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Sabato 29
settembre 2007, Libreria delle Donne - Circolo della Rosa
Cosa (ci)
dicono le anoressiche?
A partire
dal romanzo L'infinito in un boccone di Paola Balzarro (Sinnos,
2006) e dal saggio di Ida Dominijanni pubblicato sull'ultimo libro di
Diotima L'ombra della madre (Liguori, 2007) ci interroghiamo sulle
domande che il sintomo anoressico apre alla politica delle donne: il rapporto
con la madre, gli effetti imprevisti e paradossali della rivoluzione simbolica
femminista, la sessualità femminile. Saranno presenti Paola
Balzarro, l'editrice Della Passarelli e Giuliana Grando,
psicoanalista dell'ABA di Venezia.
Laura
Colombo: Questa sera vogliamo parlare di quelli che comunemente sono
definiti disordini alimentari ma che in realtà sono sofferenze
profonde, e lo facciamo partendo da un romanzo, L'infinito in un boccone,
di Paola Balzarro che è qui con noi e che ringraziamo. Lo faremo
anche con un'altra nostra ospite, Giuliana Grando, psicoanalista dell'ABA,
l'Associazione per lo studio dell'anoressia e bulimia.
Inizierei a parlare di questo romanzo, di cui vi leggerò qualche
breve brano. Lo potete trovare in Libreria. L'io narrante è Francesca,
una magistrata trentenne di successo, che ha una vita apparentemente normale:
come molte giovani donne vive sola e ha un compagno, ma il suo equilibrio
è solo apparente, perché ha un rapporto compulsivo col cibo
che le porta ad abbuffarsi durante e fuori dai pasti.
Ecco come si descrive: "Arrivo che non ho più fiato, il
cuore in gola, ma porca miseria, penso, maledicendo la zavorra che ho
addosso non posso manco affrettarmi in salita che subito sputo fuori l'anima.
Eccomi qua, niente male a soli trent'anni. Inutile girarci ancora attorno,
sono malata davvero, con un corpo sfiancato prima del tempo che si stra
trascinando lentamente al diavolo. Il bello è che ho fatto sempre
finta di nulla, riducendo pian piano il cerchio dei miei movimenti per
non sentire l'affanno, o il lamento delle ossa, niente più scale
a piedi né palestra, basta con discoteche, campeggi, gite in montagna,
bicicletta, barca, insomma una vita da statua, e quel che è peggio
da statua contenta, socialmente inserita, laureata con lode in tempo record
e poi trionfante nei concorsi" (pag. 53).
Francesca è consapevole di voler affrontare quello che le capita,
per questo sceglie di andare a Villa Beatrice, una clinica in cui sono
ricoverate assieme ragazze anoressiche, bulimiche e obese.
La protagonista ci accompagna nei lunghi mesi della sua degenza descrivendo
come in un diario quello che succede lì e quello che le succede
nel profondo, senza indulgere con pietismo alla sofferenza, mettendo in
luce il suo percorso, e le ricadute che ha, e ci fa comprendere come al
fondo di questo malessere ci sia una profonda scissione dal corpo.
Due episodi riescono finalmente a essere espressi: una partita di pallone
coi compagni di scuola che la prendono in giro per la sua femminilità
nascente e una dieta imposta dalla madre quando, a 11 anni, inizia a crescerle
il seno.
Ecco
che avviene questa separazione dal corpo. "Prendersela col corpo,
che non ti rappresenta. Essere sempre altra rispetto alla tua forma, sempre
altrove. Non riconoscerti nello sguardo degli altri, e non riuscire a
mettere a fuoco il tuo, sbattere contro i limiti fisici, come un calabrone
imprigionato in casa, che si ostina a scagliarsi contro il vetro, sempre
più sconfitto e intontito dai colpi. C'è un nucleo irriducibile
di dolore, molto in fondo alle nostre storie, che non si può curare
con l'impegno, la serietà e la voglia di guarire. Tutte cose importanti,
per carità, anzi, necessarie. Ma sono soltanto il primo gradino"
(pag. 178).
C'è un vuoto che Francesca non riesce a colmare, solo la voracità
le dona un illusorio appagamento, l'apparente sensazione di possedere
l'infinito, l'assoluto. "Sento salire la tentazione funesta, la
voglia prepotente di ingoiare tutto, lasciandomi trasportare dal desiderio
furioso di possedere e inglobare ogni sapore, senza lasciarne sfuggire
nessuno, senza limiti, veti né rinunce, a briglia sciolta nell'infinito
offerto davanti a me, in fondo a prezzi davvero modici" (pag.
87).
Nel romanzo sono importantissime le relazioni che nascono tra donne con
sintomi solo apparentemente opposti, l'interazione tra la protagonista
che è sovrappeso e ragazze scarnificate dall'anoressia. "Nessuno
può vedere il mio viso che incomincia a incresparsi, le mie parole
nell'ombra sono leggere come quelle di tutte le altre, e non c'è
stupore né giudizio, adesso mi appare chiaro che le nostre storie
sono straordinariamente vicine, nonostante la differenza di peso, di età
e di cultura, alla faccia della diversità di caratteri, delle vicende
familiari e persino dei sintomi, che paiono opposti e invece sono soltanto
due aspetti dello stesso male, ce lo coviamo dentro da un tempo lontanissimo,
tanto che sembra quasi impossibile risalire a un prima, prima del no,
della solitudine assoluta, che non può essere consolata se non
da un nostro gesto, gli altri sono veramente l'inferno, il rifiuto e insieme
l'invasione, l'unico dialogo che ci rimane è quello col nostro
corpo, dove non entra né esce nessuno, se non il cibo, che - ringraziando
il cielo - fa quello che cazzo vogliamo noi" (pag. 68).
Il percorso di Francesca, che è principalmente ri-apprendere la
fiducia nella relazione, misurandosi con il proprio passato, il desiderio
delle altre, l'accettazione che le ragazze si affidino a lei, le fa conquistare
la sua verità: "Non devo dimostrare nulla, neppure a me
stessa, se non che ho voglia di vivere. E che ne sono capace, grazie al
cielo" (pag. 196).
Leggendo il libro ho avuto la sensazione che la protagonista usi la lingua
del partire da sé (come lo chiameremmo qui in Libreria), cioè
che Francesca sia dentro un'esperienza che la segna nel profondo e trovi
le parole per raccontarla e darle un senso. È un romanzo, una fiction,
ma parla la lingua del reale e di un'esperienza radicata nella vita. Quindi
lascio la parola a Paola, chiedendole quale percorso l'ha portata a scrivere
questo romanzo.
