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Dal numero
66 di Via Dogana (settembre 2003)
“Senza
confini”.
L’ultimo editoriale di Luigi Pintor
di Luisa Muraro e Lia Cigarini
Poco prima
di morire, Luigi Pintor scrisse per il manifesto un editoriale sorprendente.
Comincia dicendo che la sinistra italiana è morta e più
avanti sostiene che destra e sinistra sono “formule superficiali
e svanite” che non marcano più un confine significativo.
Apparso sul numero cento dell’anno trentatré del quotidiano,
con il titolo (che suppongo essere dell’autore) Senza confini, sarà
di fatto l’ultimo editoriale di Pintor. Nel leggerlo sentii per
la prima volta che, in me, l’ammirazione per lo scrittore politico
cedeva al senso di una profonda rispondenza, mai sentita prima. E pensai,
insieme a Lia Cigarini, che si poteva riprendere quel testo e rispondergli.
Non sapevamo che Pintor era gravemente malato e ci aspettavamo un dibattito
sulle pagine del suo giornale, che non ci fu. Poi abbiamo capito la ragione
di quell’imbarazzato silenzio. Quello che per Lia e me era un segno
di vitalità, altri hanno potuto leggere come effetto dell’imminenza
della morte. Ora penso che le due cose sono entrambe vere, e che in Senza
confini c’è tutto l’acume che può dare la vicinanza
della morte ad uno spirito non domato.
Siamo nella seconda metà di aprile, Bush ha deciso che la guerra
doveva considerarsi finita, dopo di che il parlamento italiano, come se
fosse un corpo estraneo al resto del paese, vota a larga maggioranza,
complice una parte della sinistra, l’invio di truppe in Iraq. Tutti
abbiamo riconosciuto la tipica furbata italica: facciamo finta di fare
qualcosa anche noi, per non essere esclusi dalla torta (della ricostruzione,
in questo caso). Pintor lascia cadere questo spunto polemico, per andare
al cuore della faccenda e cioè che in Italia non esiste più
una formazione politica capace di farsi forte della comune volontà
di convivenza pacifica. Dunque, e arriviamo così al suo incipit
bruciante, la sinistra non esiste più, è morta.
In passato anche lui, come abitualmente fa il manifesto, avrebbe fatto
la differenza tra quelli che hanno votato così e quelli che hanno
votato colà, tra l’una e l’altra sigla. Un gioco che
è durato fin troppo, deve aver pensato Pintor, e noi siamo d’accordo
con lui: certo, è sbagliato fare d’ogni erba un fascio, ma
troppo spesso la sinistra della sinistra serve da ritrovo di una politica
semplificata e irresponsabile (come quella che ora, in Brasile, potrebbe
determinare la rovina di Lula). Non si tratta soltanto di leader e di
deputati. Si tratta anche di noi, per dire donne e uomini che s’incontrano
sulle pagine del manifesto con una gran voglia di “ritrovarsi”.
E che, perciò, si mettono al riparo dalla corrente della realtà
che cambia e sorprende, per rassicurarsi sulla propria identità
con slogan brillanti e posizioni di sinistra ben riconoscibili. Con il
risultato, scrive Pintor parlando dei movimenti e della grande fiducia
che il manifesto ci mette, che le nostre idee, i nostri comportamenti,
le nostre parole, sono retrodatate rispetto alla dinamica delle cose.
Ma, giunto a questo punto della sua spietata rassegna, gli si apre davanti
un terreno sconosciuto, fuori da tutto quello che finora uno come lui
ha praticato e detto. E’ qui che il testo si fa difficile e per
certi aspetti, secondo noi, criticabile, ma anche enormemente più
interessante. Il suo autore non è un nichilista e vuole andare
avanti, a costo di ricominciare tutto da capo.
Da dove? Non lo sa. Potrebbe dire: a partire da me, un uomo che, pur vicinissimo
alla sua morte, mantiene il senso di un vivere non ristretto alla mera
sopravvivenza personale. Ma non è il suo linguaggio e va avanti
a tentoni, prendendo e scartando parole del suo lessico, fino a sfociare
in una figura molto forte, in ciò simile a quel diacono manzoniano
che, attraverso le cupezze alpine, arriva alla visione della luminosa
pianura. E’ la figura di un’umanità e di una politica,
due parole per lui quasi sinonime e intercambiabili: umanità che
ora egli vede non più tesa a vincere domani ma ad operare ogni
giorno, così da invadere il campo con una politica il cui scopo
è reinventare la vita in un tempo che ce ne sta privando in forme
mai viste.
L’editoriale si chiude con queste parole. A dire il vero, i passaggi
precedenti non sembrano andare esattamente in questa direzione. Pensiamo
specialmente al passo in cui siamo invitati a prendere atto che l’umanità
è divisa in due parti inconciliabili, separate da un nuovo confine
che bisogna imparare a riconoscere, un confine di estraneità da
marcare fino ad abolire ogni contiguità con il versante inconciliabile.
