Libreria delle donne di Milano

Circolo della Rosa,
13 luglio 2004

L'INFORMAZIONE AL TEMPO DELLA GUERRA. L'IRAQ VISTO DA GIULIANA SGRENA
Redazione del testo a cura di Serena Fuart

Il conflitto armato in Medio Oriente. Le notizie e la difficoltà di reperirle da televisioni e giornali. La complicata situazione irachena vista dalla parte dell'esperienza quotidiana.
Su queste tematiche, martedì 13 luglio, si è discusso alla Libreria delle Donne con Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto ed autrice de Il fronte Iraq. Diario di una guerra permanante (Manifestolibri, 2004).
L'incontro curato e presentato da Clelia Pallotta e Ida Farè è stata anche un'occasione per presentare l'ultima pubblicazione di Giuliana, un libro che cerca di dar voce e trovare parole altre da quelle dell'informazione neutralizzante, astratta e poco coinvolgente sugli eventi di guerra di questo momento.


Il libro di Giuliana Sgrena ha, tra gli altri, l'inestimabile pregio di coinvolgere il lettore e di emozionarlo. Evita di parlare di guerra in maniera astratta ed estranea ma la racconta attraverso esperienze di persone che la guerra la vivono. I suoi racconti risultano lenitivi - dice Clelia Pallotta presentando l'ospite - non consolatori ma lenitivi: sono uno sguardo, un modo di vedere quello che accade. Riescono ad attenuare il senso di estraneità impotente e faticosa che la guerra, e tutto questo discorso intorno ai poteri, provocano in me. Lenitivi perchè mi rimandano a un mondo fatto di persone, di donne, bambini.
L'informazione della maggior parte dei media è estraniante, astratta: fornisce numeri di morti e feriti, annuncia prossime esecuzioni. Raccoglie insomma una monotonia di eventi terribili con il risultato di creare uno stato di assuefazione all'orrore. Sentimenti come compassione e coinvolgimento lasciano spazio ad un atteggiamento di indifferenza.
Le parole di Giuliana mi danno un senso - dice ancora Clelia. Quelle dei media sono neutralizzate, dopo un po' di tempo diventano contenitori vuoti che mi zittiscono, si zittiscono, zittiscono il senso delle cose. Il libro di Giuliana comunica un'emozione che passa nelle parole usate per dire le cose che vede. Nonostante le numerose esperienze in territori di guerra nei suoi scritti non c'è assuefazione. Conserva la capacità di stupirsi e di rimanere incredula davanti ai fatti che vede, pratica 'un'innocenza' che, insieme alla sua profonda conoscenza dei luoghi e dei fatti che racconta, porta emozione, empatia e informazioni non neutralizzate .

Sulla scia di queste considerazioni, Ida Farè, fa notare la straordinaria presenza femminile, nel corso dell'anno appena passato, sui media. Sembrava che la guerra richiedesse volti femminili per essere raccontata e detta, come se questo attenuasse la sua crudeltà e la sua assurdità. Le inviate speciali - dice Ida - come Lilli Gruber o Giovanna Botteri, pur dentro all'inquadramento normalizzato e normalizzante delle parole, qualcosa in più hanno detto, qualche frammento di verità è stato comunicato. Il libro di Giuliana Sgrena, continua Ida, è invece ancora di più, è un libro in cui le parole riescono a rimanere vicine alle cose. Il testo si compone di due parti: il diario in cui si parla della vita quotidiana, dell'avvicinarsi della catastrofe e una sezione dedicata a piccoli saggi di informazione su diversi temi. Il diario è molto forte ed emozionante - dice ancora Ida - perchè ci parla del prima, del durante e del dopo questa guerra che arriva, distrugge e lascia segni profondi. Giuliana notava che mentre nell'informazione corrente dei media si ragiona 'sopra' la guerra, discutendo se sia giusta o no, necessaria o democratica, il punto di vista del diario è un altro: non 'sopra' gli eventi ma 'dentro'. Si parla di questioni materiali come la mancanza di acqua, luce, telefono, delle case bombardate, di feriti e morti, della paura dei bambini e dei civili. Una delle due questioni che Ida pone riguarda l'oggettività dell'informazione. Esiste un'informazione oggettiva?
Lasciata da parte ogni ideologia e appartenenza, come fa Giuliana, con la mente libera e a partire da sé, raccontando quello che i suoi occhi hanno visto, che la sua mente ha capito, tutto quello che il suo cuore ha sentito, trovo una risposta al quesito, trovo una sintesi tra soggettivo e oggettivo.