Paola Balzarro:
grazie davvero perché le cose che hai detto sono quello che avrei
detto anch'io. Io scrivo da molti anni, prima scrivevo racconti fantastici,
storie per bambini, ed effettivamente per la prima volta questo è
un libro in cui sono partita da un'esperienza che - come immagino si coglie
- è anche reale. Ci sono naturalmente tutta una serie di cambiamenti:
la protagonista è una magistrata io non lo sono, ha trent'anni
io ne ho qualcuno in più, quando ho fatto l'esperienza io ne avevo
35, però sicuramente è basato su un'esperienza reale che
in quell'età particolare e magica che sono i 35 anni mi è
capitata, un'età in cui mi sono trovata a fare i conti con il problema
non solo dell'obesità, ma con il problema ancora più radicale
dell'alimentazione compulsava, che avevo sempre rimosso. Improvvisamente
è arrivato un momento in cui il corpo ha incominciato a non rispondere
più. Quindi ho scelto di ricoverarmi. Io faccio la giornalista,
sono andata dai miei capi a dire che, per un periodo non definibile in
modo preciso, mi ricoveravo in clinica per occuparmi del mio disturbo
alimentare (cosa non facilissima da dire) e ho affrontato questa esperienza.
All'inizio con un grande senso di mortificazione (certamente utile), che
però mi ha letteralmente sconquassata.
Trovandomi in quel luogo, la mortificazione si è ribaltata completamente.
Mi trovavo in una situazione - che descrivo nel libro - da una parte idilliaca:
è un posto che esiste davvero, in mezzo alle montagne, dove stai
in un rapporto con la natura magnifico, però sei contemporaneamente
in una situazione di ospedale, con persone, soprattutto donne, ragazze
- anche una bambina - anoressiche oppure bulimiche che vomitavano, quindi
ragazze apparentemente perfette, che ci si chiede cosa avessero e invece
magari mangiavano normalmente e poi andavano a vomitare, solo due i maschi,
e come racconto nel libro non a caso uno pesava 200 chili, l'altro 25,
i due estremi.
Con loro si è creata una piccola comunità, e le relazioni
che si sono stabilite mi hanno tolto quel po' di equilibrio che pensavo
di avere, anche in senso buono. Per esempio, la prima volta che mi sono
trovata a uscire in lacrime dallo studio del medico che mi aveva detto
una cosa terribile per me, cioè "deve accontentarsi di mangiare
in un modo abbastanza accettabile e di raggiungere un peso abbastanza
accettabile, forse perderà 5 o 6 chili" e io ero andata lì
per perderne 30, la bambina (anche un personaggio del libro n.d.r.)
è venuta a consolarmi, ha trovato dal suo punto di vista così
diverso dal mio, le parole per consolarmi. Immaginatevi che è una
bimba che se mi avesse incontrata per strada mi avrebbe chiamata signora
e io forse non l'avrei neanche guardata!
Questa per me è stata una delle cose più belle, e dico a
conclusione che quando è uscito questo libro alla fine della bibliografia
io ho messo il mio indirizzo mail e mi è arrivata una lettera di
complimenti che diceva "il libro fa ammazzare dal ridere e insieme
scendere un brivido nella schiena della ex dodicenne muta oggi ventiquattrenne
molto loquace". Era lei, l'ho risentita ed è stata un'emozione
particolarissima.
Vivere insieme, fare insieme una gran quantità di lavoro manuale/artigianale
che io racconto nel libro, il mosaico per esempio, trovarmi lì,
coi miei colleghi a Roma nel macello più totale e io in provincia
di Vicenza a fare il mosaico con le fanciulle anoressiche... L'attività
manuale, discutere insieme, mettere in comune le proprie storie, ha creato
una comunità e relazioni forti. Nel libro racconto una scena realmente
accaduta: una nevicata ci ha bloccate dentro. Io non dormivo nell'ospedale,
ero semilibera, invece siamo rimaste tutte lì, in una stanza con
sedie e poltrone, tutte insieme ci siamo fatte delle confidenze. Allora
nel buio, con questa atmosfera ovattata, mi sono trovata a sapere cose
di ragazze di 16 anni che certo non mi avrebbero mai parlato, i trucchi
delle anoressiche per non farsi accorgere in ospedale che erano dimagrite
- si mettevano le pile della radio nelle tasche, per recuperare 2 etti,
così alla fine ci pesavano tutte in mutande - , e io raccontare
di quando nelle mutande nascondevo il pane, perché lo rubavo a
casa, mia madre non voleva che io mangiassi perché aveva il terrore
che io ingrassassi in un'epoca in cui grassa non ero, e quindi mi nascondevo
il pane addosso.
Raccontare queste cose non è stato semplice, però è
stato importante perché mi sono sforzata di raccontare lamia esperienza
- dopo un anno o più dal ritorno, anche con l'aiuto e l'incoraggiamento
di amiche e amici, della mia editrice Della Passarelli a cui sono molto
grata.
Sara Gandini:
Vorrei dare qualche spunto di riflessione partendo dal saggio di Ida Dominijanni
pubblicato sull'ultimo libro di Diotima L'ombra della madre che si intitola
L'impronta indecidibile. Lei parla di due vuoti nell'Ordine simbolico
della madre, di Luisa Muraro. Il primo è il posto del padre, che
secondo Ida "non vi compare e non è contemplato". Il
secondo vuoto, legato in qualche modo al primo, è la sessualità,
e Ida scrive: "nell'ordine della madre la sessualità femminile
è andata progressivamente in dissolvenza. Più la madre è
diventata figura sessuata dell'origine, dell'autorità e della parola
femminile, più si è desessualizzata. Un esito paradossale,
che non era nelle premesse del discorso". La sessualità anche
secondo Ida tace da troppo tempo nella parola politica delle donne. Resta
in silenzio e si ripresenta in forme impreviste.
È noto che nell'ultimo secolo il sintomo anoressico ha preso il
posto del sintomo isterico, e questo non è avvenuto per caso.
Vi leggo alcune parole di Ida in proposito: "I due sintomi si inscrivono
in due ordini, o disordini, simbolici del tutto diversi, segnati da un
mutamento storico di cui - questo è il punto - la rivoluzione femminil-femminista
è stata in parte artefice. Mentre il corpo isterico femminile esprimeva
una sessualità interdetta dalla legge del padre che cercava le
parole per dirsi - e le ha trovate, nella talking cure psicoanalitica
e nelle pratiche femministe della messa in parola -, il corpo defemminilizzato,
dematernalizzato e desessualizzato dell'anoressica non offre e non chiede
parola, né all'analista né alla madre né all'altra
donna".
Qui Ida fa due domande che ritengo di enorme importanza, sulle quali a
mio avviso sarebbe opportuno soffermarsi nella discussione. Si chiede:
"Se l'isteria è il sintomo che ha accompagnato l'ingresso
delle donne nella modernità e a cui il femminismo ha dato una risposta
politica, l'anoressia si configura come un effetto imprevisto e paradossale
del mutamento femminile, del sapere femminile sulla donna, della rivoluzione
simbolica femminista.
