4
luglio 2011
Il Dovere di Puntualizzare
di
Sguardi sui generis
Domenica
3 luglio arriva, atteso, l'assedio della Val Susa. Arriva dopo una settimana di
terrorismo psicologico sui maggiori quotidiani nazionali volto a spargere paure
e timori tra le persone. La Stampa di qualche giorno fa, per esempio, intimidiva
i cittadini con i suoi titoli cubitali del tipo: "I pacifici cittadini non
devono salire" oppure "si preparano i violenti da ognidove". La
gente della Valle - come quella proveniente da fuori e solidale alla causa No
Tav - tuttavia è abituata a riconoscere le menzogne di carta e non si lascia
ingannare. Anche questo, in fondo, è il significato del grido ripetuto:
La Val Susa paura non ne ha! Non ha paura dei contingenti schierati e neppure
delle minacce degli scribacchini, schierati anch'essi dalle più disparate
forze politiche. Non teme classificazioni, distinzioni e limitazioni ideologiche.
Ha soltanto voglia di esserci, di partecipare e di lottare.
Arriva
così la giornata di ieri, carica e forte di una presenza di numeri e di
spirito che i giornali di oggi non sanno né contare né descrivere
e, ancor meno, riescono a capire. Arriva, accompagnata dal ricordo di un lunedì
mattina - quello precedente - in cui il fumo dei lacrimogeni oscurava il sottobosco
dei vigneti della Valle. In cui una pinza di oltre tre metri lavorava senza visibilità
a pochi centimetri dai corpi delle persone che difendevano il presidio della Maddalena,
mettendone così a rischio l'incolumità. Arriva portando con sé
l'eco dei passi svelti delle fughe nei boschi - per ore, sotto il sole a picco
- incalzati dal lancio fitto di gas lacrimogeni. Arriva dopo le immagini del campeggio
devastato, delle tende tagliate e degli oggetti personali riempiti di piscio ed
escrementi da parte delle forze dell'ordine, delle ruspe e dei deserti che emergono
dalle loro operazioni, delle roulotte ribaltate, della cucina popolare presa a
calci. Arriva con la notizia - totalmente oscurata dai media - di una signora
investita e uccisa in una stazione di servizio dalle manovre di un blindato della
polizia. Arriva, portando con sé tanti altri ricordi e immagini depositati
nei cuori della gente e nella terra della Valle in oltre vent'anni di lotta popolare.
Una resistenza che ha impedito e impedirà la costruzione di un opera dannosa
e inutile.
Ieri è stata una giornata importante in cui si è dimostrata,
ancora una volta, la determinazione No-Tav. A chiunque oggi è chiaro che
scavare e lavorare in Val Susa non sarà possibile. Di fronte al dato di
realtà - una realtà scomoda e che fa paura - non si trovano armi
migliori che goffe delegittimazioni, teoremi paranoidi incentrati sulla distinzione
buoni/cattivi e - come ovvio - la promessa di una repressione giudiziaria durissima.
I cliché e i déjà-vu a cui si attinge si riducono a pochi
argomenti a cui può essere utile sollevare alcune obiezioni sia di natura
meramente logica che di stampo più marcatamente politico.
Il primo argomento
esibito con pedanteria quasi ossessiva da tutti i media mainstream è quello
delle infiltrazioni di una frangia di violenti - i famigerati black bloc - che
spaccherebbero il movimento in una parte buona e una parte cattiva. Quella buona
- manco a dirlo - pacifica, colorata e legittima; la cattiva, al contrario, violenta
e illegittima. Si pretende che questo schema abbia un senso senza neppure soffermarsi
sulla complessità di ogni categoria politica. Il nostro paese, ad esempio,
ha partecipato a tutti gli interventi militari degli ultimi anni che hanno causato
migliaia di morti civili. Coloro che hanno supportato questi interventi e ne hanno
osservato le conseguenze standosene seduti comodi sui divani di casa sarebbero
non-violenti? Il nostro paese, per fare un altro esempio, è diretto responsabile
- insieme ai partner europei - delle migliaia di cadaveri, uomini e donne annegati
senza soccorsi nel mediterraneo. È questa una politica legittima? Questi
controesempi (se ne potrebbe fornire un elenco pressoché interminabile)
mostrano la complessità che si cela dietro a quelle parole che oggi ci
vengono proposte come categorie granitiche che spiegano tutto.
L'assurdità
dello schema buoni/cattivi, tuttavia, non necessita neppure di troppa sottigliezza
analitica per scoprire basi di cartapesta. La narrazione tossica che viene proposta
racconta la storia di una maggioranza di pacifici idioti e acefali continuamente
agita da una minoranza di cosiddetti "professionisti della violenza".
