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da: Buddismo
e Società, bimestrale dell'Istituto Buddista Italiano Soka
Gakkai,
n. 91, marzo-aprile 2002.
Redazione: via del Forte Bravetta, 164, 00164 Roma.
E-mail: duemilauno@isg.it
Ripartiamo
dalla differenza
intervista a Luisa Muraro
di
Gianna Mazzini e Marina Marrazzi
Il secolo
delle donne: così Daisaku Ikeda - presidente della Soka Gakkai
Internazionale - ha a più riprese definito il periodo storico iniziato
con il 2001. Un'indicazione e un auspicio. Perché egli riconosce
una qualità speciale al genere femminile: mettere al centro i valori
della vita e dello spirito piuttosto che quelli dell'esclusione e della
forza, tradizionalmente legati alla psicologia maschile. "L'entrata
in scena delle donne - ha scritto nella proposta di pace presentata all'Onu
l'anno scorso - avrà una portata che andrà al cuore della
civiltà umana, e si rivelerà più importante e vitale
dell'ottenimento della parità legale ed economica".
Abbiamo chiesto a Luisa Muraro, filosofa del pensiero della differenza
in Italia, di aiutarci ad approfondire in che cosa consista questa specificità
del genere femminile, a partire dalla sua esperienza, dai suoi studi,
dalle sue riflessioni sulla differenza di genere e dalla pratica delle
"relazioni politiche" con altre donne.
L'abbiamo incontrata a Milano, nella nuova sede del Circolo della Rosa
insieme a Vita Cosentino, Clara Jourdan, Sara Gandini, Laura Colombo,
Laura Modini, Traudel Sattler, Laura Minguzzi, del gruppo della Libreria
delle Donne. In certi casi le domande dell'intervista che segue sono estratte
dai loro interventi.
Si parla
spesso di donne e pace, della capacità delle donne di dialogare:
dove lei ritiene stia la principale differenza in questo tra una donna
e un uomo?
Anche se so che di solito nelle interviste ci si dà del "lei",
noi diamoci del "tu".
D'accordo.
Dov'è, secondo te, la differenza principale tra i due generi per
quel che riguarda la pace e la capacità di dialogare?
Vi risponderò per quello che ho capito finora, lavorando con altre
(le amiche di Diotima e donne che s'incontrano qui, in Libreria).
La differenza principale tra un uomo e una donna nella capacità
di dialogare è nella relazione della donna con la madre, relazione
intesa nei due sensi: ogni donna è stata messa al mondo da un'altra
donna ed è a sua volta potenzialmente madre di un'altra. Tra la
bambina e la madre si instaura una relazione che non è un compimento.
Mi spiego: una donna e la sua bambina si parlano un linguaggio in cui,
come dire, è presente la possibilità di un'altra creatura:
il regalo di una bambola alla bambina dice questo, no? E lo speciale desiderio
di diventare nonna, da parte della madre di una figlia, forse continua
a dirlo. Nell'amore femminile della madre, c'è posto per gli altri.
La differenza principale dunque sta nella relazione con la madre.
Il resto lo fa la storia. La storia è sempre stata vista come una
storia di dominio sulle donne, ma bisogna anche imparare a leggere, nella
storia, la presenza di scelte femminili.
Per esempio, quella di sacrificare tante cose per dare cura ai bambini
e alle bambine. Una scelta che ha umanizzato la società. Infatti,
le cure prolungate che ricevono le creature quando vengono al mondo le
ricevono essenzialmente da donne, e queste cure prolungate trasmettono
civiltà perché imprimono nelle prime esperienze di vita
la presenza di qualcuno che ti vuol bene, che si rivolge a te personalmente,
qualcuno che ti ha caro e che ha bisogno di essere ricambiato. Dico "qualcuno",
parlo al maschile cioè, perché anche un uomo può
imparare a essere madre, sebbene questa resti, storicamente, un'eredità
femminile. Il suo valore di civiltà solo oggi - in Occidente, senza
fare confronti con altre culture, che non saprei fare - si comincia a
scoprire e apprezzare. Ma, come dice il popolo, meglio tardi che mai.
Attraverso
quale storia personale sei arrivata a pensare tutto quello che pensi?
Quali sono stati gli snodi significativi?
Io ho la vita scandita di trenta in trenta anni. Ora sono alla terza fase.
La prima scansione, fino ai trenta anni, è stata quella di formazione,
una fase in cui le donne erano per me un sottinteso indispensabile e importantissimo,
c'erano le sorelle, le amiche, ma credevo che una donna fosse destinata
a entrare nel mondo degli uomini, ed era quello che io stavo facendo.
