Circolo della Rosa, 13 maggio 2006

Incontro con Paola Bono

Nell'incontro con Laura e Sara, ho avanzato per il mio intervento qui tre ipotesi, non in contraddizione e anzi in verità collegabili; ma certo non ci sarebbe stato il tempo di andare a fondo di tutte e tre, e dunque si trattava di scegliere. Vorrei però brevemente riproporle, come percorsi possibili nel territorio infinito che questa serie di incontri vuole esplorare, prima di approfondire l'ultima, come infine mi è stato chiesto.

1. Prima ipotesi, la più ovvia. Cercare e analizzare le rappresentazioni della madre in letteratura, le rappresentazione del rapporto madre-figlio e ancor più di quello madre-figlia. Guardando alla letteratura come luogo di produzione di senso e dunque di realtà, luogo di deposito e elaborazione di posizionamenti socio-simbolici; l'idea era ragionare su tali rappresentazioni in dialogo ideale con le donne che ne hanno scritto. Rintracciare la presenza, assenza, modalità, mutamenti di queste rappresentazioni: esempi possibili, tra i tanti - Woolf, Plath, Olsen, Rich, Duras, Colette. Ma pensando anche a rappresentazioni prodotte da uomini, per chiedersi se/cosa cambia, è cambiato quando a scrivere sono donne, e sempre più donne, e donne toccate dal femminismo: diventa possibile quel "corpo a corpo con la madre" di cui Irigaray lamentava l'interdizione? un "corpo a corpo" amoroso e non matricida? Si potrebbero qui anche ripercorrere le varie fasi politico-esistenziali della mia generazione. All'inizio era assai diffuso il rifiuto della madre e della maternità, la madre colpevole di complicità con il patriarcato, la maternità destino finalmente rifiutabile e da rifiutare perché ostacolo alla realizzazione di sé: conferma del postulato freudiano di odio per la madre come base di maturazione. Poi si è visto il rapporto madre-figlia come possibile paradigma delle relazioni tra donne in tutta la loro complessità; per arrivare infine alla riconoscenza (parola dai multipli sensi che tutti vorrei tenessimo presenti) - avendo imparato "che per la sua esistenza libera una donna ha bisogno, simbolicamente, della potenza materna, così come ne ha avuto bisogno materialmente per venire al mondo" (Muraro, Ordine Simbolico, p. 9).
Senza entrare nel merito, vorrei suggerire almeno alcune letture che aprono piste interessanti: una prima riflessione teorica e una sorta di panorama (da Austen al presente) è stato proposto da Marianne Hirsch in The Mother-Daughter Plot. Narrative, Psychoanalysis, Femnism (1989; più recenti e centrati sulla letteratura contemporanea sono Writing Mothers and Daughters. Renegotiating the Mother in Western European Narratives by Women, a cura di Adalgisa Giorgio (Berghahn Books, 2002), e Lo specchio materno. Madri e figlie tra biografia e letteratura, a cura di Anna Scacchi (Sossella 2005). Infine, molto interessante è l'ultimo numero di Leggendaria (54, febbraio 2006) "Madri".

2. Seconda ipotesi. Tentare una rilettura del Catalogo n. 2 - Romanzi. Le madri di tutte noi (1982, Libreria delle donne di Milano e Biblioteca delle donne di Parma), che era una interrogazione a molte voci di scritture di donne per cercarvi "l'inizio di una invenzione che rendesse conto di quello che sanno, che sono le donne, se ci sono". Dunque anche una interrogazione del proprio essere e esistere, ma in rapporto a donne del passato e con la loro mediazione; passo importante nella costruzione di una genealogia - forse momento di snodo tra rifiuto matricida (che tra l'altro implicava disistima di sé e adesione a modelli maschili) e acquisita capacità di ri-conoscimento e ri-conoscenza "anche" verso le madri reali. Potremmo dire che come loro le scrittrici ci sono "madri" perché invero ci danno il linguaggio, hanno dato parola prima di noi a contraddizioni desideri potenzialità fondamentali e ci hanno permesso, ci permettono di pensarle.
Oggi, rispetto al Catalogo, sceglieremmo le stesse madri, e porremmo a loro le stesse domande?
E' interessante anche notare come quel paradigma modellante madre-figlia di cui parlavo poc'anzi ha agito nelle riflessioni che hanno dato vita al Catalogo nel configurare il rapporto lettrice-autrice, e come tale modo di avvicinarsi al testo letterario, che volutamente scartava l'approccio critico in senso disciplinare e poneva una relazione di continuità tra letteratura e vita, abbia avuto corso e sviluppo anche tra studiose "professioniste" di letteratura, modificando profondamente il campo disciplinare.
Cito da Scacchi, nel suo saggio introduttivo alla raccolta sopra nominata: "Alle metafore sessuali che strutturano il rapporto del critico con in testo, oggetto da penetrare e sezionare con l'acumen del raziocinio, la critica letteraria femminile oppone metafore che sottolineano la continuità tra lettrice e autrice, la costruzione da parte della figlia di un canale di contatto con la madre letteraria" (p.12).

3. Terza ipotesi. Esplorare la complessa riflessione di Julia Kristeva sulla madre, il materno, la funzione materna: una riflessione centrale alla sua multiforme produzione, e che tiene insieme aspetti corporei e attribuzioni di senso, esperienza soggettiva e ricadute sociali. Al centro, il linguaggio - vero crocevia del percorso composito di Kristeva che tra semiotica e psicoanalisi non smette mai di fare riferimento alla letteratura, o come lei preferisce dire, al linguaggio poetico.
