|
da Via Dogana
86, Il miraggio del potere nel deserto della politica, settembre
2008
Vivere
in un mondo che sembra all'oscuro della nostra libertà
di
Luisa Muraro
Molte che
viviamo in questa società e siamo adulte da qualche decennio, in
condizione di misurare i cambiamenti avvenuti nell'arco di trenta-quarant'anni,
davanti alla realtà di oggi siamo prese da un sentimento di estrema
ambivalenza che ci fa pensare quello che non si osa quasi dire e cioè
che: tutto va meglio e tutto va peggio. Un vero paradosso.
Abbiamo cominciato a percepirlo, oscuramente, nel corso degli anni Ottanta,
per il contrasto fra quello che risultava a noi, da una parte, e una certa
lettura maschile che denunciava il deteriorarsi dei rapporti sociali e
della situazione politica, dall'altra. In seguito il divario non ha fatto
che crescere. Si è continuato a usare linguaggi differenti e a
guardare le cose da punti di vista differenti, il che consentiva di andare
avanti ignorandoci, la politica delle donne registrando cambiamenti positivi
e opponendo una efficace resistenza alla spinte contrarie, gli osservatori
della società registrando una emorragia di forze e idee a livello
politico e culturale. Io e tante altre siamo andate avanti per la strada
intrapresa di migliorare i rapporti tra donne e di cambiare quelli con
gli uomini in un senso favorevole alla libertà femminile, non senza
risultati. Anzi, con risultati tali che hanno fatto parlare di una vera
e propria rivoluzione. Eravamo convinte che, prima o poi, questo aspetto
positivo del cambiamento in corso sarebbe entrato nel quadro d'insieme
e avrebbe contato positivamente. In particolare, ci aspettavamo che la
politica delle donne, che si era mostrata vincente, avrebbe modificato
le idee, le pratiche e i progetti di chi lottava contro il degradarsi
della vita sociale e politica, e che saremmo diventate protagoniste nel
difficile cambiamento che ha nome globalizzazione. Finora non è
successo niente del genere. Il movimento no-global, per dirne uno, vedeva
nelle donne, quando le vedeva, l'umanità muta e sfruttata, da liberare.
Così come il sindacato fino a ieri ha visto nella femminilizzazione
del lavoro, un fattore che indebolisce e svalorizza la classe lavoratrice.
Intanto, però, il movimento no-global si è spento e i sindacati
sono rimasti indietro rispetto all'organizzazione postfordista della produzione.
Siamo così arrivate al paradosso della presente situazione, donne
che si lasciano alle spalle secoli di sottomissione all'uomo, di istruzione
negata, di esclusione dalla vita pubblica, di assegnazione a un lavoro
non scelto né pagato né altrimenti riconosciuto, di subordinazione
materiale e spirituale al destino biologico. Tutto questo è finito
o dietro a finire o destinato a finire, e non solo qui, sembra infatti
che in ogni parte del mondo vi siano processi che vanno nella stessa direzione.
Ma, messe naturalmente in conto le difficoltà, i ritardi e le incertezze
di tanto cambiamento, tutto questo accade in una civiltà che perde
colpi per quel che riguarda il diritto internazionale, la coesistenza
pacifica dei popoli, la tenuta della democrazia, la forza contrattuale
di quanti vivono del loro lavoro, la elementare qualità dei rapporti
umani (c'è paura e diffidenza del prossimo, disprezzo per i più
poveri
). E che, per giunta, non riesce ad affrontare efficacemente
i nuovi e urgenti problemi che si affacciano, fra i quali la salute del
pianeta Terra.
Del paradosso in questione faccio il punto di leva del mio discorso, ma
devo introdurre qualche considerazione che può mitigare la sua
enormità. Nelle epoche di passaggio, come questa che viviamo, bisogna
sapere che coesistono cose fra loro molto contrastanti e che le cose possono
apparire più contrastanti di quello che appariranno alla luce di
sviluppi futuri che noi ignoriamo. Consideriamo, inoltre, che sul paradosso
si riverbera la luce enigmatica dello statuto ontologico delle donne,
che duemila e cinquecento anni di filosofia, restando all'Occidente, non
hanno contribuito a chiarire. Chi sono le donne? Sono l'umanità
o una sua parte? Che cosa cambia quando cambiano le donne, l'umanità
o una sua parte? Come si passa dal femminile all'universale? Intendo,
c'è una posizione femminile che include gli uomini senza riportarli
nell'utero materno? Quello che le donne pensano, gli uomini lo possono
assumere come pensiero per sé? Le domande si moltiplicano, tutte
portano a una, sull'entità di ciò che accade quando accade
direttamente e propriamente alle donne, in primis il fatto di esserlo:
sono coinvolti anche gli uomini e non per finta, s'intende, non con la
favoletta del femminile in lui e del maschile in lei? Oppure gli uomini
vanno avanti con la loro storia, in cui le donne si sa che sono coinvolte
e si lasciano coinvolgere, fin troppo?