Poi c'è stato l'incontro con il femminismo, e quindi altri trent'anni
di vita "con" e "per" le donne. Per me stessa in sostanza,
ma non come individuo fine a se stesso, bensì come una in relazione
con altre e, indirettamente, altri. Da questo punto di vista, ero preparata
bene dalla vita in famiglia, una famiglia numerosa sotto l'autorità
di una madre che lasciava noi più giovani giocare molto liberamente,
purché si andasse d'accordo (tanto che, per fare qualche bella
litigata, ogni tanto ci voleva, si aspettava che lei uscisse di casa).
Torno al femminismo: ero una pensatrice senza idee e col femminismo ho
trovato un mare di idee. Mi spiego meglio: la mia formazione (mi sono
laureata in filosofia all'Università cattolica di Milano) mi aveva
dato idee ma non la competenza simbolica di farle mie, questa me l'hanno
data altre donne, con il femminismo. Prima ero un pensatore neutro in
un corpo vivo femminile, ora sono una pensatrice che riesce a mettere
in circolo le parole con il corpo vivo, i pensieri con l'esperienza.
Adesso, terza scansione, sto lavorando, con altre, per cercare di mettere
questa ricchezza della politica delle donne, così come l'abbiamo
scoperta e incrementata, a disposizione di chi la pensa diversamente o
pensa altre cose, perché prenda forma un pensiero nuovo, nello
scambio tra donne e uomini. Abbiamo bisogno di una pratica di relazione
nella differenza, cioè tra i due generi, altrimenti si ripete la
subordinazione delle donne agli uomini o, in alternativa, la separazione.
Infatti le politiche di parità non risolvono i problemi che nascono
dai rapporti donna/uomo. È un tema (e più che un tema, si
tratta infatti di una svolta profonda) al quale, in Libreria, lavoriamo
da un certo tempo e al quale abbiamo dedicato un numero della nostra rivista,
Via Dogana 56/57, intitolato "E gli uomini?" Ma molto resta
da capire, discutere, inventare.
Cosa intendi
quando parli di "ricchezza della politica delle donne"?
Un libro non mi basterebbe per rispondere, ma si può dire molto
anche in poche righe. Penso alla scelta, fatta da molte, la maggioranza
delle donne, di accordare i propri interessi, professionali e materiali,
con quelli delle persone care, all'amore femminile della libertà
che, per affermarsi, non ha fatto morti né guerre, penso alla competenza
relazionale e al primato della relazione che noi oggi e altre prima di
noi hanno praticato e teorizzato. Penso al nostro modo di intendere la
politica, come una convivenza che non si basa sui rapporti di forza e
di potere (che ci sono e tendono a imporsi, negarlo sarebbe idealismo,
ma vanno visti come il fallimento della politica) e anche al nostro modo
di parlare e di scrivere di politica, a partire da noi e in concreto.
Per prepararci
a quest'incontro, ci hai indicato il tuo ultimo articolo pubblicato su
Via Dogana dal titolo "Che cosa ci sta capitando?". In questo
tuo lavoro, scritto dopo gli attentati alle Torri Gemelle dell'11 settembre,
dici, fra le altre cose, che "per molti stare nella maggioranza,
stare con quelli che hanno il potere di decidere e l'agio di avere facilmente
ragione, è un modo di non sentirsi impotenti, di trovare le parole
per sapere quello che capita e dargli un senso". Questo ci ha colpito.
Ci puoi dire di più?
Mi capita spesso di ascoltare quello che dicono donne e uomini che non
hanno potere e che non sono intellettuali di professione, persone, dunque,
che dipendono molto, troppo, dai mass-media, per orientarsi. Sono colpita
dalla fatica che fanno e dai molti ostacoli che incontrano, e anche se
arrivano a conclusioni con le quali non posso essere d'accordo (per esempio,
la diffidenza o l'ostilità per gli immigrati poveri), trovo ingiusto
chiudere il discorso con un'etichetta (come razzismo). Tutti abbiamo bisogno
di dare un senso a quello che ci capita e non è per niente facile
trovarlo in un mondo come il nostro, spesso anzi questo senso non si trova
da nessuna parte e bisogna inventarlo, crearlo.
Io non so né potrei creare il senso di cui hanno bisogno le maggioranze
che finiscono per votare i demagoghi, esporre bandiere, credere alla propaganda
di guerra. Non sono capace, e non c'è nessuno capace di sapere
qual è la cosa che interpreta fedelmente quella domanda, so solo
che i ragionamenti non bastano, per quanto siano giusti.