Mi propongo dunque di ripercorrere brevemente alcuni concetti chiave di tale riflessione, segnatamente il binomio "semiotico-simbolico" e l'idea di "chora", per poi cercare di esplorarne in particolare uno - quello di abiezione - appunto in relazione al linguaggio poetico.
Preliminarmente, però, mi pare utile toccare un paio di punti di attrito e dissenso di Kristeva con il "movimento femminista" - tra virgolette perché la sua stessa identificazione gioca un ruolo fondamentale nell'analizzare le critiche che Kristeva muove e a quelle che le vengono mosse. Non è irrilevante infatti che Kristeva da un lato si sia sempre smarcata dalle posizioni di altre pensatrici francesi di primo piano come Cixous o Irigaray (cfr intervista 1987), e dall'altro non conosca affatto il pensiero della differenza italiano.

(a) Denuncia della colpevolizzazione e svalutazione della maternità che Kristeva individua nel pensiero femminista, rifiuto dell'opposizione tra possibilità di piena realizzazione sociale e culturale per donna e adempimento della funzione materna. Costante sottolineatura dell'importanza di "pensare" tale funzione all'interno e contemporaneamente oltre le rappresentazioni date. Così, 1977, "Stabat Mater" [e in altro modo "La maternità in Giovanni Bellini"] mette l'accento sulla necessità di un nuovo discorso sulla maternità rispetto al culto della Vergine Maria, che nella civiltà occidentale è rappresentazione cardine del materno e del femminile in quanto materno. Necessità di elaborare un discorso che sappia dire/far capire desiderio femminile di riproduzione e che sappia rappresentare il godimento materno della gravidanza e insieme porre attenzione al lato oscuro dell'amore. Tipograficamente, in "Stabat Mater" da un lato si dipana un discorso colto sulla venerazione mariana, che analizza i mutamenti nella rappresentazione della Madonna dall'altro corre il resoconto frammentato lirico soggettivo della sua esperienza di gravidanza e maternità. Nel contesto delle lotte sull'aborto, il saggio si apre con l'affermazione che la ricerca femminista di nuova rappresentazione del femminile (o della donna) ha portato a una negazione o rigetto della maternità che ne lascia immutate le rappresentazioni. Rifiuto del quadro concettuale proprio di alcune posizioni femministe "liberal" intrise di egualitarismo, che situavano dibattito su maternità all'interno di una opposizione binaria tra natura e cultura (sex/gender), per Kristeva non poli separati ma necessariamente coesistenti.

(b) L'enfasi sulla singolarità del soggetto parlante, non è interessata alla Donna come categoria filosofica ma sempre a una donna, che entra in relazione con altre donne, con uomini, con bambine e bambini, relazioni che possono avere tratti comuni con quelle esperite da altre/tutte le donne ma che non sono mai esattamente le stesse; di qui la sua posizione critica verso il movimento femminista laddove esso voglia farsi voce delle donne genericamente intese, per una liberazione collettiva che a suo parere rischia di soffocare le singolarità. Parlando della sua trilogia sul genio femminile dice (Repubblica, 28 febbraio 2005): "Con questi saggi ho inteso scostarmi dal femminismo di massa, perché ho il sentimento che i vari movimenti femministi - ce ne sono oggi alcune varianti - hanno tutti lo stesso obiettivo, la liberazione della totalità del genere femminile. E' un prolungamento dei grandi movimenti profetici che hanno seguito la rivoluzione borghese, e che vogliono liberare grandi masse dell' umanità, tutto il proletariato o tutto il terzo mondo e - per il femminismo - tutte le donne. Questo è certo entusiasmante e promettente, ma io penso che il femminismo non può liberare tutte le donne se non si interessa alla libertà di ciascuna. Il femminismo deve prendere il rischio di essere un movimento di gruppo che rende omaggio all' individuo. E' forse un' utopia, ma è votarsi allo scacco non tener conto dell' individualità di ogni donna, rinchiudere tutto in una collettività banalizzata".

(c) Modalità linearmente semplificatoria e implicitamente interna a una logica "del progresso" che per altri versi le è assolutamente estranea, con cui ripetutamente ("Introduzione" alla sua trilogia, in apertura del volume su Hannah Arendt; capitolo conclusivo della medesima, il decimo del volume su Colette, intitolato "Esiste un genio femminile?" e significativamente dedicato a Simone de Beauvoir, molte interviste), delinea tre fasi della "battaglia delle donne per la loro emancipazione" nei tempi moderni. Le tre fasi sarebbero: la rivendicazione dei diritti politici con il suffragismo; l'affermarsi di una uguaglianza ontologica, l'uscita dalla secondarietà di una coscienza sempre trascesa dalla coscienza dell'uomo, con Simone de Beauvoir, appunto; la ricerca della differenza tra i due sessi, sulla scia, lei dice, del maggio '68 e della psicoanalisi. Davvero una semplificazione, che instaura rapporti temporali-causali che non tengono conto della complessità di ogni fase e dell'intreccio continuo che in ciascuna si realizza tra livello sociale e livello simbolico e tra uguaglianza e differenza. Ad esempio il movimento suffragista in Gran Bretagna è contesa sulla rappresentazione non solo nel senso di rivendicazione del diritto di voto, ma di significazione diversa della propria vita e dell'esser donne. Oppure bisogna ricordare come già contemporaneamente al concludersi della "prima fase", senza disconoscere la lotta per il voto sebbene vedendone criticamente i limiti, e sottolineando ripetutamente la centralità dell'elemento economico, Virginia Woolf aveva messo in primo piano la differenza, sia in Una stanza tutta per sé che ne Le tre ghinee. Eppure Woolf né sottovalutava l'esemplarità - al tempo stesso eccezionale e diversamente ripetibile - delle molte donne di cui rintraccia il contributo nella storia, né essenzializza la differenza in riduttive costanti biologiche (si vedano da un lato la sua insistenza sull'esperienza storica delle donne, dall'altro la sua concezione dell'androginia della mente creativa).