Per anni abbiamo aspettato (la stessa parola usata sopra) che le nostre
pratiche politiche e le nostre idee fossero prese in considerazione come
una risposta ai problemi crescenti della politica tradizionale. Riconoscimenti
e citazioni sono venuti, ma niente di più. Nessuno scambio produttivo,
esclusa una minoranza di uomini che però si distaccano dai loro
simili quasi quanto noi, se non di più. Recentemente, dopo la disfatta
elettorale della sinistra, molti tra i politici sconfitti si sono dati
a un attivismo che ripete i vecchi schemi, ma non tutti, alcuni si sono
messi a dire: gli errori sono questi, ecc., ora bisogna fare questo, pensare
quello, ecc., ma neanche questi si sono voltati dalla parte del femminismo
per dire: come hanno fatto loro, il cui movimento è cominciato
nel Sessantotto, ad andare avanti, a ottenere risultati e, soprattutto,
a indovinare il senso di certe mutazioni (il trionfo della soggettività,
la superiorità delle relazioni sulle organizzazioni, il valore
della lingua e del simbolico nella produzione)? Devo dire che una svolta
di questo tipo, io l'aspettavo
ecco di nuovo questa parola!
La sottolineo perché ci aiuta a fare il passo successivo, che è
di renderci conto che la cosiddetta politica delle donne ha lasciato all'impegno
degli uomini qualcosa che una politica, comunque intesa, non può
mai delegare. Di che cosa si tratti, comincio a dirlo così come
l'ho capito recentemente e l'ho discusso con altre e altri, in vista di
questo numero della rivista.
Chi si impegna a cambiare in meglio la sua condizione insieme a quella
dei suoi e delle sue simili, chi ha voglia di esistere per sé e
per gli altri, le altre, chi non vuole chiudersi nel suo "particolare"
ma arricchirsi simbolicamente nello scambio, chi si sente parte dell'umanità,
quella prossima e quella lontana, in una parola chi ama la politica, non
può ignorare che l'agire libero e creativo, in ogni campo, si afferma
a spese della logica del potere, che è logica dei rapporti di forza,
del dominio, del conformismo, della sopraffazione o della competizione,
più o meno regolata, con schieramenti, contrapposizioni, identificazioni
e appartenenze.
E viceversa, naturalmente: la logica del potere si afferma a spese dell'agire
libero e creativo, in ogni campo e in primo luogo nella politica.
Questa reciproca escludenza, che non ha niente di automatico nè
di logico, è la tensione immanente all'esistenza umana con la sua
connaturata e mai assicurata libertà. Per cui il loro rapporto
è questo: la politica non può ignorare la pressione del
potere né legarsi ad esso. Voler fare del potere lo strumento della
politica, da una parte, e tenerlo a una distanza di sicurezza, dall'altra,
è ugualmente sbagliato. Ma per ragioni fra loro diverse.
Quanto alla prima posizione, una vera e propria illusione, non vi insegno
niente di nuovo dicendo che, di fatto, avviene ed è sempre avvenuto
che il potere, da mezzo che doveva essere, diventa rapidamente il padrone
della politica e degli uomini che ad essa si sono dedicati, dei quali
infatti si dice, quando hanno successo, che sono "uomini di potere"
e nient'altro. Quelli che ricordiamo come politici e meritano questo nome,
sono quelli che gli hanno tenuto testa e hanno ottenuto dei risultati
contro e indipendentemente da esso. Vero è che, in proposito, non
sempre ci si esprime con la necessaria precisione (tornerò su questo
punto).
La questione che, invece, domanda di essere discussa da noi su questa
rivista, si trova sull'altro versante e riguarda la distanza di sicurezza
dal potere, dai suoi apparati e dalla sua logica.
Io non vengo qui a negare che sia possibile tenere una simile distanza.
