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Repubblica
- 23 ottobre 2005
La donna del mistero che cattura l´arte
Natalia Aspesi
Pareva quasi sconveniente darle il premio come miglior attrice, all´ultima
Mostra del Cinema di Venezia, dove del resto in passato lo aveva già
vinto tre volte; a parte il fatto che bisognava assolutamente onorare
un´attrice italiana per non creare guai (e infatti fu scelta Giovanna
Mezzogiorno), che senso aveva dichiarare per l´ennesima volta che
lei è la più brava, quando la sua bravura è imparagonabile
e forse non è neanche bravura, ma un suo segreto maleficio che
mette a disagio lo spettatore, lo relega in un angolo, se ne impossessa,
lo trafigge, lo svuota, lo incanta? Così con somma condiscendenza
Isabelle Huppert ritirò il premio appositamente inventato per lei
in quel momento, il Leone Speciale all´insieme dell´opera:
un insieme quasi inumano, oggi che le attrici arrancano in una manciata
di film e appena la luce della giovinezza si annebbia e il sedere non
ha più quella opprimente spavalderia, vengono scansate come la
peste, a meno che si adattino a ruoli horror o comici, in cui come donne
vengono irrise e maltrattate. Gabrielle di Patrice Chéreau, il
film presentato a Venezia, è per la Huppert il suo settantesimo,
e nel frattempo ne aveva già girato un altro e altri registi questuanti
erano in fila ad aspettare la sua generosa disponibilità.
Non è solo il cinema francese a non poter fare a meno di questa
cinquantenne piccolina e incorporea, esangue e severa: e infatti si è
appena aperta (sino al 23 novembre) al MoMA di New York una retrospettiva
del suo cinema, e i curatori hanno dato spazio soprattutto ai film in
cui è diretta da grandi registi internazionali, dal polacco Wajda
all´italiano Ferreri, dall´americano Cimino al tedesco Schroeter,
dall´ungherese Meszaros all´austriaco Haneke. Lei è
per gli autori una calamita, un´attrazione fatale, una icona salvifica,
quasi un vizio, in fondo una mancanza di fantasia: appena uno immagina
un personaggio femminile travagliato, oscuro, maledetto, eppure rubacuori,
pensa subito a lei, e questo ormai da trent´anni, da quando cioè
lo svizzero Claude Goretta la volle protagonista di La merlettaia, nel
ruolo drammatico di una giovanissima parrucchiera anoressica avviata alla
follia.
Da allora, Huppert, prostituta, ha avvelenato i genitori (Violette Noziére);
cortigiana, è morta di consunzione (La storia vera della signora
delle camelie); abortista clandestina nella Francia occupata dai nazisti,
è stata condannata a morte (Un affare di donne); scrittrice nevrotica,
si è data fuoco (Malina); adultera, si è suicidata col veleno
(Madame Bovary); è stata una postina infanticida e pluriassassina
(Il buio nella mente); un´imprenditrice omicida (Grazie per la cioccolata);
una sadomasochista efferata (La pianista); una madre incestuosa (Ma mere).
Ha molto turbato ma mai scandalizzato, perché il suo talento straziante
riscatta ogni orrore e ogni nequizia, come se i suoi personaggi feroci
o dal destino crudele, avessero comunque diritto alla comprensione, alla
pietà, al perdono, perché l´umanità è
anche questa, fatta di errori, orrori, strazio, violenza, tragedia.
Attorno al mistero del suo viso si sono accaniti anche i fotografi, alla
vana ricerca della sua verità: e adesso Contrasto pubblica in Italia
(in Francia lo ha fatto Editions du Seuil) una raccolta di suoi ritratti
tentati da grandi artisti che vanno da maestri come Cartier-Bresson e
Jacques-Henri Lartigue, a star della fotografia di moda come Richard Avedon
o Helmut Newton, agli esponenti del ritratto contemporaneo come Ange Leccia
ed Antoine d´Agata. Il libro è curato da Ronald Chammah,
produttore e regista cinematografico, fotografo amatoriale, libanese d´origine,
italiano d´adozione, parigino di vita: tra l´altro marito
di Isabelle che ha diretto in un film del 1987, Milan Noir, mai arrivato
in Italia. Pare non esistere un filo conduttore, né cronologico
né alfabetico dei fotografi, nella successione dei ritratti, che
invece deve esistere, segreto, nel modo di guardarsi e pensarsi, di condividere
memorie e pensieri, della coppia. Ma è questa apparente casualità
e addirittura caos, che rivela la capacità mimetica e sorprendente
di un viso e di un corpo continuamente mutevole eppure immutabile.
Nelle fotografie come nei film, Huppert è sempre se stessa e sempre
un´altra, è lei e il personaggio che sta incarnando: di sé
non vuole si sappia nulla, del ruolo che offre tutto. In questo alternarsi
di ritratti di fotografi diversi e in anni diversi, c´è il
segreto della sua bellezza inquietante, incompleta, che si fa più
magica quando sfiora la desolazione, il brutto. A trent´anni pare
ancora un´adolescente, imbronciata e chiusa, e in Una donna pericolosa
di Christine Pascal è già stata violentata dal poliziotto
Richard Berry; a quaranta la sua sapienza erotica sboccia irresistibile
e in Rien ne va plus di Chabrol è una ladruncola che seduce e addormenta
le sue vittime. E intanto le sue guance rotonde si sono affinate, la sua
bocca piena si è assottigliata, i suoi occhi azzurri si sono oscurati,
il suo corpo quasi infantile è rimasto tale, fragile e nascosto,
oppure esposto come punizione, come rinuncia, come offesa. La carnagione
candida delle rosse è diventata più fragile, ogni piccola
ruga, mai nascosta, un mistero in più, il disegno delle efelidi
è ancora oggi un labirinto in cui chi la guarda si turba e si perde.