Penso che la cosa di cui bisogna rendersi capaci è ascoltare con
le antenne il bisogno di senso, in qualsiasi maniera si esprima. Ascoltare
profondamente le richieste, farle risuonare dentro di sé e tentare
di tradurle in parole accettabili, da offrire agli interessati.
Come si
fa a dare parole adeguate?
Prendiamo il caso della partecipazione popolare alla morte di Lady Diana
Spencer: quella enorme commozione di massa a molti è apparsa un
fenomeno di sentimentalismo deteriore, buono solo per essere sfruttato
dai fabbricanti di spettacoli (com'è successo). Ma alcune donne
(per esempio Marta Lonzi, autrice di Diana, una femminista a Buckingham
Palace) hanno cercato di leggere la verità psicologica e politica
di quel fatto. Non si tratta di andare dietro ai fenomeni di massa, ma
di cercare di ascoltare quello che ancora non ha trovato parole e, quindi,
si manifesta in un modo qualsiasi o malamente. E cercare le parole che
mancano.
È un lavoro che può ridurti alla quasi solitudine.
Ci sono cose che per trovarle resti in due o tre. E sono le cose che aiuteranno
migliaia, milioni di persone.
Per trovare una risposta che non sia la morte, che non sia la guerra,
non sia la distruzione o il patriottismo bieco, che non siano le masse
nazificate che fanno le sfilate, bisogna trovare un'altra strada, e per
farlo si può cominciare in due o tre. Senza però viversi
come "minoranza" e senza fare la conta di tutti quelli o quelle
che stanno dalla tua parte, ma restare all'ascolto del comune modo di
sentire e di parlare.
C'è una formula di Margherita Porete (una scrittrice spirituale
del sec. XIII, che ha pagato con la vita l'audacia del suo pensiero) che
esprime felicemente quest'idea: l'anima libera, dice, è "sola
e comune". A essere precisa, lei dice: "Sola con Dio",
ma qui si entra in una dimensione per noi difficile da intendere; ci basta
sapere che si tratta, come dire, di una solitudine relazionale, in cui
un altro è presente o può esserlo.
Dal tuo
articolo emerge un altro punto cruciale. Per dare una risposta a "quello
che capita - scrivi sempre riferendoti al periodo immediatamente successivo
all'11 settembre - non posso mantenere l'abito mentale di aver ragione,
perché l'essenziale è ancora da pensare, e finora non c'è
nessuno che possa dire di avere ragione, se non quelli che sono morti
o si spendono per salvare vite umane". Che cosa intendi dire?
Nella nostra cultura e nella nostra formazione la verità si guadagna
dialetticamente, che vuol dire per affermazione e negazione, da cui la
grande importanza della critica e del confronto. Chi partecipa a questo
processo, ci va con l'abito mentale di avere ragione, salvo scoprire che
l'avversario ha ragione lui. Ma se l'altro non parla? Se parla una lingua
enigmatica? Se quello che dice è dettato dalla paura? Questa è
la prima serie di obiezioni, alle quali si cerca di rispondere, nel campo
scientifico, con la pratica del laboratorio (con tutte le riserve che
suscitano certe pratiche scientifiche) e, nella vita sociale, con la democrazia:
non la democrazia rappresentativa, sia chiaro, che lascia i più
nel silenzio, ma quella che una di noi, Lia Cigarini, ha chiamato democrazia
relazionale.
Ma c'è un altro tipo di obiezione.
Da qualche anno in qua (l'11 settembre è una data emblematica per
un processo già in corso) ci manca il linguaggio necessario a dire
quello che ci capita. O, meglio, da qualche anno in qua è spuntata
la consapevolezza che ci manca il linguaggio necessario. Di conseguenza,
il classico abito mentale con cui si va al confronto con l'altro per la
conquista della verità si riduce a essere il pretesto per l'affermazione
di sé o del proprio gruppo con i relativi interessi, quando non
addirittura una specie di esibizionismo, ivi compreso l'esibizionismo
tipicamente postmoderno di chi non crede nella possibilità del
vero. Ma come si fa ad alimentare la fiducia nella possibilità
di dire o ascoltare qualcosa di vero, senza quell'abito mentale dell'avere
ragione? Quale linguaggio mi aiuterà a sapere come cosa giusta
e sensata, e a saperlo con ogni evidenza, cioè anche a sentire
che l'essenziale, la cosa più preziosa per me, è nelle mani
dell'altro?