Sembra che ciò sia molto difficile agli uomini, ma non lo è
per le donne. Lo dico con forza, sulla base di una lunga esperienza, a
lungo e accuratamente analizzata. E lo dico in polemica con una veduta
che si vende molto bene sul mercato delle idee, secondo cui il potere
sarebbe così pervasivo da essere onnipresente. Il problema non
è questo, anzi: questa bisogna toglierlo di mezzo come una veduta
fuorviante per vedere il vero problema che noi abbiamo davanti. Ho incontrato
troppe donne sedotte da pensieri e questioni che non le riguardavano veramente.
Il problema che riguarda noi su questa rivista, io sostengo, è
l'evitamento del lavoro necessario per strappare politica viva ed efficace
alla presa del potere che la trasforma in una specie di grande pretesto
per il suo funzionamento. Evitiamo abitualmente riunioni, elezioni, discussioni,
schieramenti e tutta una serie di rituali, come modi di agire in cui accade
regolarmente, primo, che si perda di vista la sostanza dei problemi, e,
secondo, che l'esperienza viva dei/delle partecipanti, insieme ai loro
rapporti, sparisca dietro una maschera di convenienza. Non sono forse
due buone ragioni per girare alla larga? Certamente, ma così facendo,
senza volerlo, noi non esercitiamo la nostra competenza sui problemi in
questione e, soprattutto, perdiamo l'occasione per dare prova ed esempio
che si può affrontarli e, in caso, risolverli senza maschere, in
rapporti diretti e sinceri con gli interessati, le due cose essendo strettamente
congiunte fra loro.
Oggigiorno siamo sommersi da problemi male impostati, quindi destinati
a nessuna soluzione o a cattive soluzioni, perché impostati unicamente
in termini di valori precostituiti (ogni uno ha i suoi, ovviamente), di
norme e di leggi, di maggioranze e di minoranze, di fronti che si contrappongono,
di alleanze strumentali, di calcoli di potere e relativi compromessi.
Si crede comunemente che questo sia la politica. Al contrario, questa
è la politica fatta a pezzi dalla logica del potere, la cui somma
preoccupazione è sempre di preservare sé stesso, ad ogni
costo. Quelli sono i resti di una politica di cui nessuno e nessuna è
riuscita a salvaguardare il senso costitutivo, sono frammenti di esperienze
ed esigenze che non hanno avuto né il tempo né l'aiuto per
essere degnamente ascoltate da persone attente e disinteressate, capaci
di stare con gli altri in una relazione sincera e rispettosa. S'indovina
ogni tanto la presenza di simili persone, come meteore nel cielo d'agosto,
impossibile trattenerle.
Eppure noi, nel movimento delle donne, in questi decenni abbiamo imparato
a curare la qualità delle relazioni, ad ascoltare, a interloquire,
a leggere quello che capita in cielo e sulla terra, a non fare schieramenti,
a cercare le parole e le altre mediazioni, ad avere fiducia nell'affacciarsi
di qualche risposta buona per le parti in causa. Questa è politica,
questa è cultura, questa è religione
non quei resti
che si vendono al mercato massmediale, pieno di merce contraffatta.
Tutto vero, ma che così sia, non si può stabilirlo in astratto,
senza misurarsi con i contesti che fanno nascere i problemi e con le persone
che cercano le risposte. Che vuol dire, in pratica, che non si può
stabilirlo senza esporsi, in caso, alla lotta per difendere la bontà
di una procedura, l'efficacia di una soluzione, la qualità dell'informazione,
la partecipazione allargata. Bisogna che un confronto ci sia, pubblico
e leggibile, non cercato apposta in una logica di scontro, ma attuato
quando ne va del senso delle cose e della libertà delle persone.
Non c'è niente come l'evitamento di questo confronto che impoverisca
la pratica della separazione femminista e della relazione tra donne, facendole
apparire, e in sostanza forse diventare, un ritrarsi dalla realtà,
un consolarsi e un contentarsi. E qui mi viene in mente un esempio che
farà ridere tanto è distante da noi, quello di Marta e Maria
(nel vangelo di Luca), figure simboliche, rispettivamente, della vita
attiva e contemplativa, questa seconda essendo considerata superiore alla
prima, ma che, invece, offrono a Maestro Eckhart l'occasione per un clamoroso
rovesciamento: Marta è superiore, dice, perché "Marta
era così essenziale, che la sua attività non la ostacolava".
