| 20
marzo 2004
Presentazione
del libro Ragazzi di zinco di Svetlana Aleksievic
a cura di Laura Minguzzi con Stefano Sarfati
Circolo della Rosa, Milano, sabato 20 marzo 2004 ore 18,30
Laura Minguzzi:
Vorrei ringraziare
Stefano Sarfati che ha raccolto il mio desiderio di parlare di questo
libro e soprattutto di confrontarmi con un lettore a cui è piaciuto
il modo di scrivere e raccontare di Svetlana Aleksievic. Perché
ho sentito oggi la necessità di ripensare agli anni 70-80? Mi sembra
che c'entri con quello che sta capitando oggi.
Nel 1979 quando cominciò la guerra in Afghanistan, io mi ero laureata
da 3 anni e insegnavo da due anni lingua e letteratura russa. Mi fu chiaro,
per le frequentazioni e la familiarità che avevo avuto e che ho
tuttora con quella realtà sociale, che era l'inizio della fine.
La fine di un mondo, di un'epoca, di un modo di pensare, di essere, anche
se non sapevo spiegarmelo razionalmente e non avevo piena consapevolezza
di quello che stava capitando. Ricordo solo una grande sofferenza e un
senso di disordine mentale. Momenti di totale amnesia. In cattedra avevo
vuoti improvvisi, non mi ricordavo fatti, parole che conoscevo benissimo.
La mia competenza professionale di cui andavo molto fiera e orgogliosa
- ma come! io avevo studiato in Russia!! - sembrava sfarinarsi... come
neve al sole
Io restavo muta.
Ho dovuto prendere anni di tempo e distanza mentale. Oggi sono ritornata
a pensare questo periodo della mia vita e della storia russa. L'occasione
cercata e capitata nello stesso tempo (è difficile distinguere)
è stata la conoscenza con Svetlana Aleksievic. Prima attraverso
la lettura di alcune pagine di Ragazzi di zinco, tradotte in italiano,
dall'inglese, da Maria Nadotti, che Luisa Muraro mi ha fatto leggere,
creando in me un fortissimo desiderio di leggere tutto il libro. Ne ho
parlato con un'amica russa, Masha Loseva di Mosca, che aveva letto tutti
i suoi libri e mi ha detto che questa giornalista bielorussa, autrice
di libri-reportage tradotti in quindici lingue, è conosciuta per
il coraggio con cui scrive e parla delle questioni più occulte
e più tragighe della storia russa. Poi, in un secondo momento,
il suo arrivo in Italia, nell'ottobre 2002, in occasione della traduzione
italiana del suo reportage su Chernobyl, mi ha spinto a invitarla qui
al Circolo dove ho potuto ascoltarla raccontare come è nato il
libro oggetto del nostro scambio oggi, e occasione del mio ritorno agli
archivi della memoria degli anni settanta-ottanta, parafrasando la scrittrice
francese Marguerite Jourcenar. Ripercorrere gli archivi è un modo
per riattraversare e farsi attraversare dal dolore, e riscattarlo riscattando
la propria storia, senza dimenticare, ma facendola diventare parte del
presente, non separata. Quindi né da rifiutare e obliare né
da portare come un fardello pesante ma inutile. Un fruttuoso riscatto
integrato nel presente storico.
Riprendo con le parole dell'Aleksievic il filo della memoria sulla genesi
di questo reportage. Così racconta: "Vidi arrivare un giorno
in un villaggio della Bielorussia una bara di zinco che fu portata in
una famiglia di miei vicini di casa. La bara non fu aperta. Era vietato.
La madre di questo ragazzo morto in Afghanistan voleva sapere come era
morto il figlio e vedere il suo corpo. Le furono raccontate pietose menzogne.
In realtà il figlio era irriconoscibile. Testimone di questo fatto,
sentii la necessità di andare in Afghanistan per sapere la verità
su questa guerra nascosta, come è stata definita da un altro giornalista
russo". Così nasce Ragazzi di zinco, ultimato nel 1989 e pubblicato
in russo nel 1991.
Svetlana parte per Kabul nel 1988, per 20 giorni percorre con occhi attenti
le strade di quel paese pieno di sole e devastato dalla guerra, tende
l'orecchio ai racconti di ufficiali e soldati dell'Armata rossa. La scrittrice
torna sconvolta e cambiata da ciò che ha visto e sentito. Si sente
finalmente libera, liberata dal bisogno di credere in una utopia, dal
bisogno di illusioni, di ideali.
L'ideale era quello del soldato russo dell'Armata rossa, che conduce una
"guerra giusta" Cito le sue parole: "Il cambiamento non
è stato facile perché l'ideale ha aspetti attraenti. Ma
era una miscela di idealismo e di sangue" (citato da "Les mots
du mal", in Le monde, 27.2.03.).
Ma la sua battaglia personale la dovrà combattere in casa propria,
in Bielorussia, per il proprio libro. Non le viene perdonata la smitizzazione
dei "combattenti internazionalisti". Così viene trascinata
in tribunale a Minsk. La scrittrice è accusata da un gruppo di
madri di combattenti internazionalisti di avere travisato e selezionato
in modo arbitrario i materiali che le erano stati forniti dai reduci,
dalle vedove e madri dei caduti, in altre parole la si incolpa di calunnia,
antipatriottismo e diffamazione. (pag. 297).
I giornali bielorussi nel 1992 ,per esempio Bandiera Rossa, pubblicano
le denuncie di alcune e alcuni intervistati. La giornalista aveva raccolto
400 interviste, percorrendo tutta la ex-URSS fra gli afganzy (donne e
uomini), le loro madri, fidanzate, le Associazioni sorte per difendere
il loro onore. Viene accusata di avere falsificato le interviste. Il patriarcato
le fa il processo (pagg. 312-313). Leggo dalla dichiarazione in aula di
S.Alk, resa all'ultima udienza del processo a Minsk: "Immagine di
un'epoca, il destino dello scrivere, non una professione neutra in Russia".