Questa lunga premessa apparentemente ci ha portato un po' fuori strada, invece sono questioni che mi sembra importante avere in mente almeno per grandi linee, e che anzi vi sarà motivo di riprendere, nell'andare a vedere i concetti chiave cui accennavo.

Allora. Possiamo forse ripartire dal "soggetto parlante", primo momento di confluenza della formazione linguistico-semiotica di Kristeva con studio e esperienza in campo psicoanalitico; psicoanalisi importante perché privilegia la singolarità del soggetto parlante, di cui mette al centro l'intervento attivo in situazione relazionale, e perché il lavoro del linguaggio raggiunge effetti materiali, di superamento del disagio; cura che presenta costanti ma che non può mai essere identica - non spiega una volta per tutte il disagio, né può configurarsi valida per qualunque soggetto parlante. Soggetto parlante è una sorta di testo, in cui sono iscritte tracce di altri testi e contesti - ricercare il senso all'intersezione di tali tracce, nella relazione sempre mobile che esse istituiscono di volta in volta; questa "sovra-iscrizione" del soggetto non può essere spiegata o eliminata, pena l'eliminazione della stessa soggettività che ne è segnata; per questo Kristeva non crede a possibilità o utilità di ricercare una écriture femminine (Cixous) o un parler-femme (Irigaray) e insiste che bisogna confrontare il sistema socio-simbolico dall'interno e nei suoi termini. Lettura "letterale", poco problematica del lavoro delle due studiose / inoltre - questo "stare dentro" tende a produrre analisi approfondite ma non suggerisce vie di uscita, possibilità di modificazione profonda che è invece presente nella visionarietà di Cixous e Irigaray, loro capacità di "immaginare", creare immagini di differenza. Strano anche che Kristeva non riconosca nel linguaggio di Irigaray e Cixous proprio quella capacità di liberare il pensiero uscendo da quadri concettuali dati che rende a suo parere "rivoluzionario" il linguaggio poetico - linguaggio "materiale" che mette in questione una trasparenza referenziale interna alle convenzioni.
E' un linguaggio che il soggetto parlante è in grado di parlare perché abita allo stesso tempo natura e cultura, è conscio e inconscio, corpo e mente, senza binarismi assoluti e senza fissità mortali; il soggetto è "soggetto in processo" - sempre in cambiamento e sempre messo alla prova - e sempre segnato dal Semiotico anche dopo essere entrato nel Simbolico. Due processi di produzione significante che agiscono nella creazione di senso: in termini lacaniani, nella modalità del Simbolico si ha il linguaggio dell'ordine e della trasparenza, che domina quando si instaura le non/le nom du père attraverso la separazione dalla madre e l'uscita dallo spazio pre-edipico del legame con lei. Ma la memoria di tale spazio non si perde mai e il Semiotico segnala un regno del senso che resiste alla sistematizzazione, un linguaggio pre-linguistico che, represso con più o meno successo dal Simbolico, rimane e riemerge - ad esempio nel linguaggio poetico.
Semiotico e Simbolico non sono riducibili a relazioni con il linguaggio e la cultura riferibili semplicemente al femminile (semiotico) e al maschile (simbolico); definiscono nei loro mutevoli e inevitabili rapporti possibilità di posizionamento non fisse e certamente non legate in modo inalterabile alla biologia. "Queste due modalità sono inseparabili nel processo di significazione che costituisce il linguaggio, e la dialettica tra loro determina il tipo di discorso" (Rivoluzione del linguaggio poetico, 1974). Non si tratta di poli di una opposizione insanabile ma di elementi di un continuum nel processo di creazione di senso, che scorrono uno nell'altro e dunque resistono all'analisi semplificante. La nozione di chòra è centrale a quest'idea di un continuum tra il balbettio apparentemente insensato della prima infanzia o della psicosi, e la supposta trasparenza e razionalità assoluta del Simbolico.
La nozione di chòra è ripresa dal Timeo, in cui Platone propone la sua visione dell'ordine dell'universo, postulando un Demiurgo che forgia l'universo sensibile - molteplice, mutevole, corporeo e mortale - a immagine dell'eterno intelligibile; lo forgia non dal nulla, ma appunto dalla chòra. Termine intraducibile che rifiuta definizione precisa, variamente inteso come sostrato informe primordiale, estensione indeterminata - sorta di materia prima, ricettacolo universale, assolutamente informe e dunque capace di accogliere tutte le forme - spazio chiuso, ventre, madre, nutrice. Figura dalle multiple contraddizioni, che - commenta Derrida - sfida ogni logica binaria di non-contraddizione, in termini linguistici la chòra è comunque una parola che funziona nel regime discorsivo simbolico, ma che lo destabilizza introducendovi la fluidità del semiotico, perché esprime l'idea che può esservi senso senza definizione.