Dal sintomo nevrotico dell'oppressione, al sintomo perverso della libertà
femminile?" Lei si chiede.
E continua, se nell'isterica "abbiamo visto il bisogno del continuum
materno, la sottrazione dalla madre del corpo anoressico non esprimerà
al contrario un bisogno di discontinuità dal materno, una differenza
femminile dalla madre cui dare spazio e significato?".
Passo ora ad altre suggestioni, che ho ripreso da due libri curati da
Giuliana Grando che purtroppo non sono più in commercio. Entrambi
editi da Franco Angeli, li potete trovare in biblioteca. Uno si intitola
Nuove schiavitù. Forme attuali nella dipendenza, l'altro Devastazione
e masochismo femminile. Vi cito due brevi brani. Il primo è di
Giuliana Grando, direttrice dell'ABA (Associazione per lo studio e la
ricerca dell'anoressia e della bulimia) di Venezia. Lei scrive: "Nella
dipendenza da cibo si è registrato un aumento sempre più
esponenziale dell'altra faccia dell'anoressia, la bulimia. Quest'ultima
è molto probabilmente più rispondente alla filosofia del
nostro tempo per la voracità con cui cerca l'oggetto per riempire
un vuoto di fatto incolmabile" Si tratterebbe della "parodia
della società dei consumi per cui instancabilmente si inventano
e si producono sempre più nuovi oggetti che vengono divorati velocemente
da un mercato sempre più esigente".
Recalcati, psicoanalista lacaniano, ed è stato direttore scientifico
nazionale dell'ABA dal 1994 al 2002, invece scrive: Nell'anoressia e nella
bulimia, "l'Altro sesso - la funzione unificatrice di Eros che si
esprime nella sessualità - è rimpiazzato dalla a-sessualità.
Il soggetto scarta la contingenza dell'incontro con l'Altro per assicurarsi
- nel consumo solitario dell'oggetto - l'annullamento della mancanza,
che l'Altro inevitabilmente introduce".
Questi due punti - l'importanza dell'Eros e la voracità - mi hanno
interessato in modo particolare. Infatti io ho scoperto il grande potenziale
dell'Eros con la politica delle donne, prima di tutto nelle relazioni
fra donne. Un Eros che si origina dallo scambio intenso di pensieri e
di parole, in grado di risignificare il mondo. E mi chiedo come si trovano
le anoressiche nei luoghi di donne, nei luoghi in cui prevale lo scambio
di parola femminile.
Poi mi soffermo a pensare che forse però non siamo così
distanti e penso ai possibili miei contatti con loro. Che posto ha l'Eros
nella relazione con l'altro sesso, per me e per loro?
Io so che la distanza fa problema e allo stesso tempo sento il timore
dell'annullamento della distanza. So quanto è difficile l'incontro
con l'Altro in un immaginario in cui l'Altro può divorarti o in
cui temo che l'Altro possa svanire. Così, sento la vicinanza con
l'anoressica proprio quando lei denuncia fortemente quanto è difficile
trovare lo spazio per l'Altro.
Ma io come sto di fronte a lei, in un immaginario incontro? Mi rendo conto
che l'idea mi spaventa un po'. Sento il timore di ferirla, ho paura che
la mia parola possa fermarsi di fronte alla fragilità di quel corpo
che comunica intoccabilità. Mi sento un po' in un'empasse.
Rispetto alla voracità invece mi sento largamente in sintonia.
Io sono estremamente vorace. Una voracità che si manifesta in una
ricerca quasi spasmodica di parole, di pensieri che mi spostino. Pero'
si tratta di parole scambiate all'interno di scambi intensi, veri. La
pratica di relazione con alcune donne, con Laura prima di tutto, mi ha
dato la possibilità di imparare a stare nel vuoto, nella mancanza,
e soprattutto la possibilità di trovare le parole per dire il mio
desiderio. Anche se alcuni lati oscuri permangono, queste relazioni in
cui cerco interrogazioni di senso continue, messa in gioco di contraddizioni
e di progettualità, mi hanno permesso di trasformare questa voracità
e di imparare ad accettare l'intervallo tra me e l'Altro/a.
Cosi' penso che la politica delle donne, che ha sempre lavorato sull'empasse,
sugli scacchi, anche in questo caso saprà trasformare questa sofferenza
in forza, in sapere. Forse bisogna darsi tempo per pensare, per dare spazio
a delle invenzioni.
Giuliana
Grando: ci vuole tempo per pensare e per le invenzioni. Quello che
ho scritto per questa sera e che riporto, sono conversazioni che ho con
ragazze che hanno disturbi alimentari, anche per me questo è un
tempo per pensare. Questo segno così terribile che si deposita
sul corpo delle donne, è un segno che io metto al centro del mio
lavoro da 15 anni con le ragazze che ne soffrono e anche con le loro madri,
e in questo tempo il discorso che portano è cambiato, non dico
migliorato o peggiorato, ma è diverso, perché effettivamente
è collegato al discorso dell'Altro come nella citazione che ha
fatto Sara prima. Se non ci fosse un collegamento col discorso dell'altro
sociale non ci sarebbe il cambiamento della moda, per cui a ogni cambiamento
dell'altro sociale, della filosofia dell'Altro sociale, economica ecc,
c'è anche un cambiamento dell'involucro formale del sintomo e di
come si manifesta, anche nel discorso. Devo dire che i cambiamenti sono
rapidi.
Spero che con tutte queste testimonianze di Paola, Laura, Sara e poi quello
che dirò io, spero che riusciamo a intenderci, o per lo meno a
comunicare e a farci delle domande, e avere qualcosa in più alla
fine, perchè anch'io porto qui dei colloqui su cui non ho fatto
riflessioni teoriche perché sto ancora lavorandoci.
Il titolo del libro di Paola L'infinito in un boccone ci porta
immediatamente nel contesto del nostro lavoro. L'infinito ci fa pensare
alla relazione mistica e al senza limite del femminile, alla nostra voracità,
all'infinito che vorremmo trovare in un boccone, senza passare per il
ritmo, la pausa, la moderazione, imposta dalla contabilità.
Questo titolo evoca l'aspirazione di Fabiola De Clercq, la fondatrice
dell'Aba, contenuta nel titolo del suo libro Tutto il pane del mondo
che si presta a molte interpretazioni, ma che in prima istanza significa:
tutto il pane del mondo non può saziare la mia fame.
Entrambe, sia Paola che Fabiola, sintetizzano, nei titoli dei loro testi,
la spinta al senza limite che troviamo nel femminile e che viene ben rappresentato
nel disturbo alimentare, come ha detto Paola del resto.
Lo chiamo "il nostro lavoro", perché il sapere di chi
ha fatto del femminile una pratica è diventato un sapere ormai
condivisibile con le donne psicoanaliste, perlomeno con le psicoanaliste
che si ritrovano in una pratica con le donne. Mi riferisco alle pratiche
delle donne nei loro luoghi di lavoro e alla scrittura di testi come La
magica forza del negativo e l'Ombra della madre.
