Dicembre
2011
Miracolo
vero a Le Havre, un film di Aki Kaurismäki
di
Elisabeth Jankowski
Purtroppo
Vincenzo Cerami sulla Domenica del Sole 24 ore intitola la sua recensione "I
buonisti di Le Havre". È vero che le pellicole che cercano di inquadrare
il fenomeno dell'immigrazione potrebbero, più o meno tutte, essere dette
"film buonisti", perché si sa che chi si accinge a girare un
film su questo tema è di parte e vuole esserlo. Mi sembra del tutto legittimo.
Certo, per creare un'opera artistica, come i film d'autore pretendono d'essere,
ci vuole di più di una buona intenzione. Mi sembra che per esempio "Terraferma"
di Emanuele Crialese non ci sia riuscito.
Il film del regista finlandese invece
convince di più anche perché non parla solo dell'immigrazione ma
parla soprattutto di noi. Noi che abbiamo la fortuna di incontrare una persona
che ha bisogno della nostra vicinanza. Ma non solo. Il ragazzo africano di nome
Idrissa, uno dei protagonisti, ci dimostra una gioia di vivere, nonostante il
proprio stato di precarietà, che supera ogni realistico sentire. Ma se
da una parte Idrissa è portatore della tematica dell'immigrazione, dall'altra
è solo un fermento che mette in moto le relazioni interne alle coppie e
al quartiere.
Kaurismäki usa l'immaginazione come d'altra parte fa ogni
fiaba che si rispetti per disegnare a noi un orizzonte che probabilmente avevamo
perso. Sappiamo benissimo che il mondo è cattivo, che le persone non sono
generose, che non sopportano la diversità e che si controllano l'un l'altro
per invidia o per gelosia o per altro ancora. L'immaginazione non è un
lavoro di fantasia. Difatti nel libro di Diotima "Immaginazione e politica"
(Liguori 2009) Luisa Muraro seguendo la filosofa Iris Murdoch spiega la differenza
fra i due termini e dice che l'immaginazione è quella capacità di
non essere intrappolati nel reale ma di non essere neanche confinati nella fantasia
puramente individuale. I nostri protagonisti presentano una felice combinazione
tra virtù e immaginazione che infatti li aiuta a spingere l'agire in una
zona del bene dove il male perde forza ed efficacia. L'idea è quella di
un salto che marca la vita dello spirito nel punto in cui il pensiero cessa di
specchiarsi nella realtà data e l'immaginazione creatrice ha libero corso.
Questo salto permette alla protagonista femminile di dire, alla fine: "La
malattia mi ha lasciato". Quando l'opera d'immaginazione è arrivata
a un happy end la malattia, nel suo caso un tumore allo stadio finale, non ha
più potere su di lei. Come nelle fiabe, le mani precedentemente staccate
con violenza ricrescono e diventano come prima. Sane e attive.
La trama è
raccontata velocemente. Una donna è sposata con il clochard e bohemien
Marcel Marx che ora lavora come lustrascarpe. Lo cura quotidianamente in modo
che non ricada nell'alcolismo e in altri vizi. Vivono in una casa dignitosa ai
margini della grande città, in quella periferia che quasi non esiste più,
e a pensarci è molto meglio della periferia fatta di enormi condomini di
recente costruzione. Sono case, quasi capanne, il punto zero della condizione
umana di tutte e tutti noi. Sono ciò che ci è indispensabile. Niente
di più ma anche niente di meno. Quelle casette ricordano inoltre le case
delle fiabe.
La moglie Arletty e il marito Marcel conducono una vita sordida
nella quale lei si ammala gravemente. Anche nelle inquadrature a tableau vivant
si potrebbe pensare a una Crista sulla croce che prende il male del mondo silenziosamente
su di sé in quanto ha tirato fuori da sotto i ponti quell'uomo che altrimenti
andava a morire. Un'altra donna, la conduttrice dell'osteria, ha un marito in
carcere a cui è fedele. La terza donna confeziona mazzi di fiori nella
sua bottega mentre il marito, dal quale si è separata, si ubriaca all'osteria,
e la quarta, la vicina di casa e amica di Arletty, ha voluto aprire una panetteria
in un quartiere morente come il loro. Le donne sono dalla parte della cura dell'essere
mentre gli uomini sono tutti riuniti al bar Moderne per segnalare una vita ormai
senza senso nella quale ci si tiene comunque compagnia. L'età dei protagonisti,
inoltre, descrive quella generazione che non avrà più molto tempo
per dare un senso alla propria vita. Ma in quest'attesa del niente, il contrario
di quello che succede nella nostra realtà, tutte quelle coppie, anche il
verduraio e la sua sposa, sono fedeli e si sostengono a vicenda. Non solo. Marcel
fa da mediatore per la coppia separata di Bob, il cantante alla Elvis Presley,
e la sua donna fiorista. Grazie al suo aiuto riescono a ritrovare di nuovo il
loro amore indispensabile. Bob afferma contrito che lei è la manager della
sua anima.
La provocazione fiabesca di Aki Kaurismäki è come le
immagini di "unhate" della Benetton che in questo momento stanno circolando
sulla stampa. Vedere qualcosa d'inimmaginabile aiuta, credo, a trovare una strada
per poterci arrivare.