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Repubblica
- 28 gennaio 2009
La
scelta di Antonia. Pozzi, la poetessa suicida che oggi sarebbe una punk
MARINA SPADA
Negli anni
ho sentito parlare più volte di Antonia Pozzi: poeta, fotografa,
scalatrice. Suicida a ventisei anni, come spesso è accaduto alle
donne che fanno poesia, addormentata nella neve davanti all' abbazia di
Chiaravalle nel dicembre 1938. Ma il rischio sarebbe quello di leggere
la sua opera esclusivamente alla luce della sua morte. Le sue poesie mi
hanno fulminato perché libere, carnali, sincere. Non ha mai pubblicato
un rigo in vita ed è solo da pochi anni che viene riconosciuta
come una delle più alte voci poetiche del Novecento. Me ne sono
innamorata e così ho deciso che questa donna avrebbe meritato un
film o, meglio, un documentario, in cui alla ricostruzione delle vicende
biografiche si accompagnasse il tentativo di visualizzare il suo immaginario
poetico. Ho lavorato a stretto contatto con la sua biografa Graziella
Bernabò e Onorina Dino, da sempre sua grande studiosa e conservatrice
dell' Archivio Pozzi, di proprietà della Congregazione delle Suore
Preziosine di Monza. "Guardami sono nuda", comincia così
la prima poesia di Antonia Pozzi che ho letto, scritta nel 1929, lei aveva
17 anni. Con una libera associazione ho pensato che sarebbe potuto essere
il testo di una canzone di Siouxsie Sioux, la sacerdotessa del punk. In
apparenza un azzardo, visto che Antonia Pozzi nasce a Milano nel 1912
e cresce nell' Italia tetra del fascismo, in cui le donne vengono considerate
creature emotive da rieducare tramite la maternità. Si potrebbe
dire che aveva tutte le fortune del mondo: di famiglia ricca, destinata
a una vita condotta fra i riti della grande borghesia che lei non ha voluto
e potuto avere. Era intelligente, divertente, il padre e la madre l' adoravano
e per lei c' era il meglio: vacanze, viaggi, poltrona alla Scala, lezioni
di piano. Nel suo mondo indossava gli abiti per la messa in scena della
brava figlia borghese ma la sua anima ne era molto distante. Laureata
nel 1935 con una tesi in Estetica sull' apprendistato letterario di Flaubert,
il relatore è Antonio Banfi che nel clima culturale dominato dal
binomio Croce-Gentile, al secondo piano della Regia università
di Milano, all' angolo fra via Rugabella e corso di Porta Romana, cerca
di mantenere aperto l' orizzonte sul mondo. In un periodo di delirio autarchico,
teneva lezioni su Thomas Mann e sui più innovativi sviluppi della
filosofia tedesca, da Simmel a Husserl. Antonia Pozzi fa parte della sua
cerchia di allievi, ma è profondamente diversa da loro. L' unico
che le somiglia è Vittorio Sereni, suo migliore amico e poeta come
lei. Antonia, infatti, non aveva mai smesso di scrivere poesie, ma se
ne vergognava. Il suo lavoro poetico era quasi segreto e raramente lo
faceva leggere. Gli altri banfiani le dicono: "Antonia, tu sei molto
intelligente, ma molto disordinata!". Ovviamente il disordine è
quello emotivo. E anche: "Scrivi il meno possibile". In quell'
ambiente, la poesia era guardata con sospetto perché il genere
letterario adeguato al presente doveva essere il romanzo storico. Ma soprattutto
era guardata con sospetto lei, poeta, donna e a disagio nelle strettoie
che le convenzioni dell' epoca imponevano. Nella sua poesia c' è
la voce profonda del poeta in cui la parola si misura con la sostanza
delle cose. E c' è la sua storia personale vissuta come una "parabola
santa", cioè con l' incanto magico provato di fronte a ciò
che si vive con passione, pur se intriso della nostalgia di morte. Guarda
e scrive poesie, guarda e scatta foto e nell' Archivio Pozzi ne sono rimaste
circa 3000. La fotografia per fissare il tempo, arrestare l' esistenza
e riscattare la morte. Il suo è un linguaggio personale e profondo
in quel mondo che sta crollando. Sono i terribili anni Trenta in cui spirano
venti di guerra, prima lontani e nel '38 sempre più vicini. è
l' anno in cui Hitler occupa i Sudeti e in Italia vengono emanate le leggi
razziali. Un suicidio come tanti, il suo, in un' epoca in cui il disagio
non viene perdonato. Nel biglietto che viene trovato nella sua borsetta
sul prato innevato di Chiaravalle scrive: "Fa parte di questa disperazione
mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze
sfiorite". Negli ultimi anni aveva anche iniziato a usare la macchina
da presa del padre. Mi piace pensare che se non fosse morta così
giovane sarebbe potuta diventare una regista. Come me.
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