Ida pone poi un'altra questione. Il femminile e il maschile nelle professioni. Alcuni sostengono che non esiste un contenuto femminile in certi lavori. Alcune fotogiornaliste nel corso di un incontro sul lavoro tenutosi in Libreria, sostenevano che la guerra è sempre guerra a prescindere da chi la racconti. Certo la guerra è sempre la guerra - dice Ida -, però negli scritti di Giuliana riconosco la qualità libera del suo sguardo, che non ha sovrastrutture ideologiche, dove la parola ritorna ad essere vicina alle cose che nomina. In questo riconosco un tratto femminile. Un tratto femminile nel procedimento con cui racconta le cose: dal quotidiano verso i grandi problemi.
Sul tema delle inviate Giuliana Sgrena conferma che durante quest'ultimo conflitto ci sono state moltissime giornaliste televisive inviate sui luoghi. Ci tiene a sottolineare però che lei è un'inviata di carta stampata. In questa categoria sono poche le donne inviate, sempre meno e questo è un dato preoccupante. E' un quesito che ci siamo poste, dice, perchè tante inviate per le testate giornalistiche televisive? Forse per rendere visivamente più accettabile la guerra. Tuttavia, precisa, se davanti alla telecamera c'era una donna, nella quasi totalità dei casi, dietro l'operatore era maschio, perchè tutti gli operatori delle televisoni sono maschi. Comunque le giornaliste non fanno riprese, perché impegnate continuamente con i collegamenti. Giuliana racconta invece di essersi mossa spesso con l'operatore del TG1. Sulla questione del perché ci siano poche inviate della carta stampata, Giuliana riferisce che i giornalisti dei quotidiani descrivono scenari di guerra. Nella maggior parte dei casi però scrivono senza aver visto. Si limitano ad immaginare e ricorrono alle notizie delle agenzie.
Giuliana spiega che questo potrebbe essere un compito difficile per le donne. Lei ad esempio non lo fa e ha preso accordi per scrivere solo quello di cui ha avuto esperienza diretta, ritenendo inutile fare diversamente. "Devo dire che in quel periodo in Iraq, dice, sia noi che gli iracheni vivevamo la guerra da un punto di vista simile: non eravamo alleati con gli americani. Vedevamo la guerra tutti i giorni, la luce e l'acqua mancavano anche per noi e la gente ci viveva come partecipanti. Il fatto che noi raccontassimo le loro ansie, paure, speranze ci rendeva vicini e simili a loro. Si sentiva molta solidarietà, anche in albergo. Adesso non è più così. Negli ultimi tempi tutti sono considerati occupanti".
Sul tema dell'oggettività dell'informazione Giuliana ha le idee chiare: non pensa che esista un'informazione oggettiva, ma che però ci sono diversi approcci e modi di farla.
Comunque lei ha imparato a non avere certezze prima d'aver visto.
C'è sempre un'evoluzione - dice. Ogni volta che vado in quei luoghi trovo qualcosa di diverso, di cambiato. Ho toccato con mano il dolore, la stanchezza della gente a vivere in mezzo alla violenza, senza acqua, senza luce e spesso senza cibo.
Come esempio delle drammatiche evoluzioni del conflitto Giuliana sceglie di raccontare di Falluja.