Cito solo questi due testi perché mi pare abbiano segnato un punto
di demarcazione, un punto di passaggio, tra il positivo assoluto, l'idealizzazione,
che ha permesso tuttavia di arrivare all'elaborazione di Muraro dell'ordine
simbolico della madre, e la considerazione del lato oscuro del rapporto
tra madre e figlia (e tra donne) - residuo o eccedenza del materno - di
cui parla Ida.
Questa considerazione del lato oscuro e/o dell'eccedenza, ha dato a me
e credo anche ad altre psicoanaliste una possibilità di parola
e una maggior libertà nello scambio teorico ed esperienziale con
le donne. Evidentemente con questi testi si sono tratti alcuni fili, dopo
un lungo momento di analisi e comprensione. Senza questo passaggio - rispetto
all'ordine simbolico della madre - non avremmo potuto recuperare la ricchezza
del materno e del femminile contenuta in quell'infinito che è la
modalità del godimento femminile.
Questo passaggio non ha soltanto permesso alle psicoanaliste di prendere
la parola (alcune di noi si erano già autorizzate e avevano fatto
scuola e mi riferisco in particolare a Luce Irigaray), ma ha permesso
anche alle donne di poter trovare un loro posto, a partire dal lavoro
con la parte oscura sempre residuale, mai del tutto eliminabile, nella
relazione madre-figlia e nella relazione tra donne.
Questo passaggio molto importante è anche il passaggio che, in
un percorso analitico, una figlia deve poter compiere per potersi collocare
in un luogo soggettivo che si smarchi sia dall'onnipotenza che dall'impotenza
materna. In altri termini, poter uscire dal fantasma della madre onnipotente
così come dal fantasma che sia l'altra a possedere tutto il sapere.
Quello che voglio dire è che la nostra pratica ci porta a fare
con le donne che incontriamo (e incontriamo ancora tutte donne nella pratica
con il disturbo alimentare! Non ci sono poi ancora così tanti uomini
come avevamo previsto alcuni anni fa) un lavoro che potremmo definire
del negativo (come descrive Wanda Tommasi nello stesso testo) un lavoro
che va dal disagio, dall'annientamento, dalla distruzione, all'agio, all'espressione
della soggettività sessuata che spesso, sorprendentemente, prende
nelle nostre pazienti la via dell'espressione artistica.
La parte più consistente di questo lavoro è arrivare a far
sì che la figlia possa nominare il disagio che, nei casi di anoressia
restrittiva gravi, ossifica, non solo il corpo ma anche, nella stessa
misura, le significazioni.
La parola è l'impensabile e allo stesso tempo costituisce la colpa.
La colpa del dire.
La colpa di essere portatrici di una soggettività, di un desiderio
altro, altro anche dalla nostra stessa madre, il che si traduce in essere
altro dalla nostra carne.
Porto un
esempio di quanto ho appena detto.
In un lavoro analitico di disalienazione dalla madre, Teresa una donna
cilena, incontra, finalmente a cinquant'anni qualcuno, la sua analista,
(anche se purtroppo non è la prima che incontra) che riconosce
che c'è stato davvero un abuso nei suoi confronti da parte dello
zio, quando Teresa aveva tre anni.
Questa donna sogna di essere senza una gamba e si chiede, nel sogno, se
quella gamba manchi a lei o alla propria madre. Nella realtà alla
madre era stata amputata una gamba, molti anni prima.
Teresa ha vissuto l'isolamento in casa da adolescente per dieci anni e
poi, per poter uscire dall'isolamento, in un'identificazione alla nonna
materna che era italiana, si è esiliata in Italia come luogo in
cui poteva ancora tentare di esistere.
Teresa a commento del sogno si chiede piangendo: "E' forse a me che
è capitato di avere una madre suicida? E' a me che è capitato
di essere abbandonata dal marito? E' forse a me che è capitato
di avere una gamba amputata? Tutto questo è capitato a lei, mia
madre, ma io ho vissuto l'isolamento, l'esilio, la solitudine come se
tutto ciò che è capitato a lei fosse capitato a me".
E' questo che intendo dire, quando dico che essere altro dalla madre è
essere altro della nostra stessa carne.
Difficile per Teresa, senza l'aiuto di alcuno, riuscire a portare fuori
da sé ciò che la madre non ha mai potuto mettere in una
relazione simbolica con l'altro. Tutto è rimasto muto nella madre
di Teresa e Teresa ha ereditato la malattia materna. Teresa, con la sua
bulimia, è diventata la portatrice malata del sintomo della madre.
Teresa è costretta a fare un lavoro con il negativo che si può
anche intendere in senso fotografico, perché è lei a dover
portare alla luce, mettere in positivo e far vedere la sofferenza materna.
Il lavoro
con il negativo, detto con le parole di una giovane donna, Flora, anche
lei vittima di un atroce abuso infantile e della bulimia, è un
lavoro che porta "a fare tesoro" della distruttività
della divorazione materna.
Trovo formidabile il lavoro che questa donna ha compiuto sulla devastazione
della madre.
Una rivoluzione, una sovversione soggettiva che si compie su un troppo
pieno, sull'incommensurabile, sull'impensabile.
Un lavoro di scarnificazione (come si legge nel libro di Paola, molte
ragazze questo lavoro lo fanno realmente con tagli sulle braccia, sul
seno, sul ventre "perché" si trova a dire una ragazza,
"a differenza delle altre ferite psicologiche, queste ferite si vedono".
Voi sapete che negli Stati Uniti ci sono gruppi che si chiamano cutters,
organizzati, che si tagliano sul corpo). Il lavoro di scarnificazione,
e lo potremmo chiamare anche di scarificazione, è un lavoro di
alleggerimento di un pieno pulsionale che soffoca, annienta, uccide.
Si apre una possibilità di lavoro solo se il soggetto incontra
un punto di cedimento nella completa alienazione nel materno.
Per esempio, nell'eventualità che la figlia possa dire che la madre
forse non ha ragione del tutto e che questo possa dirlo senza evocare
un fantasma di morte proprio e della propria madre.
Si tratta in questi casi estremi, di madri che sono costrette a contrabbandare
come amore materno, il controllo totale sulle figlie attraverso l'angoscia
dell'accudimento, che legittima il controllo. Quando ho detto che siamo
di fronte a un discorso non nuovo ma che ha un carattere di novità
rispetto al discorso precedente, è proprio questo tipo di relazione
tra mare e figlia che voglio evidenziare ora.
Si tratta
di madri che non prendono contatto con la loro angoscia perché
è innominabile, e allora viene nominata da queste madri come amore
materno.
Infatti è questo che dicono le figlie: "Che posso dire di
mia madre, è sempre presente, lo fa per il mio bene
".