Proprio
qui sta il punto. Infatti dopo aggiungi: "Non diminuire di un etto
quello che sai e che sei, ma non cercare riconoscimenti. Metterti anche
tu a pensare altro con altri, [
] e attraverso questo scambio con
donne e uomini, che non può escludere il conflitto, dare vita a
un nuovo pensiero, nuovi desideri, nuovi abiti mentali, qualcosa che non
sia la dimostrazione che avevo, avevamo ragione, ma un'intelligenza di
quello che ci sta capitando e una risposta". Ora ti chiedo: come
si fa a non diminuire di un etto quello che si sa e si è e nello
stesso tempo aprirsi alle prospettive altrui? In che modo questa capacità
ti deriva dall'esperienza della pratica politica tra donne?
Io posso dire la sintesi di un lungo lavoro fatto anche con altre: quando
ho cominciato a fare politica nel senso classico della parola ho capito,
e così era, che la politica veniva, e viene, intesa come "una
macchina per far capitare le cose". Pensiamo a Genova durante il
G8: da una parte e dall'altra della barricata, tutto è stato concepito
e organizzato come una macchina per far capitare le cose. La grande partecipazione
alla manifestazione di protesta nasceva da una molteplicità di
bisogni e intenti, fra cui quello di stare vicini e insieme ad altri o
quello di anticipare simbolicamente un'umanità non divisa dagli
egoismi. Ma la forma politica era data dall'intento di produrre un grande
evento mass-mediatico. Insomma, la politica intesa come "macchina
per far capitare le cose".
Con la pratica politica fra donne, io ho notato che le cose più
feconde ed efficaci, quelle cioè che non si lasciano azzerare nello
scontro fra potere e contropotere, vengono con una politica intesa invece
come un "intensificare le relazioni" per rendere possibile altro.
"Un altro mondo è possibile" (che è lo slogan
dei no-global) mi è congeniale, con la sola differenza che l'altro
mondo possibile - io sostengo - è già qui, ma spesso imprigionato
nella nostra povertà simbolica. Praticare la politica come un intensificare
le mediazioni tra sé e sé, tra sé e le altre, tra
sé e l'altro, porterà a trovare le mediazioni necessarie,
e farà sì che dal reale si sprigioni il di più, quello
che è possibile grazie al fatto che c'è un'intensità
delle mediazioni. Perché la politica si impoverisce quando le mediazioni
sono di bassa intensità, quando sono meccaniche e, peggio ancora,
assicurate dai rapporti di potere. Gli uomini politici hanno ormai questa
pochezza umana dipinta in faccia, che forse non c'era in loro all'inizio
ma ha finito per installarsi, e di solito la gente la vede e si ritrae
con una vera e propria ripugnanza.
A questo
tipo di mediazioni "intensificate" ti riferisci quando parli
di "scambio" da cui emergono nuove idee?
Sì, la qualità degli scambi e, dunque, la loro fecondità,
è assicurata dalla ricchezza delle mediazioni, tutto quello che
si attiva e si inventa per rapportarsi all'altro. (Quando dico "l'altro"
intendo tutto quello, cose, persone, situazioni, che si fa sentire da
me come non-me, come non assimilabile a me e al mio mondo.) Non c'è
un metodo per far nascere nuove idee, io credo, ma una disposizione favorevole
sì, ed è, fondamentalmente, quella del bisogno in cui si
è di idee quando si esce da sé e dai propri rifugi e ci
si trova in mezzo a cose che non si sanno, a situazioni che non si conoscono.
Noi, abitanti della Terra, in questo momento, ci troviamo in questa condizione,
ma bisogna diventarne più fortemente consapevoli.
Se ci siano guide per questa dinamica, non so, ma so che, per muoversi
nell'ignoto, è importante misurarsi con il giudizio di altre, altri
cui riconosciamo autorità. Il presidente Clinton era uno che, liberamente,
senza complessi, ascoltava l'autorità della sua compagna, e questo
ha fatto di lui, con tutti i suoi limiti, un presidente migliore di quello
che sarebbe stato di suo. La cosa che più temo del potere politico
oggi (di fatto, il potere degli Usa) è l'uso continuo che si fa
dei sondaggi per orientare l'azione politica: che la maggioranza elegga
i governanti ha un senso, ma che possa orientarli, non ha senso, perché
la maggioranza non è dotata di autorità. Può riconoscere
una buona scelta, io ne sono convinta, ma dopo, non prima che sia fatta.
