Libreria delle donne di Milano

l'Unità - 29 dicembre 2006

Mafia, il coraggio delle donne
Corrado Stajano

Non bisogna mai dimenticare che esiste anche un’altra Italia popolata di persone coraggiose che si sono prodigate e si prodigano in nome della verità e della giustizia, con addosso un peso di sofferenza e di dolore che dovrebbe appartenere a tutta una comunità spesso dimentica. Sono le vittime della mafia, mogli, madre, sorelle di magistrati, di uomini della polizia, di sindacalisti, di giovani e di vecchi generosamente caduti. Non si sono rinchiuse nel pianto come avrebbero potuto, ma hanno usato tutte le loro energie perché gli ignari, gli indifferenti sapessero, capissero, agissero anche loro per far sì che questo mostruoso bubbone che infetta quattro regioni italiane fosse finalmente reciso. E perché non vengano scordati quei morti che hanno avuto fede nello Stato di diritto, ricordati il più delle volte con somma ipocrisia soltanto nelle cerimonie ufficiali inaugurando una lapide, scoprendo un monumento, dando il nome a una via.
Nando Dalla Chiesa ha scritto un libro bellissimo e lacerante, Le ribelli. Storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore (Editore Melampo). È uno scienziato sociale, Nando Dalla Chiesa, oltre che un uomo politico e capisce più degli altri i destini di queste donne, ribelli per amore, perché conserva nel cuore quel suo grande mai dimenticato dolore.
È un libro che sconvolge l’anima anche di chi conosce quel che è accaduto in Italia, in Sicilia, soprattutto, dal secondo dopoguerra a oggi. E fanno sorridere i romanzieri esausti, poveri untorelli alla ricerca di una trama, davanti a queste terribili storie. Le ribelli è un libro commosso e commovente, una narrazione naturale fitta di personaggi che sono purtroppo veri, anche se sembrano al limite dell’invenzione, con il loro peso di dolore, di forza, di energia, di voglia si seguitare a vivere. Il libro è anche corale perché ogni tragica vicenda si inserisce in un’altra, frammento di quel mondo mostruoso, anche se sono passati anni e se i luoghi e le condizioni sociali dei protagonisti sono diverse tra loro.
Storie vere, dunque. L’invenzione le avrebbe annacquate. La vicenda umana della madre di Salvatore Carnevale, il sindacalista socialista assassinato dalla mafia a Sciara, nel palermitano, il 16 maggio 1955, apre la dolente catena. In quegli anni furono uccisi nell’isola una quarantina di dirigenti del movimento che lottò per occupare le terre incolte assegnate dalla legge Gullo nel 1944 ai contadini poveri. Fu un momento alto della sinistra. Quei cortei di contadini pieni di speranza accarezzati dalle bandiere rosse sventolanti sono rimasti in tanti cuori. Gli aristocratici padroni dei feudi che governavano la mafia dei campieri, con la connivenza di chi avrebbe dovuto garantire l’ordine e far rispettare la legge, furono i responsabili di tanto sangue versato. La mafia, secondo l’opinione comune, non esisteva. Il procuratore generale della Cassazione, Tito Parlatore, la definì allora «una materia da conferenze». Un altro alto magistrato, Guido Lo Schiavo, aveva precedentemente scritto su una rivista giuridica: «Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice».
Si diffuse allora la voce che Salvatore Carnevale era stato ucciso per storie di donne, per intrighi di interessi, si cercò come sempre di infangare, di trasformare la vittima in carnefice. Francesca Serio, la madre del sindacalista assassinato per le sue lotte, per l’ascendente che aveva sui contadini poveri, per quelle bandiere rosse, si ribellò. Fece i nomi degli assassini, quattro uomini al servizio della principessa Notarbartolo, ruppe ogni spirito di omertà, azzannò come una leonessa, chiese allo Stato nemico o assente che facesse giustizia, che arrivasse ai mandanti intoccabili della morte del suo Salvatore. Al suo fianco un avvocato di nome Sandro Pertini. In difesa dei mafiosi un avvocato di nome Giovanni Leone. Le due Italie, anche allora.