Questo è un dato antico, che ritorna nella clinica ora, è
questo di cui non so rendermi conto. È una cosa vecchia che ritorna
ora, ma da quale parte arriva? È una domanda attuale. Lo dicono
queste ragazze con un pianto disperato pregando l'analista da una parte
di non portarle su questo terreno ma, allo stesso tempo, con la consapevolezza
terrorizzante che si tratta di una strada obbligata per uscire dal loro
annientamento. Alle madri lo diciamo con una grande cautela, nel contesto
ABA abbiamo la distinzione tra madre e figlia, la psicoanalista della
figlia non segue la madre e viceversa. Nelle riunioni di equipe ci troviamo
di fronte a questi casi in cui della madre non si può dire nulla,
non si può neanche mettere in questione che possa non aver sempre
ragione.
E' un lavoro
quindi molto delicato quello che vengono a fare le adolescenti e le donne
con noi
.per alcune molto doloroso e difficile, perché si
tratta nella quasi totalità dei casi di una appartenenza ad una
genealogia materna e femminile declinata per generazioni al negativo.
Si tratta di genealogie materne che tramandano la devastazione subita,
finché il sintomo portato dalla figlia consentirà loro di
rompere la catena che le lega ad un godimento segreto che si tramanda
di generazione in generazione.
Ho letto attentamente il libro di Paola-Francesca e insieme i testi di
Laura e Sara e li ho trovati particolarmente intensi per il sapere che
ci offrono e per il loro tener conto del sapere delle altre.
Francesca, la protagonista di L'infinito in un boccone, vive nella comunità
come una giornalista che registra gli umori e le sensazioni delle altre,
scruta le loro vite sofferenti per carpirne i segreti.
Sara e Laura hanno fatto del sito un luogo di ascolto delle confidenze
delle donne per farne una teoria.
Quando parla di sé, Francesca affonda in un malessere profondo
e antico come quando descrive in modo preciso il momento in cui avviene
il divorzio dal proprio corpo, in quanto non riconosciuto dall'altro.
E sono le pagine che ha letto prima Laura.
Il divorzio dal proprio corpo è centrale nel disturbo alimentare,
esso avviene con modalità diverse a seconda del tipo di disturbo,
ma accade che invece di esserci unità, tra corpo e significante,
tra simbolico e godimento, c'è negazione della parte di sé
pulsante e vitale e l'entrata in scena del lavoro muto della pulsione
di morte.
Francesca
riporta le parole di una ragazza in un incontro di gruppo, messa a dieta
dai genitori quando aveva 11 anni, proprio nel momento in cui le cresceva
il seno (pag. 66-67-68).
Le forme femminili sono considerate e nominate, semplicemente come"grasso".
Oggetto merceologico, con la sua chimica e morfologia, senza una connotazione
metaforica. Il corpo non porta alcun segno che indichi la particolarità
di quel soggetto femminile: è semplicemente Grasso.
Essendo il femminile il luogo dell'enigma, del vuoto, dell'assoluta alterità,
il corpo femminile (anoressico/bulimico) può diventare un luogo
estraneo e perturbante, il femminile viene espulso dal corpo anoressico,
se non c'è un simbolo in grado di riconoscerlo nella propria particolarità.
Al momento delle mestruazioni, in cui cresce il seno, i glutei, i fianchi,
c'è proprio una disperazione, come se qualcosa di diverso, di totalmente
estraneo entri nel loro corpo, una trasformazione impossibile, che arresta
lo sviluppo e impianta l'annientamento dell'anoressia, proprio nel momento
crono-logico - anche se non cronologico - , nel momento in cui la ragazza
deve diventare una donna, in cui l'essere femminile deve portare i segni
del proprio sesso. Al posto dell'essere femminile incarno questo posto
asessuato. C'è un tabù della sessualità.
Il corpo
femminile rischia di diventare il corpo della scienza e del mercato preso
in una nominazione universale considerata perfetta: taglia 38, senza cellulite,
senza grasso, labbra siliconate, volto al botulino, stretto in una uniforme,
che toglie, elimina ogni particolarità, cambia i connotati. Questa
è la tendenza dell'altro sociale oggi, ed è la tendenza
all'uno, non al molteplice, alla differenza ma all'uniforme.
In una maschera di questo tipo, uniformante, è inevitabile che
i sentimenti, le emozioni siano banditi oppure vengano tollerati solo
quelli che fanno parte dell'immaginario scientifico-aziendale, al mercato
dell'immagine ammesso dalla collettività. Donne tutte uguali cui
si cambiano i connotati, non una spinta alla singolarità ma una
via verso l'uniformità. Questo fa parte dell'ideologia del nostro
mondo globalizzante. Anche il corpo femminile viene globalizzato e uniformato
a un'immagine. È la spinta al godimento che ci uniforma tutti.
In quale
fantasma si possono situare le donne che soffrono di disturbi alimentari
che incontro?
Innanzi tutto le adolescenti, le giovani le donne che vengono all'ABA,
hanno madri che stanno ancora nel mandato patriarcale, senza essere tuttavia
riparate dal patriarcato, sono donne non sfiorate dal femminismo e dalla
pratica della libertà femminile. Sono perlopiù coppie sposate
in cui l'uomo, il padre, ha dato una delega assoluta alla moglie considerata
una madre perfetta.
Se con il sintomo della figlia si apre per loro una domanda e vengono
all'ABA e iniziano un lavoro individuale o di gruppo, iniziano a vivere
necessariamente nel loro percorso sia il femminile che la libertà
femminile, perché essa è la condizione inevitabile perché
la domanda della figlia possa trovare una risposta.
Infatti,
qual è la domanda della figlia?
La domanda della figlia è di iniziare una nuova genealogia, inserirsi
in un simbolico materno e soprattutto femminile - non trascurerei affatto
questo ultimo termine - nuovo.
Le figlie vengono a chiedere di tagliare la catena che le tiene legate
a detti, a assiomi, a leggi superegoiche materne che le hanno portate
all'annientamento.
Questa mia
esperienza mi riporta a una citazione tratta da Parole che le donne usano
per quello che fanno e vivono: quello materno "è un potere
in gran parte buono (
) ma è anche un potere senza regole,
dove la protettività diventa facilmente iper-protettività,
dove l'indipendenza è spesso ostacolata o vissuta come tradimento,
dove premi e punizioni (affettivi) abbondano. E' un potere che ha una
valenza dispotica perché, nell'esercitarlo le emozioni e gli affetti
la fanno da padrone, anche contro la ragionevolezza e la capacità
di mediazione".
C'è una trasmissione in atto, ma questa trasmissione è ben
dentro nel profondo, non solo del legato patriarcale, ma anche nella bocca
della madre che desidera pulsionalmemte divorare il proprio frutto.