Chòra può anche essere collegato al concetto aristotelico di chorion, la membrana che racchiude il feto nel ventre, segnalando così il limite condiviso dei corpi della madre e del feto; limite che si contrae e si espande con i movimenti e i mutamenti di entrambi i corpi, che sono allo stesso tempo separati e interdipendenti. Questa condizione ambigua di unità e doppiezza, esplorata nei saggi sulla maternità sopra citati, è anche alla base del concetto di abiezione, su cui è incentrato Poteri dell'orrore (1980).

Proprio a partire dalla rivisitazione e elaborazione della nozione freudiana del perturbante come tabù, e rifacendosi a ricerche antropologiche, in primo luogo quelle di Mary Douglas sui concetti di purezza e contaminazione, in Poteri dell'orrore Kristeva individua nell'abiezione - "una delle violente e oscure rivolte dell'essere" (Kristeva 1981, p.3) - appunto l'orrore di non sapere i confini che distinguono il sé dal non sé, un perturbante primario che ipotizza originato dalla fecondità e potenza generativa del corpo materno.
Come l'abiezione, la gravidanza e con essa il periodo prenatale sono fenomeni di confine, spazio-tempo di con/fusione, intreccio corporeo di identità che le vede legate in una relazione vitale (e mortale) ma insieme ne prepara la separazione/distinzione. Spazio-tempo che confonde eppure produce un'identità e un'altra, negando la demarcazione soggetto/oggetto su cui si fonda l'illusoria stabilità dell'essere. Costantemente minacciato dalla fragilità di un confine costruito sul vuoto originario della perdita, il soggetto esperisce nella sensazione di abiezione l'incertezza della sua identità; il rischio - temuto e desiderato - di ricadere in quello spazio-tempo nel quale e uscendo dal quale si è formato ed è venuto all'essere.
Rifiutato, rimosso, espulso, eppure ineluttabilmente presente e dunque sempre da tenere a freno, nella sua fisicità l'abietto segna luoghi corporei che diverrano zone erotogene, in quella tensione/coincidenza tra attrazione e repulsione in cui appunto si inscrive anche - soprattutto - il corpo femminile in quanto corpo materno. Aree di frontiera, marginei - e "tutti i margini sono fonte di pericolo. (…) Ci si dovrebbe aspettare che gli orifizi el corpo simboleggino i suoi punti di speciale vulnerabilità" (Douglas p. 194). Occhi, bocca, naso, ano, genitali. E le loro secrezioni che uscendone "hanno attraversato i confini del corpo": lacrime, saliva, vomito, muco, feci, urina, sperma, sangue mestruale.
Come in "orride escremenziali discariche", nella cultura cattolica della Controriforma queste secrezioni caratterizzano l'inferno post-tridentino, luogo osceno di una carnalità promiscua e caotica; una visione che perdura fino al XIX secolo, come dimostra Piero Camporesi, esplorando nella Casa dell'eternità le immagini e le figurazioni dell'inferno nella letteratura soprattutto italiana. Nell'Ottocento questa visione diventerà nel "sottosuolo gaglioffo" dei sonetti del Belli "quasi una versione tartarea della nascita ex putri", in cui "riemerge il fantasma del gran corpo collettivo dell'umanità, l'arcaica credenza della morte feconda, della morte gravida, anzi levatrice di nuove vite, il senso della continuità morte-vita" (Camporesi 1987, pp.26-27). Una continuità che non diventa però motivo di speranza o di sollievo nell'appartenza al ciclo dell'essere, ma suscita l'orrore della confusione ammorbante e distruttiva del sé, condizione di un non-più-essere imperfetto e improprio.
Imperfetto e improprio come il non-ancora-essere del periodo prenatale, trascorso nello spazio chiuso, rosso e pulsante che è il ventre materno: protezione e soffocamento, Nirvana che nel desiderio del suo ritrovamento ospita la pulsione di morte. Spazio liminale, necessariamente da attraversare per venire al mondo; come in un rito di passaggio, questo limen è ambiguamente connotato, è la non-vita e la non-morte.
Studiando appunto la fase liminale dei riti di passaggio, Victor Turner (1967) nota che il simbolismo ad essa relativo si rifà alla biologia della morte e dei processi dissolutivi e al tempo stesso attinge ai processi della gestazione e del parto; sicché gli stessi simboli - ad esempio la capanna e il tunnel - vengono a significare contemporaneamente il ventre materno e la tomba.
Ma nei riti di passaggio propriamente detti, non vi è ritorno al limen tra il prima e il dopo dell'iniziazione, una volta che il sé sia stato ri-demarcato e ri-definito nei confini del suo nuovo spazio sociale e soggettivo. L'abiezione è invece il ripresentarsi alla coscienza di un'insanabile instabilità del sé, radicale e ripetuta messa in questione dell'integrità del soggetto; e trova rappresentazione nel corpo, nelle sue secrezioni che attraversandolo ne eccedono la forma, nelle sue cavità, fessure, orifizi. Luoghi di espulsione e - come nel caso del cibo - di incorporazione; luoghi di confine, di piacere, di orrore.
Scrive Kristeva: "L'abiezione è anche frontiera ma sopra tutto ambiguità. Perché pur demarcandolo non stacca radicalmente il soggetto da quel che lo minaccia, anzi lo riconosce in un perpetuo pericolo. Ma anche perché l'abiezione è mescolanza di giudizio e di affetto, di condanna e di effusione, di segni e di pulsioni. Dell'arcaismo della relazione preoggettuale, dell'immemorabile violenza con cui un corpo si separa da un altro per essere, l'abiezione serba quella notte in cui si perde il contorno della cosa significata e in cui solo agisce l'affetto imponderabile" (p.11). E ancora: "l'abietto è la violenza del lutto di un 'oggetto' sempre già perduto. [...] Riporta l'io agli abominevoli limiti da cui si è staccato per essere e lo riporta al non io, alla pulsione, alla morte" (p.17).