E' ormai un posto isolato. Sta a 50 km da Bagdad. E' una città molto conservatrice, non ci sono cinema, gli alcolici sono proibiti e le donne sono velate da molto più tempo rispetto ad altri luoghi. Si trova sulla strada per Bagdad: ci sono quindi commerci, trasporti, costruzioni, girano insomma parecchi soldi. Inizialmente non si è combattutto l'arrivo degli americani preferendo seguire una via diplomatica. Il patto era di non cambiate il loro modo di vivere in cambio della pacifica permanenza del governo alleato. Nonostante tutto però gli americani hanno occupato una scuola. La protesta degli abitanti che ne è seguita è stata repressa nel sangue: 16 morti. Da lì è iniziata la rivolta e Falluja è diventata il simbolo della resistenza. Dopo di che la situazione si è ulteriormente modificata. Poiché a gestire la resistenza c'erano da una parte gli ex sostenitori di Saddam, poi i nazionalisti con il mito del partito laico progressista e gli Immam con le moschee come pulpiti contro l'occupazione e con le loro basi logistiche per fare armi. Tra gli islamisti ci sono gruppi più moderati e gruppi più fanatici. Questi ultimi hanno approfittato della situazione per accogliere combattenti da tutto il mondo arabo e non solo e non tanto per lottare contro l'occupazione ma per fare scontro con l'occidente. Giuliana parla poi della questione degli ostaggi. Dato il basso tasso d'occupazione in Iraq non è stato difficile reperire 'manovalanza' per operare i rapimenti. Comunque Falluja è off limits, non ci vanno più neanche gli iracheni. C'è il timore che chi viene da fuori sia una spia. Hanno ucciso quattro americani e allora questi hanno deciso la grande offensiva contro la città, tenuta sotto assedio per quattro mesi con migliaia di morti. A questo punto, racconta ancora Giuliana, gli americani hanno pensato che forse avevano sbagliato a mettere fuori legge il partito BAT e a sciogliere l'esercito. Per rimediare hanno recuperato alcuni comandanti, generali e li hanno messi al controllo di Falluja insieme alla polizia. Ora gli americani non entrano più a Falluja ma la bombardano. La causa di questa scelta risiede in un presunto legame tra questa città e Al Queda e Bin Laden. Intanto vari gruppi gestiscono questa situazione con una fortissima componente religiosa, molto radicale e fanatica. Stanno imponendo la legge coranica ma in un modo molto drastico: le donne non hanno più alcuna libertà, prima l'alcool non era venduto ma ora se si viene sorpresi a berlo si rischia la morte. Questo ha prodotto la situazione - dice ancora Giuliana - e questo terrorizza anche gli abitanti di Falluja, pur essendo religiosi e conservatori non sono così estremisiti. Uno dei rischi è la disgregazione del territorio.

Le donne
Clelia fa notare che nei servizi televisivi all'inizio dell'invasione, le presenze femminili erano numerose ma progressivamente sono scomparse. Per contro sono emerse figure di soldatesse e di torturatrici. Si chiede a Giuliana, che ha incontrato molte donne impegnate dal punto di vista politico, perché non compaiano più sulla scena. Durante il regime, racconta Giuliana, c'erano molte donne a tutti i livelli della vita sociale e politica del Paese, anche, e questo non è un vanto, nei consigli di guerra. Molte presenze femminili inoltre nelle professioni. Giuliana parla anche di un'organizzazione di donne molto attiva all'interno del partito BAT. Altri gruppi meno in vista erano molto attivi negli aiuti umanitarie, nelle questioni politiche e nella rivendicazione dei diritti. Dopo la caduta di Saddam alcune hanno ottenuto delle sedi, altre sono invece sparite. Ora si stanno riorganizzando, tuttavia la sede della Federezione delle Donne Irachene è adesso una base della polizia. Perché non si vedono nelle strade? Il motivo sta nel dilagare della violenza contro di loro: una bambina su due non va più a scuola per timore che venga rapita o stuprata. La violenza sessuale è inoltre difficile da denuciare perché la polizia non dà credito. Inoltre una donna stuprata rappresenta un'onta per la famiglia. C'è la minaccia degli islamisti. La loro presenza al potere è aumentata grazie al fatto che, nella confusione e nel degrado generale, hanno avuto possibilità di insinuarsi senza troppo disturbo.
Si chiede a Giuliana dei possibili legami tra movimento religioso ed Iran. Esiste un aggancio cosìcchè possano unirsi e imporre la loro ideologia in Iraq?
La guerra è stata devastante sia per l'Afghanistan che per l'Iraq, anche se in quest'ultimo paese è stata molto più massiccia, spiega Giuliana. Il risultato è che l'Afghanistan è ancora uno stato islamico come era prima, l'Iraq rischia di diventarlo. E da questo di può capire quello che rappresenta la situazione per la condizione delle donne: in Afghansitan le donne avevano il burka, ce l'hanno ancora e la loro situazione non è molto migliorata. Poche hanno tolto il burka, alcuni diritti sono stati formalmente concessi, ci sono però molti casi recenti di suicidio di donne e sono molto diffusi i matrimoni imposti e altri tipi di violenze. Anche in Iraq la situazione non è migliore. Sotto il regime di Saddam i diritti delle donne erano garantiti, c'era un codice di famiglia tra i più progressisti del mondo islamico, che cercava, tra le altre cose, di limitare la poligamia.
L'influenza dell'Iran è molto forte nella zona sciita, dove è di conseguenza molto forte anche la tendenza e la pressione ad andare verso uno stato islamico. Il 60% della popolazione è sciita, il 40 è sunnita. Tra quelli che vogliono uno stato islamico gli sciiti fanno riferimento a Theran, i sunniti all'Arabia Saudita. Giuliana racconta che finito il Ramadan, la festa che lo segue inizia in giorni diversi per le due fazioni. Comunque nelle sedi dei partiti sciiti ci sono molti iraniani, questi hanno molto interesse a controllare la comunità sciita in Iraq che pure in passato ha avuto una forte componente patriottica. Negli otto anni di guerra contro l'Iran, Saddam aveva inviato molti sciiti a combattere e nel fare ciò avevano dovuto per forza recuperare uno spirito patriottico.