Ma cosa si cela dietro al risentimento che rivelano queste povere e pietose
denuncie per calunnia che colpiscono la giornalista, per avere detto la
verità sulla guerra, sulla fine di un mondo, di una ideologia,
di un sistema? La guerra, secondo il sistema Brezneviano, poi di Gorbaciov,
doveva essere vissuta come una interfaccia della normalità, per
cui mi pare che su questo sfondo opaco, grigio, il colore del silenzio,
del nascondere, del falsificare, risalti fortemente la radicalità
del gesto di chi vuole una risposta di senso e rifiuta il non senso della
morte dei propri figli e delle proprie figlie. Presa di coscienza vuol
dire anche non negare ciò che è stata la propria ingenuità
o credulità negli scopi apparenti della guerra, ma fare della propria
esperienza una fonte di conoscenza dell'inganno illusorio, un di più
di conoscenza della realtà sovietica degli anni settanta-ottanta
e di oggi. È una lotta sull'interpretazione della realtà,
della memoria storica.
Per esempio in Russia negli anni 90 c'è stata da parte di Associazioni
di storici come "La memoria", di insegnanti nelle scuole, nei
giornali, nelle famiglie una battaglia di idee sul senso: sul senso da
dare agli anni dello stalinismo, dei gulag, cioè al passato, per
impedire che il potere mettesse le mani sulla memoria, sopra la storia
delle vittime dello stalinismo, affinché non ci fosse il sigillo
di Stato sul passato. La Alekseevic, col suo metodo di interrogazione
dei sentimenti, di ascolto paziente, toglie l'oscuramento e rompe i canoni
del racconto di guerra, della narrazione storica così come esce
dal falso dilemma del cos'è stato il comunismo - chi lo vive con
nostalgia, come il paradiso perduto, chi come un inferno... - perché
mostra se stessa nel processo doloroso di attraversamento del dolore,
per potere dallo scioglimento del grumo riscattare il passato.
Al termine di questo processo di decantazione non c'è né
negazione pura e semplice, né idealizzazione, l'autrice riesce
a sciogliere il binomio sangue-utopia con l'integrazione nel presente
della memoria del passato, delle figure del passato, modificando contemporaneamente
se stessa.
Pensando a quello che accade oggi in Italia, alle manifestazioni di solidarietà
ai funerali per i morti di Nassyria, io vi leggo una richiesta di un orizzonte
di senso in cui collocare la morte cosiddetta per la patria, per il bene
comune, contro il nemico, il male alle porte di casa. Non viene accettata
la morte inutile, insensata, non voluta, non cercata, ma incontrata per
adempiere ad un dovere superiore che forniva un quadro di senso. Questi
processi mettono in scena il vuoto di senso della guerra, di appartenere
all'Armata rossa, di fare il soldato o l'infermiera in quel momento storico,
in quel luogo, per quegli ideali, l'abisso che separa i discorsi ufficiali,
istituzionali, accettati, dalla realtà quotidiana sia in patria
che là dove si va o volontariamente per ingenuità o per
necessità, senza mezzi adeguati, mandati allo sbaraglio. L'esportazione
del socialismo ha qualcosa in comune con l'esportazione della democrazia.
Allora si giustificava con la necessità di emancipare le donne
, il popolo afghano, modernizzare il paese. Ma i soldati appena arrivano
sul posto e vedono i luoghi capiscono immediatamente di essere in un vero
altrove, lì abita un altro, spiriti altri - duchi li chiamano -
e in russo duch significa spirito, fantasma, i guerriglieri afghani che
abitano non in case di pietra di 4 piani col water, ma in tende (jurta).
Nei kislak (villaggi, parola di origine turcopersiana), i dech kan, contadini
(dal turco), la terra non la volevano nemmeno in regalo, è di Allah
dicevano (pagg. 50-51), e soprattutto vivono in un altro tempo, loro sono
nel 14.esimo secolo, e questo crea la dimensione dell'altro e dell'insensatezza
dell'essere lì, soprattutto in quelli che cominciano a capire,
a pensare, a riflettere e non sono prigionieri del sentimento di vendetta
e di rivalsa, per la morte di un amico. Cito dai racconti dei soldati,
pag.11: "Si parla molto delle atrocità compiute dai mujahiddin
sui nostri prigionieri. Qualcosa che ci riporta al medioevo. E in effetti
qui ci troviamo in un'altra epoca, i calendari indicano il XIV secolo".
Nel romanzo Un eroe del nostro tempo di Lermontov, opera che ha come sfondo
le guerre russe nel Caucaso all'inizio dell'Ottocento, Maksimyc, il protagonista
russo, giudica in questo modo un montanaro che ha tagliato la gola al
padre di Bella, la ragazza caucasica di cui lui si è innamorato:
"Certo, secondo le loro usanze ha fatto quello che doveva fare",
anche se dal punto di vista di un russo era un atto barbaro. Qui lo scrittore
ha colto una peculiarità del popolo russo che consiste nel sapersi
mettere nei panni degli altri e vedere le cose "alla loro maniera".
Adesso invece sembra che questa peculiarità sia venuta meno.
L'Aleksievic continua la tradizione dei classici della letteratura russa:
riesce ancora a mettersi nei panni degli altri, ad entrare nei varchi
di consapevolezza creati dalla fine della credulità in cui sono
cresciute-i le madri, le donne, i giovani, gli uomini comuni e lei stessa.
Dando loro un'anima ne ha fatto degli eroi involontari, delle eroine involontarie
del nostro tempo.
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