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maggio 2002
da Bambini
APPRENDERE
DALL'ESPERIENZA
Laura Forlin
La lingua altra
Questa riflessione
nasce dopo aver letto l'articolo di Annarosa Buttarelli ("Quando
il linguaggio fa male", Bambini settembre 2001) e successivamente
quello di Anna Maria Piussi ( "Il sapore del vivo", Bambini
novembre 2001).
Anch'io, come loro, parto da me stessa, dalla mia esperienza di maestra
di scuola materna dove nella quotidianità si parla un'altra lingua,
nonostante un linguaggio che vuole far entrare "Il pubblico"
(e quindi anche la scuola materna) nel mercato generale dei servizi, per
renderlo uno tra gli altri venditori di prodotti seriali. (1)
La lingua altra che ho colto, che determina la qualità in più,
è quella del desiderio di lavorare assieme a colleghe di cui si
ha stima e fiducia, quella che accoglie i bambini e le bambine per amore
delle loro madri, quella che fa leva sulla libertà nelle relazioni
interpersonali, quella che, come dice Annarosa, si nutre dell'attenzione
intelligente verso ciò che capita all'altro.
Vorrei partire
dall'esperienza concreta della scuola materna "G.Rodari", situata
alla periferia di Verona, in un borgo fino ad una decina di anni fa rurale
e poco abitato, che recentemente ha avuto e sta avendo, un incremento
industriale (qui si è insediata una nuova zona industriale di Verona)
ma anche edilizio massiccio. Quest'ultimo è di forte attrazione
per le famiglie giovani con bambini piccoli, perché i prezzi sono
meno cari rispetto alla città o a zone più residenziali.
Da una scuola con pochi bambini , tre sezioni riempite a stento, negli
ultimi anni le iscrizioni sono fortemente aumentate fino quasi a non soddisfare
le richieste. A questo sviluppo edilizio, fino ad oggi, non è ancora
corrisposta un'attivazione dei servizi essenziale quali: la farmacia,
una scuola media, un servizio postale, centri sociali per iniziative varie,
strutture per lo sport, e solo da 15 giorni, nel momento in cui scrivo,
è stato attivato un trasporto pubblico più frequente.
In questa
scuola la qualità in più, a mio giudizio, si coglie in modo
particolare.
E' un modo di stare nella scuola che rischia, ritengo, di rimanere nella
non consapevolezza, in quanto non ha il pensiero e la parola che lo qualifichino
simbolicamente.
Fa riflettere il fatto che nei luoghi per eccellenza dove "si fa
cura", come appunto la scuola materna, poco si evidenzi questo aspetto.
Il rischio è quello di perdere la sapienza ed insieme il tesoro
dell'agire, anche educativo, che fa della cura delle relazioni umane il
centro del nostro essere al mondo.
Da anni la
mia attenzione era rivolta a cogliere ciò che accadeva in questa
scuola, le cui maestre erano per me delle pioniere: da molto tempo erano
riuscite ad organizzare la loro scuola nel modo in cui io avrei voluto
organizzare la mia, ma senza riuscirci o meglio riuscendovi solo in parte.
Riconoscere un di più a queste maestre, ha significato mettere
in questo luogo, dove per me si era creato un sapere professionale alto,
il senso dal quale partire per significare l'agire nella scuola dove lavoravo.
A tale riconoscimento inizialmente è mancata una competenza simbolica
che mi consentisse di ritrovare nella loro pratica educativa, e quindi
anche nella mia, il senso profondo delle azioni quotidiane onde darvi
valore.
La cura
non è un metodo né una tecnica
La confusione
primaria per me, che si ripercuoteva poi nella lettura che facevo di questa
e di altre realtà educative, compresa la mia, era sul come essere
a scuola, se far prevalere "il professionale" o "il personale",
con una forte propensione verso il primo.
Tale posizione mi portava a vedere solo agli aspetti didattici ed organizzativi
codificati, (c'erano i progetti da portare avanti, gli incontri con i
genitori dove mostrare quello che veniva fatto, i collettivi dove decidere
le cose pratiche di gestione della scuola e via discorrendo) e quindi
a leggere, in prima battuta, il di più della scuola "G.Rodari"
solo come una maggiore competenza tecnica, tralasciando lo spessore ed
il desiderio soggettivo delle maestre che nella pratica è proprio
ciò che mette in moto e indirizza le scelte, le azioni, i comportamenti,
gli apprendimenti. Insomma che fa il di più.
Le due istanze,
professionale e personale, nella pratica di queste maestre come nella
mia, non erano scisse, ma il nominare la prima e non la seconda, implicava
relegare l'elemento soggettivo, e quindi la loro e la mia personale esperienza
cognitiva ed affettiva, in una zona d'ombra non pensata. La professionalità
risultava monca dell'elemento essenziale della cura educativa delle relazioni.
Il sapere codificato infatti, come risulta essere quello della programmazione
e degli obiettivi didattici, rischia di essere imbrigliato in un linguaggio
che non nomina la cura educativa, come capacità di congiungere,
come tessitura di senso, come relazione dinamica che coglie i reciproci
rimandi (2) affinché
la propria professionalità sia più ampia e si nutra di un
sapere più grande, come capacità progettuale in grado di
resistere a progetti calati dall'alto e di ritagliarsi, in essi, la propria
nicchia esistenziale, il proprio progetto (3), per
reggere lo schiacciamento e la pesantezza delle innumerevoli richieste
ad adeguare la scuola a standard di qualità, nella consapevolezza
dell'impossibilità di incastrare in un progetto preconfezionato
ciò che in realtà vive una vita propria.