Da questo atto divorativo la figlia non ha la forza di distaccarsi, presa
com'è da questa libido della bocca, che è anche la propria.
Senza l'autorizzazione dalla madre, la figlia incontra, nella separazione
stessa, il segno della propria morte e della morte dell'Altra, della madre.
Il luogo
di cura diventa allora il luogo dell'autorizzazione, innanzi tutto alla
vita, una volta liberata dal fantasma annichilente della divorazione.
Il poter usare la pulsione orale non per divorare ed essere divorati,
ma per mangiare ed essere mangiati, è la condizione indispensabile
per poter amare ed essere amati. Non ci si può avvicinare ad un
altro con la bocca troppo larga. Questo passaggio è evidente nel
libro di Paola in cui la relazione tra le ragazze è possibile,
e iniziano a vedersi non solo come bocca o come immagine, quando la relazione
con il cibo si allenta. E' lì che si possono consolidare le amicizie
e le alleanze.
Spesso troviamo
un voto di morte che pesa su questa genealogia familiare.
"Meglio morire che partorire". Questa è l'enunciazione
che abbiamo talvolta trovato al centro della vita di giovani donne, al
limite della morte fisica e/o psichica, inscritto già nella nonna.
Su questo
punto del voto di morte ho pensato di portare ulteriori esempi che possono
contribuire al nostro lavoro.
Tatiana ha un vissuto gravissimo di anoressia-bulimia con ricoveri ospedalieri
per una diagnosi di sindrome da immunodeficienza, non essendo in grado
i medici di diagnosticare un comportamento anoressico durante ben 12 anni,
durante il quale in cui Tatiana è ridotta all'osso, emaciata con
tutti i segni dell'anoressia.
E' impensabile, perché Tatiana è stata ricoverata in un
Centro famoso per la cura dei tumori e ha fatto perfino delle conferenze
sulla sua sindrome !! Ben sapendo del suo comportamento.
La settimana scorsa Tatiana ha finito la cura in un gruppo ABA dicendo
che a me e al Gruppo deve la vita. Era stata Tatiana a dire al gruppo
che lei "era preda della linfa mortifera che sazia".
Il termine "preda" è qualcosa che caratterizza Tatiana,
in quanto la bambina e la giovane, già sposata quando arriva all'ABA,
era totalmente preda della madre e questo essere preda della madre l'aveva
portata a fare altri cattivi incontri nella sua vita, in particolare con
uno zio perverso che si propone di diventare il suo pigmalione e si alleva
la preda valorizzandola e seducendola (proprio nel senso di "se ducere")
fin dalla prima infanzia per poi passare all'atto nell'adolescenza, quando
la ragazza è già malata, con la compiacenza più o
meno conscia della moglie, la zia della ragazza. Tutte le donne della
famiglia, madre, nonna compresa, sono particolarmente sedotte dal fascino
del "maniaco" così come lo chiama Tatiana.
Tatiana arriva da me con una forte depressione che tiene a bada con un
numero infinito di rituali ossessivi che le impediscono di vivere, con
una soggezione totale alla madre (ma anche alla sorella e alla suocera),
cui chiede che cosa mettersi addosso fin dal primo mattino, che le compra
i vestiti e perfino le calze.
Tatiana vive una tale "luna di miele" con la madre che della
madre raccoglie i capelli e i fili degli abiti e degli scialli che perde
e ne fa un gomitolino che mette tra i suoi gioielli. Un oggetto feticcio
della madre, come è lei per la madre e la madre per lei.
La madre aveva cercato di abortirla, non ci era riuscita e diceva che
Tatiana "era come non averla" in quanto era una bambina tranquilla
che non si allontanava mai dalla madre, e non mancava mai di aggiungere
al suo commento "e pensare che non la volevo".
Con il suo gesto Tatiana suggella come l'oggetto scarto può essere
proprio l'oggetto prezioso.
Queste ragazze si trovano tuttavia in questa posizione di oggetto-scarto
che porta il segno dell'identificazione della propria madre a sua volta
nei confronti della propria madre e più in su finché se
ne ha memoria.
Infatti, ricostruendo con Tatiana la storia materna, troviamo che la madre
ha occupato il posto della vergogna della nonna, madre della madre in
quanto nata prima del matrimonio in un ambiente di montagna patriarcale.
"Meglio morire che abortire".
Il nonno aveva in seguito sposato la nonna, ma intanto la madre di Tatiana
era vissuta nascosta dal mondo, come in effetti ha poi vissuto Tatiana.
Per esempio non andando a scuola con la scusa di qualche malanno, con
la complicità della madre.
Tatiana vuole che il suo dolore e in particolare l'abuso dello zio sia
riconosciuto dalla madre. Io incontro la madre: una madre ossessionata
dalla magrezza delle figlie, nel senso che è lei a suggerire una
dieta alla figlie alla soglia della pubertà per andare al matrimonio
di una cugina. Si è poi ritrovata con una figlia anoressica e la
maggiore obesa.
La madre arriva da me con il marito: è una donna chiusa, ferita
che alla fine del colloquio mi dirà che suo cognato è un
uomo perbene e la figlia vuole farla morire.
Un colloquio che termina in un fallimento. Tatiana dovrà fare da
sola. Il padre è più indignato, ma neppure lui affronta
"il maniaco" come Tatiana deriderebbe.
DISCUSSIONE
A causa di un disguido nella registrazione, la discussione è solo
parziale.
Giuliana
Grando: alla fine di questa mia esposizione dei casi clinici mi rendo
conto che erano tutte ragazze abusate. Anche le analiste hanno un inconscio,
e ho messo lì tutti casi di abuso. Non è che anoressia è
necessariamente abuso - anche se c'è un'incidenza rispetto a questo.
Mi chiedo come mai c'è questo padre espulso, tutto godimento, che
può abusare della figlia e dove sia un padre cosiddetto simbolico.
Questa è una questione: un padre che è fuori legge.
Siamo in un mondo in cui la legge c'è poco, vediamo la scuola per
esempio, le relazioni con gli insegnanti, il bullismo tra i ragazzi, la
difesa dei figli rispetto agli insegnanti da parte dei genitori
Mi diceva un'amica maestra che è arrivata una madre con una bambina
di 7 anni dicendo "maestra tolga questo giocattolo dalle mani della
bambina che io non riesco". Una volta si usava un bel sano scapaccione
- che io consiglio ancora -, e si tirava via il giocattolo dalle mani.
Adesso non si usa più, ma molte ragazze mi vengono a dire "se
mio padre o mia madre mi avessero dato una sberla, sarei andata finalmente
a letto a domandarmi perché". Invece c'è tutta questa
credenza nel potere della parola, convincimento che si possa spigare tutto:
non c'è nulla da spiegare, si fa un atto, un bel gesto, uno scapaccione,
e si prende il giocattolo dalle mani. Cosa che non è più
ammessa, in questa deriva democratica in cui siamo.