Parliamo
di conflitti. L'incapacità a confliggere in modo "costruttivo"
è piuttosto diffusa. La difficoltà sta proprio nel mettersi
in gioco sapendo anche che in quel conflitto, se è un conflitto
di parole, un conflitto di senso, non viene uccisa l'integrità
di una persona ma vengono trovate nuove mediazioni che rendano possibile
qualcos'altro. C'è un modo per imparare a fare questo?
Il gusto e la capacità di confliggere si basano sulla convinzione
della fecondità del conflitto, che non è mai tempo perso
e non ammazza nessuno, come voi giustamente dite. In proposito, c'è
solo una cosa che io so bene e cioè che quando sono convinta di
avere ragione - e questo capita nelle relazioni politiche con donne come
nella mia università - devo trovare o creare un terreno comune
su cui ci si possa avventurare, e farlo vedere all'altro che altrimenti
s'impaurisce e scappa. Per fare questa fatica di aprire un terreno comune,
bisogna essere convinti, convinte della fecondità del conflitto.
Non avere, dunque, come ideale e misura il perfetto accordo. Né
immaginarsi che l'altro abbia chissà che cosa da dirti, o viceversa,
che tu hai chissà che cosa da dire all'altro. Ha da dirti qualcosa
il vostro accettare il conflitto: che l'altro accetti di venire allo scontro.
È una relazione di scambio anche questa e, in non pochi casi, può
essere l'unica praticabile. Nella mia università non ho mai aperto
conflitti di alto livello, perché ho preferito pensare che un giorno
avrei avuto partita vinta, che un giorno la storia mi avrebbe dato ragione.
Preferivo pensare questo. E non ho aperto conflitti creativi. E quindi
hanno prevalso i rapporti di forza.
Anche
il Buddismo dice così: che il conflitto può essere fecondo.
Che si può cambiare punto di vista a partire da questo tipo di
"scambio". Ma torno a chiederti: qual è la specialità
femminile nella costruzione di pace? Cosa ci rende diverse dagli uomini,
anche i più capaci e disponibili?
La grande differenza femminile, da questo punto di vista, è che
le donne hanno consapevolezza della differenza sessuale. Le donne non
si vivono come "uomo universale" e perciò vivono e si
vivono in relazione con gli altri, per essere se stesse. Il primum nella
struttura dell'esperienza diventa così la "relazione",
cioè il primum è: "c'è posto per l'altro".
Questo posto per l'altro, in un'esperienza così strutturata, non
è fatto dalla buona volontà, non è altruismo, insomma;
nasce da un'accettata difettosità di sé. Siamo un sesso
"mancante".
Questo posto per l'altro nasce da un'accettata assunzione che c'è
altro e che questo fa, anzi ha già fatto, un buco dentro di te.
Il sesso femminile è un sesso bucato. È un sesso bucato,
come la cruna dell'ago. La misoginia descrive questa "mancanza"
come una cosa orribile e invece è la quintessenza dell'umanità,
la quintessenza del simbolico.
Il reale non è pieno, il reale è bucato da infinite possibilità
(forse infinite no, ma innumerevoli, sì) e queste parole hanno
un senso proprio perché ci sono le parole (il simbolico). C'è
altro.
Questo è quello che il femminismo della differenza sostiene (non
il femminismo rivendicativo che vuole riempire il buco). Il femminismo
della differenza - così come io lo leggo, s'intende - accetta questa
cosa e proprio per questo è capace di pensare una politica dove
si arriva a quello che a te ha affascinato, cioè non ad "avere
ragione" ma a "essere in relazione con l'altro".
Fare scambio.
Il nostro
maestro, Daisaku Ikeda, riconosce a tal punto il valore del genere femminile
che ha dichiarato di voler rinascere donna nella prossima vita
Bisogna che lo portiamo a voler rinascere uomo, per portare nella virilità
quel cambiamento di cui ci sarebbe bisogno. Che cambiamento intendo? Non
lo so, non posso dirlo io, dipenderà da lui e da altri. Tuttavia
so che c'è bisogno di un cambiamento del senso della virilità,
quando vedo che troppi uomini interpretano male il movimento femminile
del tirarsi indietro: lo interpretano come un invito rivolto a loro perché
si facciano avanti. E così capita che il posto vuoto creato da
lei perché "altro" possa avvenire, viene riempito da
questo e quell'uomo. E invece no: perché altro possa avvenire quel
vuoto serve.
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