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25-2-2002
la Repubblica L'AGGETTIVO
spontaneo sembra essere la parola più usata in questi giorni. Ricorre
in ogni pagina dei giornali per raccontare della mobilitazione di migliaia
di cittadini e della protesta di cui si fanno portatori. Può sembrare
semplicistico. Eppure potrei pensarci per ore, senza riuscire a trovare
una parola più adatta a descrivere il turbinio di manifestazioni
che ha portato la gente comune al centro della scena politica. Da mesi
cercavo di darmi una spiegazione per quanto il governo stava facendo.
Rogatorie, falso in bilancio, mandato di cattura europeo, riforma della
scuola e del lavoro. Niente da fare. Nell'impossibilità o, meglio,
incapacità di leggervi un senso, cercavo almeno una soluzione.
Non certo alla situazione politica ho venticinque anni ed un lavoro precario
come cronista a Brescia ma almeno al malessere che mi dava il sentirmi
impotente, al disagio di dover stare a guardare, alla possibilità
di scegliere solo fra un canale tv e l'altro. Poi ho scoperto che non
ero l'unica. Che, come me, tanti amici cercavano una via d'uscita all'indignazione
e all'immobilismo passivo. E la voglia di organizzare una manifestazione
è nata da sé. Probabilmente, se ci avessimo ragionato per
giorni, l'idea di un girotondo che, mi perdonino i no global, è
diventato quasi un marchio non ci sarebbe mai venuta. Altrettanto naturale
è stata la scelta del Palazzo di giustizia (erano i primi giorni
di gennaio, quelli successivi agli interventi del ministro della Giustizia
Roberto Castelli nel processo Sme e all'apertura dell'anno giudiziario).
Da quel momento in poi sono successe tante cose che ancora mi riesce difficile
crederci. Prima Milano, poi Roma. Ed ogni volta sempre più persone.
Perché è difficile non lasciarsi coinvolgere dalla gioia
di prendersi per mano, dall'entusiasmo di stabilire un contatto, anche
fisico, per proteggere qualcosa in cui si crede. Un edificio piuttosto
brutto, un ammasso di ferro e cemento che oggi mi sembra quanto di più
bello e prezioso abbiamo nel nostro paese. Il simbolo di una magistratura
indipendente e coraggiosa da proteggere in un abbraccio quasi materno
(che sia questa la ragione delle tante donne coinvolte?). L'occasione
per tanti cittadini di far vedere che ci sono e che "resistono"
con la loro semplice presenza. Ieri al Palavobis eravamo in quarantamila.
Facce assorte o vocianti, con o senza rughe, più o meno attente,
corrucciate o entusiaste. Volti che non avevo mai visto. Ma non erano
volti estranei. Mi sentivo parte di quella folla. Condividevo le loro
preoccupazioni e applaudivo ai loro momenti di entusiasmo. Non ho vissuto
in modo molto attento e partecipe gli anni di Mani Pulite. All'epoca stavo
scrivendo bigliettini al mio compagno di banco o litigando con mia madre
per uscire la sera. Ma non penso abbia alcuna importanza, come probabilmente
non ne aveva per la maggior parte della gente che è venuta a ascoltare
gli interventi di Antonio Di Pietro, Nando Dalla Chiesa e Giovanni Berlinguer.
Ero lì non per ricordarne la storia, ascoltare le interpretazioni
giuste o lamentarmi delle interpretazioni sbagliate. Volevo capirne il
significato, respirarne i valori, che oggi, come dieci anni fa, mi parlano
di giudici che lottano per la legalità e cittadini che agiscono
per senso civico. Sabato pomeriggio non è stata la giornata dei
giustizialisti. È stata la giornata di ogni persona convintamente
democratica. (L'autrice di questo articolo ha venticinque anni, vive e lavora a Brescia come giornalista. È stata una delle organizzatrici del "girotondo" a Milano attorno al Palazzo di giustizia) |