Che sono parole molto dure e in contrasto con la visione finale di un’invasione
del campo, e con il titolo stesso, “senza confini”, per non
parlare dello spirito di una politica non settaria. Ma c’è
una parola, “versante”, che suggerisce una lettura diversa.
Questa parola fa pensare che lo scrivente sia guidato non dall’idea
di una divisione in due, ma da quella di una spartizione o, più
precisamente, di uno spartiacque che ridisegna il profilo dell’umanità.
Secondo questa veduta, con “umanità” non si dovrebbe
intende l’insieme degli esseri umani, ma l’essere di ciascuno,
preso nel flusso ininterrotto di scambi con il mondo, cose e viventi.
In altre parole, la rottura che questo testo cerca di pensare nei confronti
della tradizione di sinistra, non sarebbe una nuova spaccatura tra noi
e “gli altri”, ma piuttosto un profondo rivolgimento –
la parola è di Pintor – nel campo, sempre aperto (“senza
confini”) e modificabile, dei rapporti che costituiscono l’umanità
comune. Di modo che la rottura che questo testo cerca di pensare nei confronti
della tradizione della sinistra, non sarebbe una nuova spaccatura dell’umanità,
ma piuttosto un suo nuovo profilarsi, in forza di una politica che è
pratica quotidiana di convivenza e che prende il posto delle bandiere,
delle organizzazioni, delle idealità (anche queste sono parole
sue).
Possiamo sostenere che questo dica o volesse dire esattamente Pintor?
Sì e no. Lo muove, infatti, un’intuizione dirompente che
cerca la compiutezza di un pensiero riuscendoci, secondo noi, solo in
parte. Colpisce, nel suo scritto, l’affiorare di idee e parole che
sono della politica delle donne, così come la espone il cosiddetto
femminismo della differenza. Pintor parla di estraneità per nominare
una differenza sentita come incolmabile, fa riferimento all’esistenza
quotidiana come terreno dell’agire politico e invita a un agire
che si traduca in pratica di vita, lasciando cadere simboli e forme proprie
della sinistra. Ma egli sembra inconsapevole di questo riferimento, tant’è
che non ha presente il conflitto tra i sessi, che è al centro del
femminismo come qualcosa che riguarda l’intera umanità. E
che, sofferto e pensato dalle donne, appartiene intimamente alla vita
e al desiderio di reinventarla. Di conseguenza, manca a Pintor anche l’idea
di un conflitto relazionale. Il che vuol dire che gli manca la cognizione
di quella dimensione dell’esistenza quotidiana in cui è veramente
questione di reinventare la vita, come - con acume insolito fra gli uomini
- ha capito e riesce a mostrare Mike Leigh nel film Tutto o niente.
Si tratta di una vera e propria ignoranza politica, che è anche
- attenzione - ignoranza di una parte della propria esperienza. Degli
uomini si dice, non a torto, che hanno bisogno di separare la vita affettiva,
hanno bisogno di vita privata, che significa proprio questo, vita separata,
isolata. Cui corrisponde, classicamente, una scena pubblica e politica
di antagonismo esasperato, che ha bisogno di nemici e avversari, a costo
di inventarseli.
C’è questa caratteristica ignoranza politica, ci sembra,
anche nella visione che ha Pintor dell’umanità pacifica e
civile come di “una miriade di donne e uomini di cui non ha importanza
la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica, religiosa,
che si riconoscono quasi d’istinto ed entrano in consonanza con
naturalezza”: pensiero più consolante che vero, non nuovo
nel panorama postcomunista e ispirato, forse, al sogno di un grande Noi,
che non esiste.
Non esiste la possibilità di una spontanea consonanza con l’altro,
così come, viceversa, non esiste la possibilità di stare
con esso in un’estraneità che non comunica. Lo sappiamo dalla
pratica femminista, che ci ha fatto vedere che la differenza si riduce
ad una forma di resistenza-contro, quando dà luogo al “noi”
della reciproca identificazione (noi donne, noi donne della Libreria,
noi del “manifesto”, ecc.). E diventa invece espansiva se
vissuta come un principio di mobilità di sé in rapporto
all’altra e all’altro. Perciò la parte più originaria
e sovversiva del movimento delle donne ha fatto leva - per cambiare il
mondo, né più né meno - sulla modificazione di sé
e della relazione con l’altro. Passaggio ad un altro ordine di rapporti,
ad un altro piano di essere, per un agire politico rispondente alle forme
della vita, così come Pintor lo concepì nell’aprile
di quest’anno.
Di tutto questo non possiamo più discutere con lui, personalmente:
la morte fa di questi torti, si sa. Ma non rinunciamo al confronto. Sentiamo
l’urgenza di una pratica politica che metta in relazione conflittuale
la differenza femminile e maschile per tentare di capire e di comunicare,
in vista di un agire condiviso. Che comincia proprio da qui, da un confronto
senza riserve.
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