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L'Unità
- 8 maggio 2002
La poesia,
una bella perdita di tempo
di Marina Mariani
Per fare
le poesie ci vuole molto tempo. Moltissimo tempo. Bisogna perdere tempo:
solo se il tempo lo perdi, qualche volta ti ritorna indietro nella forma
di una poesia. Qualche volta succede, ma molto spesso no. Perdi tempo
e basta. Si può fingere di fare qualcosa, mentre si sa che si sta
soltanto perdendo tempo: io m'invento soprattutto che devo mettere ordine,
eliminare oggetti inutili, liberare il tavolo; ma lo so che non è
vero. Sto solo perdendo tempo.
Per fare le poesie c'è bisogno di tempo anche perché le
parole che stanno dentro le poesie, e le compongono, devono essere proprio
quelle: non è che ne puoi scrivere una a caso, come viene, così
ti sbrighi. No, ci vuole proprio quella. E a volte per trovarla passano
anni e tu ritrovi una poesia vecchia, che era rimasta incompiuta: e dopo
tanti anni la trovi, la parola giusta. Insomma, le poesie sono oggetti
di precisione.
Quando si scrive una poesia, spesso si vuole dire qualcosa a qualcuno:
cosa sia, quello che si vuol dire, in genere non si sa bene. Non sono
notizie, ma sono anche notizie. Non sono messaggi privati, però
certo la persona che scrive c'entra molto. Quanto ai destinatari, si possono
ipotizzare persone contemporanee, ma anche persone vissute anni o magari
secoli prima (raramente persone del futuro; il futuro, almeno per me,
è troppo misterioso).
Per fare le poesie ci vuole coraggio. Perché sai che quello che
stai scrivendo, altri l'hanno, scritto molto meglio di te. Non stai inventando
niente. E allora giochi, cioè affronti il rischio. Il rischio è
il nocciolo di ogni poesia. Per fare le poesie bisogna aver ascoltato,
e guardato. Io quando posso vado in giro, ficco il naso dappertutto, m'impiccio
di cose che non mi riguardano. Ma si può anche ascoltare quando
non si sentono voci, e guardare quando è buio.
Per fare le poesie ci vuole pazienza. Perché a fare le poesie in
genere si è in due, uno dice e l'altro critica. Questo però
non so se è vero per tutti i poeti. Secondo me ci sono due tipi
di poeti: quelli proprio bravi e quelli così-così. Quelli
proprio bravi scrivono da soli, quelli così-così (io per
esempio) devono sopportare quell'altra voce, venirci a patti ogni volta.
Con pazienza.
Le poesie vengono bene quando uno è molto contento, quando è
innamoratissimo per esempio, e corrisposto; e vengono anche bene quando
si è disperatissimi l'amore se n'è andato via, o sono accadute
cose ancora più brutte. Per quel che ne so io, di solito una poesia
nasce dopo, quando a questo stato d'animo o a quell'altro ci ripensiamo
su. Ma ci sono poesie bellissime che tutto esprimono tranne questa riflessione:
raccontano il fatto come se stesse avvenendo in quel momento, le leggi
ed è come se vedessi un film.
Sono inutili, le poesie? Sono utili, certamente, a chi le scrive, altrimenti
non le scriverebbe. E forse possono ancora essere poco utili a quei tre
o quattro lettori che avendole incontrate per puro caso, colgono con simpatia,
per disposizione nativa, per rara consonanza, l'ombra del destino di cui
sono il frutto: un destino, direi, di libertà forzata. Chi legge
la poesia è libero (lui sì) di dare importanza maggiore
all'uno o o all'altro dei due termini.
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