Nel terrore/desiderio di essere sopraffatti da quel corpo perduto prende dunque forma, una delle sue forme, la sensazione di abiezione, che può iventare tremore e orrore del femminile, delle donne che hanno il potere della generazione. Norman Mailer l'ha detto con chiarezza quando, bizzarramente cercando di "diferendere" Henry Miller (e e stess) dalle critiche di Kate Millett in La politica del sesso, parla "del timore revenziale dell'upmo davanti alla donna, del suo terrore per la posizione di lei, di un passo più vicina all'eternità", e angosciato sottolinea che la donna è "armata (…) del potere che li ha messi al mondo, un potere oltre ogni misura - i primi segni incisi nella memoria rimandano a quella donna tra le cui gambe sono stati concepiti, nutriti, e quasi strangolati nell'ora della nascita" (Mailer 1971, p. 116).
In molte culture l'abiezione viene espressa e tenuta sotto controllo tramite rituali di purificazione. Rituali, poiché l'abietto confina - coincide, dice Kristeva - con il sacro: "Tale l'abiezione - tale il sacro" (p.19). Con gli interdetti per evitare di esserne contaminati, l'abiezione sta alla radice del sacro, dei suoi meccanismi di instaurazione.
Nella nostra cultura è invece la scrittura a essere una delle espressioni dell'abiezione, e uno dei suoi argini. Fuori del sacro, l'abietto si scrive - sostiene Kristeva guardando alle modalità di purificazione dell'abietto, messe a fuoco nel loro estrinsecarsi nelle diverse religioni, da quelle cosiddette primitive o pagane attraverso il monoteismo ebraico fino al cristianesimo. L'esclusione e il tabù, la trasgressione, il peccato; e anche, soprattutto nel nostro tempo, la scrittura, istanza dello "sforzo estetico - discesa nelle fondamenta dell'edificio simbolico - [che] consiste nel rintracciare le fragili frontiere dell'essere parlante, quasi al suo sorgere, presso quella 'origine' senza fondo che è la cosiddetta rimozione originaria" (p.20).
La letteratura come esplorazione dell'abietto, dunque; metaforizzazione della mancanza e della paura perché l'io possa rinascere nei segni. In un secolo segnato dal processo di laicizzazione e insieme percorso dal prepotente riaffermarsi del bisogno di divino, la scrittura, il racconto, diventano "nascondiglio del dolore" (p.161); nella insostenibile oscillazione della frontiera tra soggetto e oggetto, la linearità narrativa si spezza fino al grido di un linguaggio che si apparenta alla violenza e all'oscenità. Le discese agli inferi della scrittura di Céline o di Lispector sono quel cedimento del racconto a un tema-grido che - scrive Kristeva - "quando tende a coincidere con gli stati incandescenti di una soggettività-limite che abbiamo chiamato abiezione, è il tema-grido del dolore-dell'orrore" (p.162).
Inoltrandosi verso gli inferi dell'origine dove morte e vita si incontrano, dove si intrecciano il pericolo e il piacere della perdita di sé, anche nella letteratura la sensazione dell'abiezione prende corpo attraverso il corpo femminile/materno. Già significata nelle religioni e nei miti, reinterrogata dal sapere psicoanalitico, la madre, il materno, sono figura privilegiata dell'inestricabile prossimità di vita e morte al centro della costruzione simbolica.
Templi di Catal Huyuk, in Turchia, la dea madre è spesso rappresentata nella postura fisica del parto. Uno tutto rosso - pavimenti e pareti, come l'interno di un ventre - dove pare donne andassero a partorire (cfr Mellaart 1967). Altro con avvoltoi rosso sangue su fondo rosa che volteggiano ad ali spiegate su figurine a braccia levate, saluto della dea in questa manifestazione; gesto di adorazione e fiducia nei suoi poteri di rigenerazione malgrado la prossimità alla morte. Avvoltoio nutrendosi di cadaveri trasforma ciò che era morto in nuovamente vivo, cominciando un nuovo ciclo nell'assimilare la fine del vecchio: dea della morte e dea della vita sono inseparabili (Baring e Cashford 1991, pp. 87-88).
Tutte le grandi dee delle antiche religioni orientali sono caratterizzate da questo duplice potere, a volte comprendendolo appieno, a volte articolandosi per meglio significarlo in una unità multiforme. Trasmigrando e trasformandosi, il loro culto permane, più o meno integro o riconoscibile solo in alcuni elementi, anche in ambiente ebraico e poi nel mondo greco e romano, fino a segnare secondo alcune interpretazioni anche la figura femminile centrale del cristianesimo, Maria sposa e madre di dio.
Molte discendono agli inferi, spesso - in versioni relativamente più tarde, come nel caso di Ishtar e di Isis - per cercare e riportare in vita il figlio-amante. Invece nella "Discesa di Inanna nel mondo sotterraneo", a tutte precedente, la dea intraprende il viaggio fatale come per una scelta conoscitiva, accettando per questo la provvisoria rinuncia ai poteri divini. Inanna si avventura nel buio regno della sorella Ereshkigal togliendosi di volta in volta le insegne della regalità al passaggio dei sette cancelli del mondo sotterraneo; per tre giorni resterà prigioniera in un sonno di morte, finché la sua fedele compagna Ninshubur otterrà che il dio della saggezza Enki invii due messaggeri a liberarla. Tornata al cielo di cui è regina, stella del mattino e della sera, signora della fertilità e della distruzione, Inanna deve mandere chi la sostituisca; volendo risparmiare sia i figli che Ninshubur, invierà negli inferi lo sposo Dummuzi, che è dunque in questa versione non salvato ma sacrificato.