Ma si può continuare a trattare come una massa di inconsapevoli migliaia
e migliaia di persone che decidono di impegnare il loro unico giorno libero in
una lotta civile in cui credono da anni? Si pensa davvero, dalle testate dei maggiori
quotidiani come dai vari gabinetti della politica, che questa gente sia tanto
deficiente? Può una democrazia - o qualcosa che si definisce tale - considerare
i suoi cittadini così mentecatti? O forse dovrebbe più onestamente
accettare il fatto di non riuscire a dire e a capire ciò che vogliono i
suoi cittadini?
Che dire poi della minoranza dei cattivi. Le contraddizioni
sono tanto lampanti da offendere standard minimi di capacità logica. Questi
professionisti infatti sarebbero sempre pochi, isolati dalla gente per bene, alieni
ai contesti in cui improvvisamente piovono dal cielo. Eppure, poi, ce li si ritrova
dappertutto, invincibili e forti, capaci di tenere in ostaggio qualsiasi protesta
si dia nel mondo. Di fronte a questo quadro è possibile trarre soltanto
due conclusioni. Se si accetta che le due premesse sono vere - ovvero che questi
pochi alieni si muovono nel mondo con tanta capacità di azione - bisognerà
allora riconoscere a questa minoranza lo statuto di una sorta élite. Un
gruppo dotato di capacità cognitive e pratiche superiori alla media (la
media di quelle masse che - sempre stando al teoremino - saprebbero così
bene dominare e manipolare) a cui sarebbe allora più saggio affidarsi che
contrapporsi.
Al contrario si può avanzare il dubbio che le due premesse
(maggioranza buona e minoranza cattiva) non siano vere. Che siano false entrambe,
che non esista questa supposta distinzione. Una buona regola di pensiero - per
cui si potrebbe scomodare la figura del cosiddetto "rasoio di Occam"
- suggerisce, qualora ci si imbatta in tentativi di comprendere il mondo, di eliminare
le ipotesi artificiali e cervellotiche per saldare il proprio ragionamento su
assunti più lineari. Più chiaramente: per introdurre nel ragionamento
il minor numero possibile di elementi inverificabili e accessori. Se, infatti,
si accetta l'ipotesi complottistica delle infiltrazioni dei cattivi bisognerà
rispondere a una serie di domande del tipo: in che modo la minoranza controllerebbe
la maggioranza? Perché quest'ultima non dovrebbe essere capace di liberarsi
di ipotetici intrusi? Perché, sempre la suddetta maggioranza, tornerebbe
a casa felice dopo una giornata come quella di ieri? Perché fischierebbe
a ogni lancio di lacrimogeni? Perché distribuirebbe limoni e acqua a tutti
coloro si siano avvicinati maggiormente agli agenti schierati? Ma non sono i cattivi
quelli davanti? Etc, etc...
L'ipotesi buoni/cattivi rende inspiegabili i comportamenti
reali delle persone nelle situazioni di protesta e di lotta. Di fronte a tali
e altri presunti misteri (naturalmente taciuti dai media che non possono scoprire
la propria idiozia con eccessiva sfacciataggine) converrebbe forse provare a ragionare
a partire da altre ipotesi. É, ad esempio, tanto improbabile pensare che
uomini e donne decidano di mettersi in gioco in modi diversi e reciprocamente
solidali per una causa comune? Non di agire della violenza gratuita e a-relazionale
(questo sarebbe lo scontro per lo scontro di cui si va vaneggiando), ma, piuttosto,
di cercare di rendere efficace la forza collettiva. Alla luce di questa ipotesi,
a ben vedere, molti comportamenti appaiono di gran lunga più comprensibili.
Il signore anziano occupa le retrovie battendo con un bastone sul guard rail mentre
il più giovane si avvicina maggiormente alla recinzione semplicemente perché
è meno rapido e agile del secondo. La ragazza si sporge dal ponte perché
- beata lei - possiede un casco che ne protegge la testa, mentre un'altra si stanzia
qualche metro più indietro perché è sfornita di protezioni
e segue l'azione con lo sguardo vedendo se qualcuno ha bisogno di sciacquare gli
occhi. Nessuno se ne va, ognuno fa la sua parte secondo le proprie possibilità
fisiche e psicologiche.
La resistenza al dolore e ai lacrimogeni è
differente, la paura non è per tutti uguale, le esperienze sono differenti,
le capacità fisiche mutevoli. Persino il grado di convinzione non è
il medesimo tra le persone che assediano la Valle. Queste e altre sono le distinzioni
reali che assegnano ruoli e posizioni differenti durante la lotta. Nessuna separazione
metafisica tra buoni e cattivi, violenti e non-violenti, armati e disarmati. Tutti
e tutte assediano la Valle e non se ne vano fino a sera. Questo è il dato
che non si è voluto sottolineare perché contraddice palesemente
i teoremi che cercano, disperatamente, di minare la determinazione del Movimento
No Tav.