I capelli si accorciano, si allungano, si appiattiscono, si arricciano,
la rendono sexy, la imbruttiscono, incorniciano la sua rabbia e la sua
dolcezza, la sua desolazione e la sua cocciutaggine.
Docile, l´attrice espone il suo viso nudo all´occhio della
macchina fotografica: non ride mai, talvolta sorride, quasi sempre offre
nel suo apparente rifiuto di ogni espressione tutte le possibili interpretazioni:
basta un po´ di trucco e diventa Greta Garbo o Renée Falconetti,
Rita Hayworth o Kate Moss. Era più bella nel '78, a ventitrè
anni, quando vinse il premio di miglior attrice al Festival di Cannes
con Violette Noziére di Chabrol o lo è ora, a cinquanta,
dopo il Leone d´Oro veneziano? Adesso, certamente, perché
il suo talento l´ha spogliata da ogni fisicità, dalla prigione
implacabile della giovinezza perduta che avvelena la maturità di
tante donne ma non la sua.
Quando in Gabrielle si materializza dal buio e dal silenzio, in una casa
patrizia Belle Epoque, il viso celato da una veletta sotto un grande cappello
nero, fa intuire al marito, allo spettatore, la tragedia femminile che
sta attraversando, senza uno sguardo, senza una parola. È una donna
sposata da dieci anni con un uomo che l´ama come un prezioso oggetto;
lei se ne è andata lasciando una lettera al marito incredulo e
disperato, ma poco dopo ritorna, e non sa dire perché. Nel lungo,
spietato scontro verbale tra i due, in cui lei scende nel fondo della
loro ipocrisia e lontananza, offre il suo corpo senza carnalità
nella desolazione più umiliante per lui; e sono una prova sconvolgente
di attrice la violenza trattenuta che anima la sua elegante compostezza,
le emozioni e i sentimenti che raggelano e infiammano il suo viso immobile,
spento.
Sulla televisione satellitare hanno riproposto in questi giorni La pianista,
regia di Haneke, tratto dal romanzo del premio Nobel Elfriede Jelinek,
che con Patrice Chéreau e Susan Sontag ha scritto i saggi di Isabelle
Huppert, la donna dei ritratti. Pluripremiata per il ruolo più
sgradevole della sua carriera in un film di erotismo umiliato e soffocante,
la Huppert trasmette agli spettatori un malessere autentico, che il cinema,
ormai confezionato soprattutto per le famiglie e per i passaggi sulle
televisioni generaliste, non osa più affrontare. Malvestita, spettinata,
brutta, nevrotica, spenta, furente, masochista, disperata, violenta, malata,
vendicativa, autolesionista, giustifica con i suoi silenzi cocciuti, il
suo viso raggelato, quel corpicino monacale, gli sguardi imperiosi, i
gesti sconnessi e bruschi, l´amore appassionato di un suo allievo
giovane, bello, sincero cui chiede, disgustandolo e perdendolo, di essere
picchiata, umiliata, annientata.
Parrebbe che il lavoro di attrice sia tutta la vita di questa donna che
accumula film su film e in più gira i palcoscenici del mondo, portando
in scena personaggi drammatici e testi tragici, come la Medea di Euripide,
l´Orlando di Virgina Woolf, la Maria Stuarda di Schiller, la Hedda
Gabler di Ibsen, e il monologo Psicosi delle 4,48 di Sarah Kane, suicida
nel '99 a 28 anni, che sta recitando adesso a New York e porterà
al teatro Strehler di Milano in dicembre. Invece Isabelle ha una sua vita
privata, un marito, tre figli, di cui la maggiore già attrice.
Un muro impenetrabile la difende, non esistono sue foto di famiglia, giornalisti
di tutto il mondo non le hanno cavato una sola parola che non riguardi
il suo lavoro. E questo ormai da quando, appena sedicenne, la sua grazia
infantile e altera incominciò a interessare il mondo del cinema
non solo francese.
Certo oggi il suo atteggiamento di intransigente segretezza può
apparire una bizzarria, un eccesso di snobismo. Non si sa quindi se la
compiangono, o forse la invidiano, certe nostre donnine arrivate alla
celebrità perché senza mutande negli show televisivi, certe
nostre bellissime star impietrite da chirughi estetici ostili alle donne,
che si innamorano, litigano, annunciano concepimenti, si separano, fanno
le corna, divorziano, piangono, tra le fauci di conduttori-corruttori
televisivi. Il privato viene confuso con il peggiore dei mali, l´anonimato:
e l´esibizionismo dei sentimenti e del corpo diventa una professione,
anzi la sola accessibile per chi non sa cosa siano il talento e la passione
che hanno fatto grande Isabelle Huppert.
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