Altro elemento preoccupante è la disoccupazione: viene stimata intorno all'85% della popolazione. Aggiungendo le donne casalinghe in cerca di occupazione la percentuale aumenta ancora.
Prima della guerra il 60% della popolazione sopravviveva grazie alla 'Oil for food', la risoluzione dell'Onu approvata nel 1995 ed entrata in vigore nel 1996. Questa permetteva all'Iraq di vendere petrolio per importare cibo e medicinali. Le provviste venivano distribuite in parti uguali a tutta la popolazione. I più abbienti vendevano le razioni agli altri. Alcuni proventi di questo progetto sono stati intascati dagli americani; la risoluzione formalmente è comunque ancora in vigore, anche se data la situazione la distribuzione degli aiuti è difficile e meno frequente.
Un altro problema riguarda i rapimenti. Ce ne sono moltissimi. Ho intervistato un ragazzo - racconta Giuliana - che era stato rapito. Verso le 21.30 mi ha consigliato di andarmene, perché, mi ha detto, quasi in tutte le case c'era stato un sequestro. Se poi rapiscono un occidentale credono di guadagnare di più. I gruppi di sequestratori hanno messo per le strade dei dossi. Le macchine così rallentano e loro possono vedere chi c'è dentro. C'è addirittura un'associazione di difesa dei diritti dei rapiti con poliziotti dotati di satellitari che contrattano per il riscatto. C'è chi non possiede nulla, ma ci sono anche commercianti e i rapitori questo lo sanno. Il ragazzo che avevo intervistato era stato sequestrato perché il padre aveva un'officina e si pensava avesse ricavato i soldi per aprirla ed avviarla dalla vendita di alcune macchine rubate ai figli di Saddam dopo la sua caduta. C'è anche il commercio dei generatori di corrente, spiega Giuliana. In un paese dove non c'è elettricità se non per poche ore al giorno, questi strumenti vanno a ruba anche se magari non si possiede il combustibile per azionarli. L'Iraq infatti, pur galleggiando sul petrolio, non mette più a disposizone la benzina al costo ufficiale dei tempi di Saddam: ce n'è poca e viene venduta a targhe alterne. Si usa il cherosene, altamente infiammabile, con gravi casi di ustioni, perchè non si è abituati ad usarlo.

Le organizzazioni non governative
Ce ne sono tante, spiega Giuliana, però per molte il lavoro è limitato. Gli occidentali sono considerati tutti alla stessa stregua, collaborazionisti e così anche chi lavora in Iraq per l'Iraq. La maggior parte delle organizzazioni italiane alla vigilia della guerra avevano dichiarato di essere contro la risoluzione del governo e rifiutavano i finanziamenti di tutti gli Stati che sostenevano la guerra, tra cui anche l'Italia. Ora la situazione sembra migliorata ma non è ancora semplice.

Altri interventi
Un parteciante all'incontro riprende il tema dell'informazione e dell'assuefazione, propone di riflettere sul livello di acculturamento dei nostri giornalisti quando scrivono sull'Iraq. Chiederei - dice - maggiori informazioni e creatività per creare un network di informazioni più approfondite e più chiare, più precise, più vere.
Giuliana risponde che molto spesso chi fa informazione segue la linea dell'editore. Nella sua esperienza ammette di scontrarsi spesso all'interno del suo giornale a causa delle sue posizioni, ad esempio rispetto all'islamismo.
Non giustifico il terrorismo, posso capirne le ragioni ma non posso condividerlo, dice Giuliana. Posso immaginare la disperazione dei kamikaze ma non posso essere complice. C'è chi giustificandola ritiene che quella sia una reazione giusta o inevitabile all'occupazione. Questo mortifica chi adotta altre forme di resistenza (in Iraq e Palestina ce ne sono molte) e quando faccio il mio lavoro cerco di dare spazio a queste. La stampa di fatto le ignora perchè non trattandosi di sangue e di morti sono notizie senza appeal. Chi parla più dell'Algeria? Lì non ammazzano più.
Per quanto riguarda il suo livello di informazione sulla cultura islamica racconta che un tempo aveva una posizione di relativismo culturale. Dal confronto con amiche algerine ha adottato un nuovo modo di porsi: capire, analizzare ma non giustificare.