Il
racconto delle infiltrazioni violente viene inoltre colorito con dettagli grotteschi
sulla provenienza estera dei cattivi black bloc. Si rincara la dose sottolineando
come molti - tra cui i cinque fermati dalla polizia - non fossero nativi della
Valle e dunque infiltrati, gente che con la Tav non centrerebbe un bel niente.
Anche su questo punto, tuttavia, è necessario operare un po' di pulizia
logica. Quando si sponsorizza la Tav, questa viene descritta come un'opera volta
a tutti, portatrice di progresso e benessere decisamente extra-valligiani. Per
Chiamparino, ad esempio, almeno stando alle sue dichiarazioni di qualche giorno
fa, l'alta velocità si presenta come uno strumento indispensabile della
storia. Armato della più ottocentesche delle categorie filosofiche - quella
di progresso - l'ex sindaco di Torino sembra quasi attribuire alla Torino-Lione
un valore universale. La litania pro Tav, d'altra parte, non fa che ripetere che
un gruppuscolo di valligiani viziati e capricciosi non può certo ostacolare
la costruzione di un'opera che riguarda il futuro di tutti. Quando, però,
a dire no alla Tav questi "tutti" cessano di essere una figura retorica
utile alla propaganda e si presentano in carne ossa, improvvisamente li si accusa
di non centrare più nulla con la questione.
É il caso di mettersi
d'accordo. Delle due l'una: la Tav riguarda solo la Valle oppure riguarda tutti.
Non si può sostenere che l'opera sarebbe utile per chicchessia e poi dire
- smentendosi - che, se chicchessia non è residente in Valsusa, deve farsi
i fatti suoi e basta. Ogni volta che si palesa l'eterogeneità del movimento
no-tav, imprevedibile e incontrollabile, si vuol far credere che la protesta non
appartenga legittimamente a nessuno. Sostenere - arrampicandosi sugli specchi
- che la protesta è legittima e che, al contempo, non sono legittimi coloro
che protestano è un modo solo un po' confuso e sofistico di delegittimare
tutto il movimento. Leggendo certi articoli apparsi oggi viene quasi in mente
l'azzeccagarbugli manzoniano! Dopo aver tartassato l'intero paese elogiando l'utilità
nazionale dell'opera (si sono forse scordati della pubblicità progresso
in arrivo?) ecco che tuonano contro un ragazzo di Pescara, un meccanico di Maranello,
un disoccupato di Venezia, un fattorino di Modena e una studentessa di Parma (così
Repubblica e La Stampa ci descrivono gli arrestati) colpevoli di essere a Chiomonte
pur "non centrando nulla con la Valle". Insomma, ma chi riguarda la
Tav? Non sarà forse che ieri - come in molte altre occasioni - sono le
persone stessa a voler decidere cosa ha a che fare con le loro vite e cosa no?
Che sia questo ciò che in fin dei conti non va giù a nessuno, né
a destra né a sinistra?
Un
ulteriore questione su cui porre l'attenzione è quella dell'organizzazione
della protesta che viene chiamata violenza. Il repertorio di immagini e formule
utilizzate per descrivere le azioni di assedio condotte ieri dai manifestanti
è variegato e bizzarro. I giornalisti danno sfoggio di un po' di creatività
e dell'unico margine di libertà di cui sembrano disporre: infiocchettare
in modi diversi un copione già scritto. Sorprende sempre un po' notare
la grandezza e la convinzione di titoli che sembrano annunciare la scoperta del
secolo e che poi ti propongono articoli triti e ritriti. La cronaca ha davvero
così poca memoria da non notare i propri déjà-vu? E, d'altronde,
come dovrebbe essere il mondo visto e raccontato dalla parte di coloro che vogliono
che mai nulla possa cambiare se non una ripetizione noiosa e stucchevole? Il tempo
omogeneo e vuoto del potere in cui non succede mai nulla, infatti, non può
che affidarsi al cronista come suo unico misero narratore. Figura triste, governata
dalla pigrizia del cuore e da qualche misera ambizione. Passioni negative riversate
copiosamente sulla carta stampata.
Là dove i giornalisti si sbizzarriscono
nel descrivere ciò che etichettano come violenza, la politica istituzionale
si schiera compatta nella condanna. Si citi come unico esempio la posizione del
Presidente Napolitano. Fermare, isolare, colpire, perseguitare, arrestare i violenti.