Ci porterebbe troppo lontano analizzare a fondo questo mito nelle sue connessioni con altre narrazioni religiose - quelle già nominate di Ishtar e Isis, quella di Demetra, quella di Cibele - anche nel possibile legame con il racconto cristiano della passione. Converrà dunque limitarsi a pochi cenni, procedere per analogie e focalizzazioni di elementi significativi per una riflessione su quella diffusa "convenzione culturale secondo cui il dono materno della nascita è anche dono di morte", sicché la donna, la madre, è "tropo privilegiato della stranezza perturbante di unità e perdita, identità indipendente e autodissoluzione, piacere del corpo e suo decadimento" (Bronfen 1992a, p.56). E a partire da questo, guardare brevemente ad alcuni racconti di discesa agli inferi, distanti nel tempo, nello spazio, nel contesto di appartenenza, come racconti che in modi diversi parlano pur sempre della nascita, dunque della potenza materna, metaforizzandone la bellezza e la paura.
Celebrata in prossimità dell'equinozio di primavera, la festa della dea frigia Cibele ricordava l'autocastrazione, morte e resurrezione del figlio-amante Attis, e la Pasqua, volontaria consegna alla morte e discesa agli inferi di Cristo, può essere vista come una versione del tema dell'accoppiamento sacrificale. L'inferno, nella visione dell'inconscio collettivo patriarcale, è allora il temuto aspetto femminile: la madre - la dea - nel cui corpo si prepara la nascita, dentro cui viene gettato il dio sacrificato come necessario preludio alla ri/nascita.
Davvero infernale - e materno - è lo scenario del sacrificio che nella Passione della nuova Eva di Angela Carter precede la ri/nascita in corpo di donna del protagonista Evelyn (Evandro nella versione italiana), imprigionato nel regno sotterraneo della grande Madre. "Mostro sacro", "personificazione di una fertilità bastante a se stessa" (Carter 1982, p.60), la Madre è una delle figure della sessualità e dell'eccesso attraverso cui Carter costruisce il percorso allegorico della Passione: la sua staticità monumentale e austera assume caratteri grotteschi nell'irruzione dell'animalità - la doppia fila di "mammelle da scrofa" - facendo tornare alla mente anche il commento di Bakhtin sull'ambivalenza delle statuette Kerch di vecchie incinta, rappresentazioni di una morte gravida, una morte che dà la vita.
Impregnata di quell'angoscia e repulsione che spesso i processi biologici della riproduzione evocano, la Madre di Carter ben può iscriversi nella "retorica dell'abiezione" che in Poteri dell'orrore Kristeva rintraccia nei testi di Céline. Racconto convulso e sconnesso, discesa agli inferi che nella trilogia sulla seconda guerra mondiale (D'un chateau l'autre, Paris, 1957; Nord, Paris, 1963; Rigodon, Paris, 1969) si trasforma in visione apocalittica, la scrittura violenta e oscena di Céline è intessuta di abiezione, esplode in immagini di putrefazione, deiezione, vomito, trova nella nascita e nel materno la rivelazione ultima - desiderio e negazione.
Riferendosi in particolare a Rigodon, ma soprattutto proseguendo e coagulando la sua riflessione sui "poteri dell'orrore" in un passaggio incandescente che sembra quasi mutuare le modalità del linguaggio céliniano, Kristeva scrive: "Quando situa il colmo dell'abiezione [...] nella scena del parto, Céline rende ampiamente esplicito il fantasma di cui si tratta: un orrore da vedere alle porte impossibili dell'invisibile che è il corpo della madre. La scena delle scene qui non è la cosiddetta scena primaria ma quella del parto, incesto a rovescio, identità scorticata. Il parto: culmine della carneficina e della vita, punto bruciante dell'esitazione (dentro/fuori, io/altro, vita/morte), orrore e bellezza, sessualità e brutale negazione del sessuale.[...] Alle porte del femminile, alle porte dell'abiezione" (pp. 176-77).
Il sangue colora la scena; il femminile è il segreto definitivo, conquista e annichilimento. Così avviene anche nel regno della Madre del romanzo di Carter, dove nel mondo sotterraneo di Beulah, terra di pace e gioia del Pilgrim's Progress trasformata in una stazione della passione, in una stanza chiusa da rosse mura (ricordate il tempio della dea a Çatal Hüyük?), Evelyn ascolta terrorizzato il ritornello rimbombante che sempre più forte gli risuona nelle orecchie.
"... altre voci femminili intonavano il ritornello: ORA TI TROVI NEL LUOGO DELLA NASCITA, ORA TI TROVI NEL LUOGO DELLA NASCITA [...] Capii allora che il luogo caldo e rosso in cui giacevo era il simulacro del grembo materno" (p.54).
"Perché è in questa stanza che si trova il cuore delle tenebre. E' lei è la meta di ogni uomo, il silenzio inaccessibile, l'oscurità che brilla, sempre irraggiungibile, la porta chiamata orgasmo che gli si chiude in faccia, che si chiude sul Nirvana del non-essere e sparisce nell'attimo stesso in cui si lascia intravedere. Lei, questa creatura del buio, questa morte carnale, al di là del tempo, al di là dell'immaginazione, sempre appena al di là, appena oltre la mano leggera dello spirito, questa morte che in eterno sfugge, che mi libererà dall'essere, mi trasformerà in altro e che, così facendo, mi annienterà" (p.60).
