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Buddismo e Società, Per la pace, la cultura e l'educazione bimestrale
dell'Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, n. 94, settembre-ottobre 2002.
Redazione: via del Forte Bravetta, 164, 00164 Roma. E-mail: duemilauno@isg.it
La rivista
dell'Istituto buddista italiano Soka Gakkai - ha dedicato lo speciale del n.
94 all'ECONOMIA. Tra gli articoli, "Il denaro e l'amore. Esiste una lingua
in comune" di Gianna Mazzini, "Certo che possiamo. Proposte per un'economia
responsabile", della economista anglosassone Hazel Henderson, "Per sostenere
la vita. La visione buddista dell'economia" di Maria Lucia De Luca, e un'intervista
a Muhammad Yunus, il notissimo "banchiere dei poveri", che spiega perché
ritiene le donne più affidabili degli uomini: una delle ragioni è
che "le donne hanno una visione più a lungo termine". E'
importante questa messa in circolazione di riflessioni sull'economia da parte
di una rivista come Buddismo e società che non ha come primo interesse
l'economia. Mostra come esista molto pensiero economico oltre le teorie economiche
e oltre i luoghi più conosciuti, come Porto Alegre. E mostra come nella
riflessione e nella pratica economica che si confrontano con i problemi di oggi
i contributi forse più significativi vengano da donne e da quegli uomini
che li sanno leggere.
Il
denaro e l'amore Una lingua in comune
di
Gianna Mazzini Per
esempio c'è il "bene". Il bene che voglio a mio padre, il
bene di quando mi passa il mal di testa e torna la voglia di ridere, il bene matto
che voglio a te. E poi ci sono i "beni". I beni durevoli. I beni
mobili e quelli immobili. I beni da investire. Quelli ereditati. I beni riproducibili
e quelli no. Ci sono frasi come "Ho paura di perderti", oppure "Quell'incontro
è stato un fallimento". "Fallimento", "bene",
"perdita": tutte parole "economiche" usate nella sfera delle
relazioni. E poi ci sono certi termini tecnici usati dalle banche, come quello
per definire la percentuale di prestiti accordati che non viene restituita: "tasso
di sofferenza" si chiama. Una banca che ha "tasso di sofferenza zero"
è una banca in cui tutti i prestiti accordati rientrano. È una banca
che non soffre. Per non dire dei titoli dei giornali quando parlano di estrema
"sensibilità" del denaro a ogni sbandamento di borsa. O discutono
sulla "fiducia" dei mercati. "Sofferenza", "sensibilità",
"fiducia": parole "sentimentali" usate per il mondo dei soldi. Dunque
economia e amore dividono alcune parole. Ma che vuol dire?
Le parole
sono le madri delle cose. Dicono l'origine e il senso di ciò che definiscono.
Le parole sono tracce. Orme. Sono carte da decifrare per orientarsi. Sono segni.
In questo caso segni di una comune struttura relazionale. Il fatto che il
mondo dei soldi e quello dei sentimenti dividano alcune parole significa che i
soldi, proprio come l'amore o l'amicizia, appartengono simbolicamente alla sfera
dei legami. Delle relazioni. Degli scambi. Hanno in comune una struttura, un segno.
Sono fili invisibili che legano le persone, sono righe fra di noi. Certo
la parentela non appare così immediata: il mondo dei soldi sembra così
estraneo e ghiacciato rispetto alle cose. Così asettico e crudele da ridurre
la complessità della vita a colonnine di numeri, percentuali e tassi. E
l'amore, l'amicizia, i sentimenti tutti, foss'anche l'odio, sembrano così
accesi, così poco parenti dei numeri, dei calcoli, della logica. L'economia
non nasce però come cosa fredda, lontana dai corpi, e spietatamente votata
al profitto com'è ora; nasce flusso, energia di vita per intrecciare legami
che allargano. Nasce come scambio di "beni" fra persone in carne e ossa.
Flusso. Cerco segni di questa "economia dei legami" e mi viene in
mente il mercato e il significato simbolico che un luogo come quello ha e ha sempre
avuto nella storia: incontri, scambi, sapere. Lingue diverse. Voci, visi ed esperienze.
Socialità autentica. Sinfonia di colori e razze. Tant'è che all'origine
della nostra Europa moderna ci sono movimenti come quello del "libero spirito"
e tutti i grandi movimenti ereticali nati proprio nelle città dei mercanti.