Chi più ne ha più ne metta con le minacce forcaiole. Qualche editorialista
più raffinato attinge a tutta la propria erudizione per affermare, pur
tuttavia, le stesse ovvietà (che delusione professor Galli!). Si è
già detto sopra della complessità delle parole, ma qui non si intende
fornire una proposta analitica. Interessa, piuttosto, mettere in evidenza una
questione elementare. L'unica, tuttavia, a contare qualcosa. La Tav è oggetto
di un significativo conflitto civile e politico in cui si affrontano/scontrano
due posizioni nette che, nel tempo, non hanno trovato una mediazione convincente
per entrambe le parti. Questo è il dato da cui è necessario partire.
Forse a qualcuno piacerebbe fosse andata diversamente, ma di fatto le cose stanno
così. A questo punto le due posizioni, che entrambe vogliono avere la meglio
(per nobili motivi una e per ignobili profitti l'altra), devono trovare strategie
per vincere. Questa è la politica.
Puntualizzazione necessaria viste
le esternazioni del signor Virano (sempre che affermazioni tanto interessate debbano
seriamente essere prese in considerazione!) La politica, appunto, e non la morale.
Il movimento No-Tav non è un movimento di anime belle, di giusti e puri,
fondato su una legittimazione morale da difendere o perdere. È un movimento
di uomini e donne dalle condotte e convinzioni morali ovviamente differenti e
che è davvero poco interessante sondare. La sua legittimità è
politica e tale dev'essere la sua valutazione. Domenica 3 luglio, dunque, ci si
trova nella seguente situazione: bisogna individuare una strategia per impedire
che il cantiere da poco avviato (avviato solo grazie alla militarizzazione massiccia
della zona) possa lavorare nel tempo. Si decide di assediare la zona, avvicinandosi
in corteo da diversi punti della Valle. Assediare una zona non significa mettersi
ai lati e salutare gli agenti schierati tenendo in mano palloncini colorati. Significa,
piuttosto, far capire che della porzione di terra contesa non è possibile
disporre a proprio piacere. Non enunciarlo, declamarlo, ma proprio renderlo chiaro,
effettivamente chiaro!
Data questa premessa si possono valutare le scelte del
Movimento No-Tav. Come mostrare l'inaccessibilità della Valle se non cercando
di rendere vane le recinzioni militari di ogni cantiere? Se la posta in gioco
appariva troppo pesante, la contro-parte poteva tranquillamente ritirare i suoi
uomini e dichiarare la resa. In tal caso la giornata si sarebbe trasformata in
quella festa per famiglie che tutti invocano come l'unica possibilità d'azione
no-tav. Per quale motivo ad arrendersi dovrebbero essere i no-tav? E perché
se non si arrendono sono violenti? E per quale motivo un essere umano dotato di
buon senso dovrebbe affrontare migliaia di uomini armati di tutto punto senza
proteggersi e organizzarsi? Perché la lobby si tav non manda i poliziotti
a presidiare il cantiere con palloncini colorati anziché con gas tossici
a tonnellate? Semplice: perché non sarebbe efficace. Perché, allora,
si pretenda che il movimento no-tav disponga di un' unica scelta legittima che
consisterebbe in un assedio colorato di palloncini e volti sorridenti? L'esempio
dei palloncini è patetico, ma si basa proprio sull'immaginario stucchevole
che pretende di ridurre oltre vent'anni di lotta popolare a una sfilata di famigliole
imbranate. Immaginario patetico che tocca il parossismo quando invoca il binomio
donne e bambini per evocare una sorta di innocenza inconsapevole violata dalla
realtà del conflitto.
Curioso che le donne siano sempre accostate ai
bambini. Perché sarebbero loro a dovervi badare anche durante i cortei?
O perché, come gli infanti, sono considerate un po' deficienti e ben si
prestano a costruire lo stereotipo di un Movimento vittima di una minoranza violenta?
Oppure perché la storia della colombella da proteggere va più o
meno sempre bene? È curioso come il potere riesca a perpetuare le sue violenze
e le sue esclusioni in ogni occasione e con ogni mezzo. Ci sentiremo raccontare
che carabinieri e poliziotti difendono le donne native valsusine dalle infiltrazioni
di forestieri cattivi e violenti? Non stupirebbe poi molto, dal momento in cui
molte dichiarazioni apparse sui quotidiani di oggi lambiscono già il confine
oltre a cui il discorso si fa nonsense, distacco dalla realtà. La realtà
di un Movimento fantastico che ha lottato ieri, l'altro ieri, prima ancora e che
certo lotterà in futuro.
Il
laboratorio Sguardi sui Generis nasce all'Università di Torino nel 2010
con l'intento di costituire uno spazio di discussione e crescita sulle questioni
di genere. Un contenitore aperto, dunque, che si pone il duplice obiettivo di
approfondire la formazione teorica e di favorire, al contempo, l'affermazione
di una soggettività collettiva capace di confrontarsi e intervenire sulle
problematiche di genere più attuali.