Dove sono questi padri? Il sintomo in sé rileva che in questa passione
della bocca resta solo la passione per la madre. Da questo eccesso della
bocca, rappresentato dalla relazione con la madre, possono trarre una
ricchezza, però passando attraverso un lavoro del negativo in cui
ci si toglie qualcosa di bocca. Occorre togliersi qualcosa di bocca, innanzitutto
i propri figli. Perché la tentazione di rimangiarsi il proprio
frutto è molto grande.
La questione che abbiamo visto è che la pubblicità è
una conseguenza, non una causa dei problemi alimentari: se vediamo in
pubblicità che tra la donna e il gelato si preferisce il gelato,
questa è una conseguenza.
La questione è che c'è una de-sessualizzazione, una de-erotizzazione
rispetto all'altro, perché la relazione crea più difficoltà,
c'è più frustrazione, e per questo c'è una valorizzazione
dell'oggetto-cibo.
Una ragazza mi ha detto: "dovevo andare in montagna con gli amici,
invece sono andata in una pasticceria, mi sono comprata dieci paste e
in un'ora ho fatto tutto: le ho mangiate e le ho vomitate". Mi spiegava
che se fosse andata in montagna poteva essere contenta, non contenta,
c'era lo scarto, la frustrazione che ti dà la relazione con l'altro
- mi ama/non mi ama, mi vuole/non mi vuole - , mentre il frigorifero o
la pasticceria è prevedibile, è scontata, è lì,
come dice Paola nel libro, hai il tuo oggetto e hai un "assoluto"
controllo dell'oggetto. Non assoluto, perché poi la bulimica deve
vomitare per non ingrassare. Con la bulimia si prendono due piccioni con
una fava: si prende la pulsione orale e si mantiene il normopeso.
Luisa
Muraro: Ida Dominijanni finisce il suo testo con un'avvertenza che
io penso debba essere tenuta presente. Dice di fare attenzione che tutto
questo interrogarci non porti a invocare un ritorno dei padri. Bisogna
tenerlo presente perché non bisogna fantasticare: i padri non ci
sono mai stati, anche quando c'era un'altra cultura. I fatti di cronaca,
poi, sono illuminanti. Due o tre anni fa i giornali hanno raccontato di
un padre di Torino che era ben presente con la figlia anoressica, e poi
non ne poteva più e le ha sparato, perché la sfida della
figlia all'autorità del padre era intollerabile. Suggerisco anche
di considerare la necessità di interpretazioni culturali. Capisco
tutto quello che si dice, ma non bisogna esagerare sulla dimensione patologica.
Suggerisco di considerare che le persone possono mangiare molto, o poco,
o nulla, cercando dei significati culturali a questa cosa. Qui è
stata citata la santa anoressia. La società medievale, per esempio,
a queste donne che volevano passare i limiti dava un significato. È
quello che oggi manca: il senso e il significato. Ho sentito troppo cose
patologiche. Ci vuole una maggiore accettazione delle particolarità
e dei comportamenti delle persone, proprio sul cibo siamo arrivati a un'esasperazione
pazzesca. Quando ci siamo trovate dopo le vacanze, non sul cibo ma sull'aspetto
fisico, io non ho sentito altro che commenti sul peso, finché ho
segnalato che sono discorsi pericolosi, continuare a dire "hai perso
peso!".
Qualcuna qui ha nominato la politica. Noi abbiamo delle giovani generazioni
- e questo per la società è un fardello - che non si appassionano
di politica, e noi delle generazioni non giovani dobbiamo portare il fardello
di una lotta politica con giovani generazioni che non riescono ad appassionarsi
di politica, di altre cose sì, ma che poi riconducono a un narcisismo
e individualismo. Che ci sia più appassionamento politico e meno
patologia.
Anche il dibattito di stasera è interessante ma manca di una dimensione
politica. Nel testo di Ida è fortissima, non che manchi completamente
qui, ma non sfocia in una dimensione politica.
La fine del patriarcato è un grande risultato. E c'è da
rimettere al mondo dei veri padri: non erano padri quelli di una volta,
erano dei padroni, spesso dei gran stronzi in casa. Non so se questo permettesse
che ci fossero meno anoressiche, ma io dico vivaddio, meno padroni e qualche
anoressica in più, perché altrimenti andiamo verso l'ansia
di un congegno della normalità. Comunque le cose dette qui, soprattutto
i passi del libro letti, sono eccellenti. Così come apprezzo che
ci siano donne come Giuliana Grando, che io conosco da tempo, che hanno
la capacità, il dono e la pazienza di fermarsi ad ascoltare delle
donne, madri o figlie, che hanno una sofferenza e hanno voglia che qualcuna
le ascolti con la dovuta intelligenza.
Non voglio fare un discorso reazionario, che respinge. Voglio solo dire
che bisogna che infettiamo quello che andiamo dicendo con la dimensione
dell'agire politico, che nella politica delle donne è stata una
grande risorsa di vitalità e libertà, ma non necessariamente
di salute mentale. Possiamo essere anche un po' nevrotiche, isteriche,
anoressiche, bulimiche, sì, lo siamo, ma se c'è una capacità
di stare al mondo con una certa relazionalità, questo è
importante.
Una presente:
Vorrei fare un discorso più trasversale che riguarda tutte le donne.
Innanzi tutto si è persa la cultura del fare da mangiare, del saper
utilizzare gli elementi primari di una buona e sana cucina. Si è
persa la cultura più arcaica del saper fare. Secondo punto: la
signora Livia Turco si renderà conto che il prezzo del pane e del
latte, alimenti primari di tutti, sono aumentati enormemente, e con mille
euro non si può acquistare cibi biologici che costano. Terzo, l'istituto
dei tumori ha fatto un programma per le donne malate di curarsi con l'alimentazione,
e bisogna curare questa cultura trasversale, soprattutto per le donne.
Una presente:
Quello che diceva lei nell'ultimo intervento si lega a quello che diceva
Luisa, di metterci dentro un po' di politica. È un discorso giusto
metterci la politica, ma parlare di queste cose e chiederci perché
è importante, non si tratta di patologia. Per esempio il discorso
che si faceva prima sul godimento. Sappiamo che è qualcosa di immediato,
lo soddisfo adesso. Questo significa pensare esclusivamente al presente,
e questo ci riporta al nostro tipo di società che è schiacciata
fortemente sul presente, non c'è passato, non c'è futuro,
ci sono le veline, i cartelloni, la giovinezza. Questi sono tutti messaggi
che girano, come un carosello, continuamente, e vengono introiettati attraverso
l'arte, la musica, la politica - ci sono i politici che si mettono capelli
nuovi in testa e hanno settant'anni. L'immagine del presente è
quella che funziona, che deve colpire l'immaginario.
