fondativi della nostra identità di domani. Si tratta di scoprire
che cosa la donna può essere, oggi che i veli davanti ai suoi occhi sono
caduti, che cosa essere donna può significare domani. E modificare di conseguenza,
di pari passo, il nostro oggi. Nel terminare questa che voleva essere una lettera
nata dalla lettura dell'articolo di Galimberti e che invece è diventata,
nel farsi, una specie di "dichiarazione d'intenti", che mi ha portato
a reinterrogare me stessa prima che altri/e , io ringrazio voi, donne della Libreria
delle Donne di Milano, che avete sentito la necessità di aprire un dibattito
si questi temi, e insieme a voi ringrazio le donne della comunità di filosofe
Diotima, e le altre donne che mi hanno guidato nel ripensare il mondo. E a
Galimberti posso ormai anche perdonare la sua provocazione, il modo, a
suo stesso dire truce in cui si esprime, in nome delle cose giuste che
altre volte ha detto. Anna
Santangelo
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