Perché i mercanti portavano in giro merci e saperi; nei mercati, insieme
al denaro, viaggiavano idee in carne e ossa. Anche il baratto è traccia
di un'economia dei legami: io chiedo una cosa a te e tu ne dai una a me e il metro
della scambio, la misura, la diamo noi. Una cosa varrà tanto se tratto
con te e tant'altro se tratto con qualcun altro. In questo tipo di scambio ci
sono le persone, i corpi, le necessità e i desideri. E c'è spazio
per prezzare tutto. Con le sfumature, i mezzitoni, i colori pastello, tutte misure
più rispettose del vero di quanto non lo siano interi e decimali. Eppure
l'economia, per lo meno quella che domina in questi tempi, è fatta di tutt'altro:
è fatta di prezzi. Di soldi. È fatta di denaro che omogeneizza tutto,
che traduce in numeri qualsiasi cosa: una casa, un chiodo, una poesia. Che rende
tutto uniformabile: il computer su cui scrivo, la luce che consumo, un parere
legale, l'anello che porto al dito. E che stabilisce valori seguendo criteri che
penalizzano le cose piene d'amore: più una cosa ha valore e meno costa.
Il latte di una madre, ad esempio, è gratis. Gratis la cura, gratis l'attenzione.
Ci sono un mare di cose preziosissime eppure senza prezzo, cose alle quali
si attribuisce un valore grande, ma talmente grande da non avere prezzo. E così
la nostra società, il nostro vivere insieme si forma su questa contraddizione. Che
le cose belle non hanno prezzo e non avendo prezzo non contano, non contribuiscono
al Pil di un paese, non vanno nei bilanci, nelle finanziarie, nelle manovre economiche
in genere. Rimangono invisibili e mute. Che ci sia questo rapporto inversamente
proporzionale fra amore e soldi ce lo dice anche l'esperienza di tutti i giorni:
siamo disposti a fare cose noiose per molto denaro, facciamo gratis quel che ci
piace. Come se l'amore e i soldi fossero una palla informe, un intero, cento diciamo:
e se c'è venti d'amore ci sarà ottanta di soldi. Se c'è quarantotto
d'amore ci sarà cinquantadue di soldi. Più amore c'è e meno
c'è bisogno di soldi, più soldi ci sono e meno c'è bisogno
d'amore. Da questo punto di vista si potrebbe dire che l'economia, per come viene
comunemente intesa, è diventata il regno del denaro che cancella l'amore.
Il regno del denaro neutro, senza colore, né nazione, né odore.
Che, anche se "sporco", si pulisce al primo lavaggio, che se viene dai
corpi di bambine vendute alla strada può diventare pulitissima catena di
bigiotterie. Che si ricicla perché non porta traccia del passaggio. Non
rimane mai inciso il dolore, non rimane imprigionato nel foglio il peso della
mano che lo tocca. Denaro che non ricorda. Orma cancellata a ogni passo. Sempre
buona, moneta, che una volta è medicina e la volta dopo orrore. Il denaro
che indennizza tutto. Come se, pur non riuscendo a valutare valori non materiali
come la giustizia, l'armonia, la bellezza o la salute, il denaro potesse superare
il loro bisogno o compensare per la loro perdita. E invece i soldi hanno bisogno
dell'amore, di essere legati ai corpi, alle relazioni, all'origine. Finora
però l'attenzione di chi si occupa di economia è stata rivolta quasi
esclusivamente alla logica del "vinciperdi". Quella del "o
si mangia o si viene mangiati". Ce ne parla Daisaku Ikeda (nell'articolo
Una competizione umanitaria, pp. 43-45), e ci racconta di come le guerre siano
passate, nel corso della storia, dal piano militare a quello politico fino a quello
economico. Guerre di soldi, di conquista di mercati. E ci ricorda come il significato
originario della parola "competizione" fosse "cercare insieme"
ed è invece arrivata a definire la sconfitta o il trionfo sugli altri.
Nel Buddismo c'è il principio di origine dipendente secondo il quale tutte
le cose dell'universo coesistono in una relazione di reciproca interdipendenza.