Mi chiedevo come la politica delle donne si è mossa in questi cinquant'anni
rispetto all'immagine della donna, della donna che cresce, che si inserisce
in un'organizzazione sociale a base maschile, e non ci sono donne, anche
con cariche pubbliche, che dicono NO.
Io mi chiedevo: queste donne si pongono la domanda del futuro? Avere il
godimento o non averlo è una questione che si risolve nel presente.
Mi chiedo se questa domanda sul futuro c'è. Se non c'è un
aggancio col passato e col futuro, agganciare i ragazzi sulla nostra politica
diventa difficile.
Una poeta:
sono una poetessa civile. Io sono impazzita perché sono troppo
moderna, non mi hanno dato la parola. Ma sono anche guarita. Mi sono laureata
in medicina per riconoscenza, e ho lavorato con gli psicotici. Visti nel
parco sembrano bambini disperati, sono persone non cresciute. E questo
vale anche per le anoressiche. Si dice sempre che le donne hanno la passione
del fallo, ma ci sono anche gli uomini che hanno la passione della vagina.
Entrare nel proprio sesso giusto è faticoso per tutti e due.
Floriana
Lipparini: Se questa problematica è legata a una questione
di vuoto, mi viene in mente la Arendt che dice che la felicità
è l'agire pubblico. A me sembra che non ne abbiamo abbastanza:
va bene, il patriarcato è al tramonto, speriamo, ma non c'è
stata quella presenza pubblica che secondo me il vuoto un po' lo riempirebbe.
E molte patologie potrebbero avere una relazione con questo vuoto.
Luisa
Muraro: le donne in questo tempo hanno fatto un grande cambiamento,
sono presenti, vogliono esserlo, magari non abbastanza e vogliono esserlo
di più. Non inseguiamo lo schema "per stare meglio dovremmo
fare questo o quello". Non staremo mai veramente nella salute, avremo
sempre dei fardelli ed è bene che chi non ce la fa a reggerli trovi
qualcuna, qualcuno che li ascolti. Ma la follia, lo squilibrio, il corpo
che ingrassa troppo, quella che vuole troppo dimagrire, quello che si
chiude in casa e scrive poesie - attività assolutamente borderline
- queste cose qui ci sono. La differenza dell'uno e dell'altra, vanno
vissuti e accettati. Il criterio è quello di esistere, di avere
un minimo di piacere e di godimento e anche di prospettiva, come è
stato detto: c'è un futuro davanti a noi, c'è un passato
dietro di noi. È in questa dimensione politica che va messa anche
la sofferenza individuale della malattia psichica. È nella dimensione
della prospettiva politica e non dell'essere meno malati, perché
la dimensione umana si può considerarla come il principio, la causa
il fomento di quello che chiamiamo malattia.
A questo proposito ho una critica da fare a Ida quando parla del sintomo
isterico. L'isteria è una condizione che può diventare addirittura
una scelta. Non è un sintomo, è molto di più. È
un atteggiamento profondo e una condizione che si può respingere
e allora diventa sintomo, ma si può anche vivere e tradurre in
cultura, pensiero, sapere. Io faccio il discorso dell'isteria perché
di questo ho scritto, ho parlato e so qualcosa, non so se si possa dire
lo stesso per l'anoressia. Certo che ne hanno fatto un tale ambaradan
che qua un'anoressica deve nascondersi, sembra che non si possa voler
digiunare, che sia proibito digiunare, e c'è gente che vuole digiunare.
Sara Gandini:
a me interessa quando Ida dice della difficoltà a trovare lo spazio
per l'altro. Per me questa è la questione. Uno dei nodi politici
è l'incontro con l'altro sesso. Da quando c'è stata la libertà
femminile, che per me ha voluto dire l'incontro con l'altra donna, con
il piacere dello scambio, nello stesso tempo sono iniziate le difficoltà
con l'altro sesso. Mi ritrovo con questi uomini in difficoltà a
risignificare la loro mascolinità e a metterla in gioco nella relazione
con me. Se noi parliamo di relazione di differenza dobbiamo capire cosa
diciamo, se ci sono relazioni feconde dobbiamo cominciare a raccontarle,
perché la distanza tra i corpi segna fortemente la mia generazione.
Paola
Balzarro: volevo dire una cosa che risponde al titolo dell'incontro
collegandomi a quello che diceva Luisa, di non considerare questo mondo
solo come una patologia da curare, bonificare per riportare tutte quante
a una presunta normalità.
Noi che soffriamo di disturbi alimentari abbiamo una tendenza a volere
tutto o niente. Sicuramente se una la applica al cibo e basta è
distruttiva, perché non posso mangiare tutto o non mangiare niente,
però è un'esigenza che andrebbe rivalutata. È un'esigenza
di radicalità, che io ho trovato anche una cosa preziosa. In un
mondo in cui la radicalità non è un elemento forte, il desiderio
di radicalità delle anoressiche e bulimiche è da valorizzare.
Probabilmente spostandola - nel libro lo racconto.
Mi è stato suggerito di spostare questo grande desiderio di trasgressione
dal cibo al mondo, di imparare a trasgredire cose più importanti.
Nel mio atteggiamento rispetto al cibo c'è un forte desiderio di
trasgressione: se mi dicevano "non devi mangiare la cioccolata"
io ne mangiavo 24 tavolette e non la vomitavo, le tenevo tutte - poi si
paga alla lunga. E c'è anche una trasgressione rispetto ai modelli:
mi volete bella? No, io non voglio essere bella, magra. Questa cosa se
applicata solo al cibo mi porta a non avere più le ginocchia a
non poter più camminare e fa cortocircuito, e non posso rivendicarla
fino in fondo perché banalmente non riesco a fare le scale.
Quindi bisogna trovare un punto di ragionevolezza, di svincolo, che non
porti alla morte o alla morte sociale.
Ma il bisogno di trasgressione e di radicalità è molto importante
e queste pazzerelle bulimiche, anoressiche, obese forse potrebbero tirarlo
fuori, e chissà cosa succederebbe se lo portassero fuori.
Giuliana
Grando: noi non parliamo del cibo con le ragazze. A questa radicalità
di cui parla Paola devo opporre il "primum vivere". Sull'osso
non si radica niente, non possiamo lavorare sull'osso, e cerchiamo di
convincerle ad andare in ospedale. Bisogna tener conto del reale del corpo,
che ha le sue leggi che non sono leggi della mamma, del papà o
dell'analista. Non c'è dialogo con l'osso, con la carne sì.
Il significante incide sulla carne ma non sull'osso. Questa radicalità
non si può portarla alle estreme conseguenze, almeno bisogna rispettare
il "primum vivere".
Non parliamo mai di cibo, ma di relazione col mondo e con l'altro. Chissenefrega
del grasso e del magro, la questione è la relazione con l'altro
perché c'è un ritiro dall'appetito che è un ritiro
dal mondo, totale.
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