Libreria delle donne di Milano

Circolo della Rosa, Martedì 25 febbraio 2003

Incontro con la scrittrice Amélie Nothomb
Serena Fuart

Introduce la serata Letizia Paolozzi.

L'atmosfera era proprio quella delle occasioni che ospitano una star, i pochi minuti di ritardo della scrittrice avevano creato un vero e proprio clima di fermento. La Libreria era popolata principalmente da fan, da veri estimatori dei suoi racconti, ansiosi di seguire ovunque questo particolare e unico personaggio. Voci, emozioni, fremiti riempivano la sala di una speciale energia.
Ma eccola che arriva, la tanto attesa Amélie, vestita colorata ma semplice, sfoggiando i suoi morbidi capelli lunghi corvini e prende posto al tavolo degli ospiti, accompagnata da applausi caldissimi.

Amélie viene immediatamente presentata come un mito, una star, una scrittrice dall'animo turbato, artista dalla scrittura inquietante e impertinente.
Ha scritto ben 47 romanzi, ma ne ha pubblicati solo 11.
La prima domanda che le viene posta è appunto se la costruzione del suo essere una star, un mito lo attribuisce alla scrittura.
Amélie parla in modo rapido, dice tante cose in pochi minuti, non è sempre facile tradurre fedelmente le sue parole.
L'impatto su chi l'ascolta è che comunque che si tratti di un personaggio assolutamente originale e creativo, a volte bizzarro e inquieto, comunque assolutamente inimitabile.
Risponde che ha troppo rispetto per i suoi lettori per attribuire il suo essere "mito" ai suoi libri.
Letizia Paolozzi ci svela allora qualche curiosità.
Sembra che Amélie scriva dalle quattro alle otto del mattino, e, come i lettori di Amélie sanno, le sue sono favole filosofiche, espresse in una scrittura spietata. La sua scrittura è stata spesso paragonata all'Aiku, componimenti giapponesi che raccolgono il vuoto.
Ha una rara bravura. La sua scrittura è caratterizzata dalla coesistenza di simboli, miti, metafore e il loro contrario, ed è una giostra linguistica in cui ogni lettore può dare la sua interpretazione. I critici spesso la paragonano ai grandi della cultura maschile: Diderot, De Sade...
La seconda domanda riguardava proprio i critici: questi ritengono che quando una donna è molto intelligente scrive non più come una donna ma come un uomo. Le si chiede il suo parere.
Amélie risponde prontamente che in questo caso c'è un doppio pericolo: di ghettizzare chi scrive come una donna e chi come un uomo, ma mentre si dice spesso che una donna scrive come un uomo, nessuno dice a un uomo che scrive come una donna.

Il suo nuovo romanzo "Cosmetica del nemico" presenta dei concetti bizzarri e assolutamente originali: dallo schema vittima/persecutore per disegnare la conquista del potere, alla definizione del sesso senza violenza come qualcosa di insulso. E ancora il definire l'amare come una delusione, e l'amare una persona morta come più pratico.
Il racconto ha come trama la relazione tra Jérome August e Textor Textelle.
La terza domanda che le viene rivolta riguarda quindi il libro: è un libro incentrato sul potere o sulla relazione?
Amélie risponde che, se scrive, è perchè i lettori possano rispondere al suo posto. Il rapporto tra potere e relazione è un'interpretazione che spetta quindi a loro.

Letizia Paolozzi apre una parentesi sulla questione del cibo. Amélie, dice la Paolozzi, non si lascia andare alla bellezza del paesaggio, piuttosto lavora sul cibo, lo vede avariato, necrofilizzato, chi legge non può che averne repulsione. Il cibo viene trattato come fosse il centro della situazione, il nemico che uno si porta dentro.
Letizia Paolozzi parla di un'Amélie che è stata anoressica, vittima del dualismo occidentale che vede come poli opposti la sensualità e l'intelligenza. Questo conflitto emerge in Amélie attraverso la scrittura.
La domanda successiva parte da una citazione di Freud, quando disse che le donne hanno portato pochi contributi alla società.
C'è comunque una differenza nella scrittura delle donne. La sua scrittura quindi sarebbe una scrittura di una donna. Lei cosa ne pensa? In un'intervista Amélie affermava che le donne possono essere migliori o peggiori, ma sicuramente sono maggiormente complesse (frase tra l'altro ispirata a Foucault).
Amélie risponde prendendo tempo. Racconta il caso del suo primo romanzo. Un critico sostenne che a scriverlo non era stata lei, ma un autore di una certa età con una grossa esperienza di scrittura a cui lei aveva semplicemente prestato il nome. Il suo editore di allora trovò la cosa molto lusinghiera. Lei non la pensava allo stesso modo ma in quel periodo non aveva nessun mezzo legale per provare il suo diritto d'autrice. Il fatto si concluse al meglio poiché nessuno dei grandi rivendicò mai la paternità di quel romanzo. Tutto è bene quel che finisce bene. Però, a tutt'oggi, c'è chi ancora preferisce pensare ad Amélie come una prestanome piuttosto che come una grande autrice.
Attribuire un genere letterario al genere maschile o femminile, dice Amélie, è un pregiudizio. Non sa esattamente in che cosa la scrittura femminile differisce da quella maschile, tuttavia le domande che i critici pongono alle scrittrici e agli scrittori sono differenti. Inoltre non si rimprovera mai a un uomo di essere troppo maschile o poco mentre alle donne si rimprovera di non essere femminili, come era avvenuto per la grande Marguerite Yourcenard.
Spesso si dice che la scrittura femminile è portatrice di maggiore sofferenza, ma secondo lei non è così.

L'intervista ufficiale può dirsi conclusa, ma il pubblico è ancora caldo. Viene lasciato spazio per le domande dei partecipanti in sala.

Le si chiede se i libri che scrive in un dato momento siano quelli a lei più vicini.
Amélie risponde che non ha un legame privilegiato con i suoi romanzi. Ne ha scritti troppi. Racconta poi che c'è una sua lettrice che ogni volta che pubblica un libro lo compra, lo legge, e lo giudica come un figlio maschio o femmina a seconda di criteri che ad Amélie restano sconosciuti, ma lei è sempre d'accordo con i giudizi di questa lettrice. Cosmetica del nemico sarebbe il suo ultimo figlio maschio.
Le si chiede inoltre con quale criterio sceglie i libri pubblicare, dato che scrive molto.
Amélie risponde dicendo che è convinta che non tutto quello che si scrive dev'essere per forza pubblicato. Non si scrive per la pubblicazione. Poi cita Mallarmé "un grande scrittore si riconosce per quello che non pubblica".
Infine le viene chiesto quanto c'è di autobiografico nei suoi libri, e lei risponde: 100%.