Portato all'estremo dell'oscillazione tra i sessi e del loro attraversamento, si ripropone - in questa scena di ri/nascita che insieme nomina la morte - il sentimento angoscioso dell'offuscarsi o perdersi del confine del sé. Evelyn diventerà Eva, e nell'esperire a fondo l'altro (l'altra) da sé potrà superare l'abiezione del materno e disporsi a sua volta a divenire madre in un mondo che si può, si vuole pensare non più dominato dall'Uno. Nel gioco dell'eccesso, l'"abiezione" della Grande Madre è insieme rappresentazione, critica, superamento dell'esistente; figura negativa di un femminile tutto centrato sulla funzione riproduttiva, frase di un discorso mistificante che etichetta e mutila, espressione di un potere imprigionato in rappresentazioni parziali che aspirano all'universalità, pure è attraverso lei, passando nell'inferno uterino del suo regno, che la nuova Eva può nascere, e incontrare provandola sul proprio corpo una conoscenza che sorpassi quelle arroganti e misere parzialità.
A Carter non piacevano i miti, che definiva "sciocchezze consolatorie" (Carter 1979) e nella Passione riserva alla grande Madre una fine ingloriosa, rintanata in una caverna con un crollo nervoso.Non le piaceva l'uso che dei miti si è spesso fatto - per quanto riguarda le donne proprio di quello della dea madre - per ricercarvi il conforto illusorio di una passata grandezza. Ovviamente, non è questo il motivo per cui se ne parla qui; ma, si è già detto, per rintracciarvi elementi che sono stati ripresi e però anche modificati nella costruzione simbolica patriarcale, in cui l'intreccio vita-morte non ha certo un ruolo secondario.
Torniamo dunque al viaggio nel mondo sotterraneo di Inanna, per sottolineare le molte immagini di rigenerazione presenti nel poema; Ereshkigal, sorella e alter-ego della dea, sta partorendo quando giungono i messaggeri di Enki. Ed è a Inanna che dà, rende, la vita, dopo che questa - che pure è dea della vita - ha accettato il passaggio nella morte, scendendo nelle sue stesse profondità per riunirsi ai suoi aspetti sotterranei. La sua esperienza della dimensione ignota e paurosa degli inferi drammatizza l'iniziazione alla consapevolezza, terribile e rassicurante, che la morte è aspetto essenziale della vita; come la vita iscritta nella potenza materna della generazione, che entrambe le comprende - garante, laddove lo voglia, di una continuità che sorpassa la singola vita come la singola morte.
In altro modo la stessa consapevolezza, terribile e rassicurante, è stata letta nel mito di Demetra, che nella forza della relazione tra la dea e la figlia Kore, sottrattale dal dio infernale Ade, mette a tema la "potenza materna inscritta nell'intera natura: potenza di generare ma anche di non generare, ossia potenza assoluta che custodisce il luogo umano del venire al mondo ma anche il nulla come il non più della nascita, la fine del continuum materno e simbolicamente del mondo" (Cavarero 1991, p.61). E' il non più della nascita - diverso dal non ancora, o dal non più, della singola vita - che fa assoluta questa potenza; fulcro dell'essere al di là del singolo essere.
Più oltre, all'interno della sua rivisitazione della figura di Diotima, Cavarero riprende il concetto di continuum vitale a proposito di La passione secondo G.H. di Clarice Lispector; narrazione esperienziale e trascendente, di G.H, di Lispector, di tutte e di ognuno, che certamente possiamo chiamare una discesa agli inferi. Con lei entriamo "nell'inferno della materia viva", "inferno di vita cruda; [...] campione di calmo orrore vivo". (Lispector 1982, pp. 52 e 53) verso il raggiungimento del nulla, nella stanza "deserta e pertanto primariamente viva" - "e il nulla era vivo e umido" (p.54). Soffre e gode G.H. nella passione della conoscenza che la guida verso e oltre l'annullamento e in cui vita e orrore le si rivelano insieme. E come la blatta la cui unica "differenza di vita è che doveva essere maschio o femmina" (p.84), il nulla le si presenta "vivo e umido" in quella stanza della domestica che è "il ventre" dell'edificio (p. 29).
O, rifacendoci ancora una volta a Kristeva, possiamo vedere nella Passione di Lipector un tema-griso del dolore, esempio di letteratura dell'abiezione. Scritta dopo un aborto, vita e morte, ne porta il segno diventando, dice Braidotti "come un rituale di depurazione della memoria dalle tracce dell'incontro con la materia organica che vi è o può esservi all'interno del corpo femminile."
La Passione è un testo che molte hanno amato e interrogato, di cui molte hanno scritto: Braidotti, Cavarero, Cixous, Muraro..., offrendo riflessioni suggestive e assai pertinenti alla questione discussa qui. E' un testo di passione appunto, patimento e estasi della scoperta di una voce "venuta [...] da molto lontano", che "scriveva a nessuno, a tutte, alla scrittura", insegnandoci a "essere contemporanee di una rosa viva, e di un campo di concentramento" (Cixous 1979, p.11 e p.101). Insegnandoci ad accettare insieme la vita e la morte come costituenti dell'esperienza umana - e dell'esperienza femminile della maternità; ad accettarle positivamente.