Se ti vinco, se trionfo su di te, secondo il principio di origine dipendente in
realtà perdo. "Le persone, le comunità, le nazioni non possono
esistere in isolamento. Hanno bisogno del reciproco aiuto. Per costruire una comunità
mondiale, una civiltà globale basata sulla giustizia, la compassione e
la speranza, occorre innanzitutto abbandonare l'etica della competizione basata
sul principio del "mangiare o essere mangiato" per coltivare al suo
posto un'etica condivisa di cooperazione e interdipendenza, che di fatto si avvicina
maggiormente al significato originale della parola "competizione"". Non
solo il Buddismo ma anche l'economia, ci racconta Hazel Henderson (nell'articolo
Certo che possiamo, pp. 26-31) si sta accorgendo del legame prezioso fra amore
e soldi. Secondo le stime del rapporto delle Nazioni Unite del 1995 esiste
una economia non pagata che ammonta a sedici trilioni di dollari l'anno. Un'economia
fatta di volontariato, di lavoro domestico, di cooperazione, di educazione e crescita
di bambini e bambine, di condivisione e cura. L'enorme valore di beni e servizi
prodotti da questa economia dell'amore - ripeto: sedici trilioni di dollari nel
'95 - però è finora totalmente assente dalle statistiche che misurano
la ricchezza dei paesi. Per l'economia è valore sommerso. Ma qualcosa
sta cambiando. Ormai anche le industrie e i governi sono costretti ad abbandonare
quel tipo di economia fondata sul denaro che ignora e punisce l'amore. Bene,
questo "speciale" si occupa di questo scenario che cambia. Il potere
uniformante del denaro, ovviamente, non è stato solo negativo: milioni
di scambi fra popoli diversi e diverse necessità sono possibili proprio
grazie all'esistenza del denaro. Lo potremmo paragonare all'inglese, lingua universale
e preziosa per capirsi anche fra i popoli più distanti della terra. Ma
è come se gradualmente fossero sparite tutte le lingue del mondo e ne fosse
rimasta una. Solo quella. Che avesse preteso di tradurre, uniformando, ogni stato
d'animo d'ogni angolo della terra. Quando il denaro diventa la misura assoluta
della ricchezza di un paese, di una cultura, di una persona, spariscono le distinzioni
qualitative fra le cose. Eppure i "beni" non sono tutti uguali.
Alcuni sono stati fatti da noi umani, altri dati dalla natura; alcuni sono
liberamente riproducibili, altri meno. Alcuni li potremo produrre all'infinito,
altri prima o poi finiranno. È importante conoscere l'origine di un bene. Il
Buddismo parla di "retti mezzi di sussistenza". Se lo pone il problema
dell'origine di un bene. Fa le distinzioni. Ce ne parla l'articolo Per sostenere
la vita (di Maria Lucia De Luca, pp. 32-37) quando racconta la visione buddista
dell'economia: l'impegno nel lavoro onesto e diligente, nel rispetto di ogni forma
di vita; "
una giusta misura nel consumare la ricchezza prodotta dividendola
con la famiglia e gli amici, la generosità dell'offerta al sangha sono
tutte caratteristiche di un'etica economica diretta ai primi credenti laici, non
a caso mercanti". Certo la realtà nella quale viviamo ha ancora
la ricchezza come obiettivo primo, obiettivo in rapporto al quale ogni altro è
diventato secondo. E lo sappiamo: i fini più alti non richiedono giustificazioni;
tutti i fini secondi si devono piegare. La logica economica corrente è
"più prendi, più hai". Nell'articolo La ricchezza
di donare (pp. 38-42) Manuela Vigorita ci parla dell'offrire e di come possiamo
"provare a dare tutto quello che abbiamo, preghiere, parole, azioni, soldi,
esperienza, tempo, emozioni, per cambiare le cose, per cambiarle quelle logiche
economiche che decidono della mia fortuna ignorando, calpestando la sfortuna,
il dolore, la morte di altri". Scrive come nella visione buddista della vita
il "più prendi più hai" si ribalta. Perché, anche
se la nostra percezione può non essere immediata, la legge di causa ed
effetto dice che "più dai, più hai". È l'avidità
a farci ricchi e poveri, analfabeti e colti, è l'avidità a creare
sottosviluppo, carestie, inflazione. Disoccupazione, evasione fiscale, corruzione,
attività illegali, la sete di potere. Avidità in ogni angolo della
terra. Il profitto, l'arraffare, il succhiare senza ridare nulla è contrario
alla dignità della vita. È la fame. Affamati eppure ricchi, assetati
eppure in acqua, avidi molli. Nel mondo di avidità non uso i desideri
per creare valore ma sono schiava e soffro e faccio soffrire. Vivo in una civiltà
di affermazione dei desideri. Intorno a me una situazione perversa in cui il desiderio
ha assunto proporzioni gigantesche e domina come un padrone. I desideri umani
non hanno limiti. C'è il desiderio di vivere, quello di cibo, c'è
il desiderio di possesso e quello di avere l'attenzione degli altri. C'è
il desiderio di potere, il desiderio di fama, quello di controllare gli altri
e anche di essere rispettati e amati. È un dato di fatto che senza desideri
non si può vivere. Il punto dunque è come usiamo i desideri.
Il desiderio di "beni" come quello di "bene". La vita
è una. Il che vuol dire che non ci sono materie distinte, cioè che
la logica del profitto è misera, assassina della vita, sia che si parli
di denaro sia che si parli d'amore. La vita è una e registra tutto.
Ogni intenzione, ogni affare, ogni dono.
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