E io intendo che: 1° nessuna condizione può essere assolutizzata
come buona, 2° una buona pratica di vita non ci separa da niente e
da nessuno, 3° il distacco rende liberi essendo interiore e simbolico.
Su Leggendaria 69 (estate 2008) anche Anna Maria Crispino s'interroga
sulla distanza, a proposito di uno stare "troppo fuori" o "troppo
dentro" (a quel tipo di cose che agitano la sinistra, per esempio).
E mi fa pensare che, sotto questo problema di una misura che non si trova,
troppo per un verso e troppo per l'altro, possa esservi un inciampo. E
cioè? che quando si arriva in vicinanza alla misura giusta, subentra
una confusione che offusca e indebolisce.
Racconto una storia che altre conoscono, la stessa o una simile. C'era
una femminista dotata per la vita attiva, una vera Marta, che aveva il
suo gruppo e una carica nel governo locale. Si trovò ad affrontare
la rivolta di un intero quartiere contro un campo di nomadi, convocò
la popolazione e fece parlare i più arrabbiati con i più
saggi, i più spaventati con i più ragionevoli, gli egoisti
e i generosi, donne e uomini. Era brava e la candidarono in una lista
delle politiche, fu eletta e andò a Roma. Ma l'avevano messa in
lista perché tirava su voti, non per quello che sapeva fare e aveva
da dire, e lei non riuscì né a fare né a dire, anzi,
quella volta che l'abbiamo invitata (lei non veniva a trovarci), a noi
sembrò che avesse perso anche la normale capacità di leggere
i fatti.
La confusione che offusca e indebolisce, io qui sostengo, è tra
politica e potere, e si crea quando si arriva, per così dire, alla
distanza giusta, là dove la cosa da fare sarebbe contendere alla
logica del potere i gesti e le parole della politica capace di dare senso
alle cose e, se necessario, di cambiare il mondo, in piccolo o in grande.
Invece del contendere (ma non sono affatto sicura che questa sia la parola
esatta), c'è un arrabattarsi, un andare a tentoni, un tentare compromessi
e un sostanziale adattarsi la cui unica alternativa finisce per essere
quella di andarsene.
Quelli che dicono "bisogna sporcarsi le mani", hanno la stessa
confusione in testa. Tra politica e potere è inevitabile che vi
sia una commistione reale, io credo, per più ragioni fra le quali
la più forte è quella che sappiamo, l'appetito onnivoro
del potere. Ma è altrettanto necessario combatterla, sapendo che
c'è politica quando si è mandata indietro l'invadenza del
potere, in qualche modo, non importa quale, purché sia senza cedere
né concedere alla sua logica.
Pur essendo questo un tema per me nuovo sul quale ho un'esperienza non
piccola ma scarsamente esplorata con la riflessione personale e condivisa,
so con certezza che la prima cosa da fare è la chiarezza mentale
dentro alla propria testa. Faccio un esempio che mi riguarda. Raccontavo
lo scambio (insoddisfacente) avuto con la caporedattrice di una casa editrice
che sta perdendo l'anima (a mio giudizio): è stata gentile, dicevo,
mi ha dedicato del tempo, ma non ha dato risposte significative, è
rimasta sul generico, non reagiva agli argomenti, insomma io ho sentito
che "lei non aveva il potere di decidere". No! Le ultime parole
riflettono la confusione che dicevo; quello che intendevo e che dovevo
dire era un'altra cosa, che la mia interlocutrice mancava di passione,
forse di anche di competenza, sicuramente di coinvolgimento, in un lavoro
che domanda queste qualità. Il potere c'entra, sì, ma in
seconda battuta, nel senso che, laddove mancano energia pensante e voglia
di esserci, esso subentra ipso facto.
Questo esempio mostra come la chiarezza mentale, che è sempre anche
una questione di linguaggio, sia indispensabile per leggere i fatti come
anche per non trovarsi, senza volerlo, a favorire l'invadenza reale del
potere. Le due cose sono strettamente collegate e mi suggeriscono un pensiero
ulteriore, circa la tendenza a esagerare il potere del potere. Lo facciamo
per paura, seduzione, servilismo, sentimenti coperti spesso dal moralismo
e complicati da reazioni difensive, ma non c'è dubbio che questo
fondo torbido del nostro animo può decantarsi con un lavoro del
pensiero e del linguaggio sulla nostra esperienza intorno a questo tema,
a partire dal paradosso di vivere in un mondo che per tanti, troppi aspetti
sembra all'oscuro della mia e vostra libertà.
|