Su questo ultimo punto interviene Luisa Muraro dicendo di trovare molto difficile, impraticabile quello che Giuliana ha appreso dalle amiche algerine. Riconosce quanto Giuliana sia dedita alla conoscenza approfondita, al contatto e all'ascolto di quelle culture. Ha un'indubbia vicinanza e competenza che qualificano quello che scrive. Tuttavia, secondo Luisa, ci sono distanze, che, pur con queste qualità, non si lasciano colmare. Pratico un distacco rispettoso - dice - e mi sforzo di comprendere senza sentirmi autorizzata a prendere nessuna posizione rispetto a conflitti, contrasti, differenze.
Luisa sottolinea poi che in Magreb c'è comunque una parte di donne che sono laiche e che chiedono a noi donne del mediterraneo, altrettanto laiche, di sostenerle in questa posizione. Tuttavia ce ne sono altre con idee differenti. Con quelle più laiche e che chiedono il nostro sostegno, Luisa dichiara il suo suo atteggiamento di far presente che bisogna tener conto della cultura complessiva, per esempio della forte cultura religiosa che le caratterizza. Riferisce del rettore dell'Università di Sanhan, capitale dello Yemen. Quest'uomo, laicissimo, sostenitore delle donne, iniziava il discorso e lo finiva sempre con una lode a Dio anche nel corso di convegni internazionale. Ora se non si tiene conto di questo, essere se stessi cosa vuol dire?
Giuliana Sgrena risponde di atteggiarsi allo stesso modo e aggiunge di non aver nessuna pretesa di fare di più. Racconto quello che vedo assumendo quello che sono io, non mi illudo di essere interna a quel mondo che racconto. Non do indicazioni, facciamo dei confronti, io parto da me, loro da loro stesse.
Su richiesta di una delle presenti Giuliana affronta il tema dell'occupazione straniera.Quello che ho trovato in Iraq dall'inizio dell'occupazione, dice, è una forte ostilità alla presenza delle truppe straniere. Anche quelli che avevano apprezzato l'abbattimento del regime di Saddam non accettavano il fatto di avere 'qualcuno in casa' che li controlli. L'ostilità diffusa è andata aumentando anche perchè l'atteggiamento degli occupanti, in gran parte americani, è arrogante, sprezzante, molto spesso perchè non conoscono il paese. Molti soldati, spiega Giuliana, arrivavano da zone sperdute del Sud degli Usa. Molti sono immigrati, tantissimi che hanno avuto la carta di soggiorno americana prima di partire per la guerra, altri hanno avuto la promessa di cittadinanza. Parlano di se stessi come peruviani, cubani, asiatici, neanche si considerano americani. Il motivo per cui sono capitati lì non sempre implica l'adozione dell'ideologia del governo americano. Giuliana specifica che quando parla di resistenza intende quella diffusa tra la popolazione, non di quella armata anche se ci sono connessioni tra le due.
Nel suo intervento, Zina chiede cosa pensa Giuliana delle donne torturatrici. e quali sono state le reazioni di questo fatto in Iraq. Giuliana risponde che, a suo parere, questa questione ha fatto emergere un aspetto che di questa guerra è stato un po' sottovalutato: la colonizzazione anche culturale. Gli iracheni raccontano che le immagini delle torture erano esposte dentro al carcere. Un'ulteriore umiliazione inflitta alla popolazione, enfatizzare la questione sessuale, per loro tabù, è stata un'ulteriore umiliazione. Umiliazione per gli uomini a cui le cui torture vengono inflitte da una donna, è per loro il massimo sfregio. Ma cosa ha voluto dire questo per le donne?
Alcune donne in carcere sono state stuprate, altre minacciate di esserlo - racconta Giuliana. Tuttavia per loro è diverso, perchè non possono parlare. Se lo fanno rischiano di essere uccise dai propri familiari perché questo fatto è considerato un'onta che si può risolvere o con la morte o con la fuga. Anche solo il fatto di essere stata in carcere è considerato stupro in quanto è molto probabile che lo si sia subito. Quando ho intervistato una donna che era stata in prigione, le ho chiesto se sapeva di donne stuprate. Lei ha risposto di conoscere alcuni fatti ma di non poterne parlare. Dietro c'è una violenza così forte che va al di là delle immagini viste, conclude Giuliana. Tutti questi sconvolgimenti hanno provocato grandi devastazioni in quella società, provocano e provocheranno ulteriori arretramenti.