E' evidente in Lispector la diversità di esito rispetto all'abiezione del materno in Céline, e anche rispetto alla teorizzazione dell'abiezione proposta da Kristeva; affascinante e profonda analisi dello "stato della questione", il discorso di Kristeva resta all'interno dell'ordine simbolico dato, di cui mette in luce - ma non davvero in questione - la centralità orrorifica della figura della madre, della donna in quanto corpo (potenzialmente) materno. Tanto che alla donna viene negata una soggettività attiva nel processo di generazione; non è soggetto della gravidanza ma soggetta alle sue operazioni biologiche - moltiplicarsi, frammentarsi, confondersi che la trapassano e la travolgono. "Le cellule si fondono, si scindono, proliferano; i volumi crescono, i tessuti si estendono, i fluidi cambiano ritmo, accelerano, rallentano. In un corpo si innesta, indomabile, un altro. E non c'è nessuno, in quello spazio duale e alieno, a significare quel che avviene. 'Avviene, ma io non ci sono', 'Non posso pensarlo, ma succede'. Impossibile sillogismo della maternità" (Bellini)
Momento di abiezione nell'esperienza e nel ricordo, cosciente o inconscio, la gravidanza, il periodo prenatale, la nascita, sono analizzati in Poteri dell'orrore come perturbanti portatori di pericolo; minacciosamente vi si annidano la morte e la pulsione di morte. Questa sensazione è presente, macon effetti assai diversi, anche nel percorso doloroso di G.H., rituale sacrificale di un viaggio oltre il sé e dentro le origini, dentro il femminile; ripensiamo a Inanna e a Demetra, ma anche a Evelyn - e a Cristo. Secondo Luisa Muraro, l'esperienza che G.H. narra può invero essere definita un itinerario religioso, l'aprirsi di un orizzonte divino, anche se "non c'è religione di questo, non è necessaria" (Muraro 1987, p.67); e la figura di questo itinerario, movimento verticale che si accompagna a un ampliamento orizzontale, è la corce. Il testo è organizzato in 33 sezioni (anni di cristo) e presenta riferimenti numerosi e identificabili alla passione di Cristo, a partire dal titolo che già offre un segnale chiaro (come per Carter), fino all'affermazione esplicita che "La condizione umana è la passione di Cristo" (p.160).
L'accettazione del nulla non porta G.H. alla disperazione ma a una rinnovata consapevolezza della pervasività della vita, all'adorazione della vita in lei che non ha il suo nome. E' riconoscimento della natura finita e insieme infinita dell'essere, già significata quando "il primo grido, nascendo, scatena una vita" (Lispector 1982, p.56) perché, commenta Muraro (1987, p.68), "lo spontaneo saliscendi della vita non ci appartiene".
Varcando una serie di soglie del sé, come spogliandosi di definizioni/difese/poteri - non è forse simile a Inanna, in questo "processo [di] immersione nelle profondità del suo stesso sé" (Braidotti 1993, p.94)? - G.H. celebra il "sacramento" della differenza che nell'incontro con la blatta trova la sua materia, giungendo alla piena assunzione dell'abietto come luogo della trascendenza e della vita.
Céline al contrario si ubriaca di morte - "La verità di questo mondo è la morte" (Viaggio al termine della notte, 1978, p.7) - e nella curiosità appassionata della nascita rabbrividisce d'orrore; per lui la madre, figura di accudimento e trasmettitrice di parola e di bellezza, è però colpevole nel dare la vita, in quanto nel momento stesso del suo inizio inizia anche il percorso verso l'annientamento - "Ha fatto tutto, lei, per farmi campare, è il nascere che non ci voleva" (Morte a credito 1964, p.40). Angoscia di una vita finita dominata dalla morte, che viene incarnata nel corpo femminile, ossimoro di generazione e annientamento: "Queste femmine guastano ogni infinito" grido tormentato sempre in Morte a credito (Céline 1964, p.30).
Tutt'altra è in Lispector la relazione con la morte "singolare" nel riconoscimento di un articolarsi della vita che è sia zoe che bios. Come scrive Kerényi, "Zoe è il filo a cui sono appese come perle tutte le singole bios individuali, e che in contrasto con bios può essere concepita come senza fine" (Kerényi 1992, p.20), come vita infinita. Nell'itinerio della passione, percorso di spersonalizzazione verso il "tessuto proibito della vita" (Lispector 1982, p.9), "la morte non è che un accadimento esperito dal singolo vivente nel suo transitare alla vita infinita e impersonale" (Cavarero 1991, p.117). Quello di G.H. è un percorso di immersione nella zoe, accettazione e superamento al tempo stesso della finitezza e dell'ambiguità, attraversamento progressivo di soglie del sé in cui il soggetto incontra l'abietto e incontrandolo rinasce anche nella morte.
L'"inferno" del materno, il suo fascino e il suo orrore, non scompaiono, ma vengono reinterpretati come trascendenza radicata nel corpo femminile; faticosa verità dell'essere che può nella singolarità di ognuna e ognuno - differentemente - rimanere perturbante. Perché quando si fa della morte la misura di una vita che è solo bios, non si può riconoscere positivamente quella origine di potenza femminile in cui la morte cambia (o forse acquista) senso. Mentre guardando indietro alla catena di generazione - ai "quindici milioni di figlie, da allora fino a lei" - G.H. può dire: "io ero sempre stata in vita, poco importa se non propriamente io, non la cosa che ho deciso di chiamare convenzionalmente io. Io ero sempre stata in vita" (Lispector 1982, pag. 58).