I processi finirono come era d’uso - e spesso lo è ancora oggi - con l’assoluzione per insufficienza di prove per gli imputati. Francesca continuò per tutta la vita a rappresentare la richiesta di giustizia che non si arrende. Voleva che Carlo Levi scrivesse un «romanzo» su suo figlio. Levi scrisse nel 1955, Le parole sono pietre. Rappresentò così Francesca: «Una donna di cinquant’anni, ancora giovanile nel corpo snello e nell’aspetto, ancora bella nei neri occhi acuti, nel bianco-bruno colore della pelle, nei neri capelli, nelle bianche labbra sottili, nei denti minuti e taglienti, nelle lunghe mani espressive e parlanti: di una bellezza dura, asciugata, violenta, opaca come una pietra, spietata, apparentemente disumana».
Le storie di questo libro, anche se le conosciamo, sgomentano e insieme ci fanno capire com’è spesso oleografica la rappresentazione passiva delle vittime della mafia.
Su Peppino Impastato, il sovversivo di Cinisi, il regno di Tano Badalamenti, che si ribella al padre mafioso abbiamo visto anche il film I cento passi, di Marco Tullio Giordana. Nando Dalla Chiesa va oltre nel ricordare. Scrive così di Felicia, la madre di Peppino assassinato dalla mafia l’8 maggio 1978, ucciso con una micidiale trappola per farlo apparire un terrorista, dilaniato con la dinamite, ridotto in brandelli: «Spiegò una volta a chi la intervistava: “Loro s’immaginano, questa è siciliana, tiene la bocca chiusa. Io parlo, invece. Se non lo difendo io, mio figlio Giuseppe, chi lo fa?”».
Di Saveria Antiochia, poi, la madre di Roberto, l’agente di polizia di 23 anni che andò a morire a Palermo il 6 agosto 1985 per portare aiuto e tentare di salvare la vita al commissario Ninni Cassarà che stimava nel profondo e al quale era legato dall’affetto che nasce dalla lotta comune, Nando Dalla Chiesa scrive uno dei ritratti più belli. Parte dalle rughe del volto di Saveria: «Erano bellissime le rughe del suo volto. Sembravano scolpite da un artista divino. Un dono del tempo e del dolore a lei che amava la pittura e la scultura». Era una donna limpida che dopo la morte del figlio si prodigò in giro per l’Italia a parlare di mafia, nelle scuole, nelle aule universitarie, nei circoli, sotto i tendoni, all’aperto, in ogni stagione, senza sosta. Spiegò, raccontò, si batté contro la rassegnazione, la stanchezza, la paura, denunziò indomita le carenze e le complicità dello Stato che aveva lasciato quei giovani coraggiosi a combattere con le mani nude contro quel nemico potente che aveva occhi e orecchi negli uffici pubblici. Quelle sue parole fin quando morì, nel marzo 2001, sembravano ogni volta un dolce e insieme ossessivo dialogo con il figlio morto.
Poi il libro racconta con chiarezza anche le storie più complicate e ambigue. Quelle delle giovani donne che rifiutano con fierezza la tutela della loro famiglia di mafia e si ribellano. Sentono in fondo al cuore il dovere di parlare, si mettono contro il mondo. Michela Buscemi che aveva un fratello vicino agli ambienti mafiosi e un altro sbandato, uccisi entrambi dalle cosche, decise di parlare, parte civile al maxiprocesso del 1986. Ed è emozionante la descrizione che fa Nando Dalla Chiesa di quella donna vestita di nero, sobria ed elegante, «gli occhi scuri e luminosi, la matura bellezza meridionale di chi a trentacinque anni ha già sperimentato tutte o quasi le fatiche e le prove della vita» quando si costituisce parte civile nel processo ai 460 mafiosi. «Era dalle viscere più tradizionali della società palermitana che si levava quella richiesta di verità e giustizia».
C’è un’altra storia, poi in questo libro, simbolo dell’eterno dolore, quella di Rita Atria, sorella di Nicola, giovane boss dello spaccio ucciso nel 1991. La ragazza decide di dire quel che sa, va a confidarsi con Paolo Borsellino, gli racconta le memorie di un sottosuolo melmoso. Il magistrato ascolta, la fa trasferire a Roma, sotto protezione. Alla notizia dell’assassinio di Borsellino il «padre», in via D’Amelio, si uccide gettandosi dal settimo piano della casa: «Si arrese nell’ultimo gesto di ribellione al fiato pesante della mafia che le era rimasto appiccicato addosso».
Infine Rita. La sorella di Paolo Borsellino. Quando accettò la candidatura alla presidenza della Regione, tra i sarcasmi e i contrasti, sapeva che cosa rappresentava: «La Sicilia antica delle donne mute, la Sicilia di neanche cinquant’anni prima, la Sicilia di quando lei giocava alla Kalsa, ora non solo trovava la forza di piangere e parlare, ma addirittura andava alla conquista del cielo. La Sicilia delle donne ribelli puntava a governare l’isola». Purtroppo non fu così.