Come scrive
Cristina Palmieri: Non si scopre nulla di nuovo, ma si pensa, si riconosce
qualcosa che pare aver sempre accompagnato l'esperienza educativa; così,
si inizia a riappropriarsene con altri occhi, in altri modi. (4)
La scommessa pertanto è quella di concettualizzare
una professionalità più ampia, più profonda, a partire
da quell'incrocio di saperi dell'esperienza, delle maestre, dei bambini
e delle bambine, delle mamme e dei papà (5),
non tanto per problematizzare oltre misura la pratica
piuttosto che la progettazione educativa, ma nella convinzione che solo
a partire da una riflessione che scuota e che connetta all'agire, si possa
avere un'azione educativa che pensi ed un pensiero educativo che agisca
(6).
Il
metodo della narrazione autobiografica, in occasione di un corso di formazione
per le maestre del Comune di Verona, tenuto dalle docenti universitarie
Annamaria Piussi e Letizia Bianchi, è stato per me decisivo per
mettere in parole e quindi in luce, la mia esperienza professionale, a
partire dalla mia storia personale, e quindi anche la scelta di diventare
maestra. Ho creato un ponte, non certo privo di chiaro-scuri, tra la sfera
professionale e quella personale.
Ho preso consapevolezza che la mia storia, il mio essere donna non è
scisso dal mestiere di maestra. Ho imparato a pensarmi intera.
E' cambiata la realtà perché è cambiato il modo di
pensarla e quindi di nominarla.
Anche gli altri ora mi appaiono nella propria interezza e soggettività.
E' cambiato il mio approccio a partire dal riconoscere l'intreccio di
relazioni, di legami e di scambi che nel bene o nel male determina il
nostro essere e la nostra storia.
Lo spostamento simbolico a questo punto è netto.
La cura non è un metodo, uno stile professionale per far andare
meglio la scuola, ma è la modalità sapiente con cui stiamo
al mondo e facciamo civiltà.
La qualità eccellente dei servizi per l'infanzia, concordo con
Annamaria Piussi, va dunque ricercata in quel quasi invisibile lavoro
di tessitura tra bisogni e desideri, tra sentire e pensare, tra cose e
parole, tra corpi e corpi, tra storie diverse, tra ostacoli e risorse,
quel desiderio di far bene il proprio lavoro avendo in mente il bene-essere
di coloro alle/ai quali è destinato, che è l'opera materna
e da sempre l'opera femminile di civiltà.(7)
La politica del desiderio
La conferma
dall'esperienza. Torno quindi alla scuola "G.Rodari".
Per capire la qualità di questa scuola mi sono rivolta alla storia
delle maestre.
Un giorno chiesi alla maestra Miranda qual era il segreto della loro coerenza
nello stile educativo. Già mi immaginavo una risposta del tipo
"abbiamo fatto un lungo percorso di formazione", cosa che poi
avevano probabilmente anche fatto.
Lei tuttavia, molto semplicemente, disse che aveva scelto di lavorare
in quella scuola perché conosceva alcune maestre che già
vi insegnavano e con le quali condivideva una comune sensibilità
personale; così chiese il trasferimento nonostante la scuola non
fosse vicinissima a casa.
E' apparso subito chiaro come Miranda fosse riuscita a mettere al centro,
nel proprio luogo di lavoro, il desiderio di insegnare assieme ad altre
maestre che conosceva e delle quali aveva stima e fiducia. L'autorità
femminile viene pertanto agita, partendo dal proprio desiderio e quindi
da sé stessa, facendosi autorità presso le colleghe alle
quali viene affidato il proprio desiderio, ovvero viene riconosciuta come
necessaria l'autorità simbolica delle altre.
Si crea autorità femminile attraverso un estendersi di relazioni
significative tra donne. Per relazioni significative tra donne intendo
quando una donna per rapportarsi al mondo usa una mediazione femminile.
Questo crea società femminile.
E crea autorità femminile, perché c'è autorità
femminile quando ogni donna per realizzare il proprio desiderio si riferisce
a un'altra donna. (8)
Il riferirsi alla ricchezza di un'altra ha potenziato
il legame di scambio tra le maestre e, pur rimanendo visibili le differenze
personali, ha contribuito a renderle capaci di lavorare assieme e di realizzare
una scuola di speciale qualità.
Accogliere i bambini e le bambine per amore delle loro madri
Sul filo
del ragionamento seguito, molte sono le cose interessanti in questa scuola
ed una fra queste è la relazione con le famiglie.
I colloqui individuali d'inizio d'anno con i genitori dei bambini e delle
bambine nuovi, sono svolti collegialmente da tre maestre, una per ogni
sezione, e non dalle due maestre della sezione in cui viene accolto il
bambino.
Viene da pensare in prima battuta che tale modalità sia necessaria
in quanto i piccoli, oltre alle attività svolte nella propria aula
con le due maestre di riferimento, vivono momenti di intersezione, come
il riposo, il pasto, il gioco libero in cortile ed altri ancora. Pertanto
conoscere i genitori è interesse di tutte le maestre.
Ma perché conoscere i genitori prima del bambino o della bambina?
Spesso mi sono fatta questa domanda e la risposta è stata sempre
in termini pratici ovvero per avere una serie di informazioni affinché
l'inserimento dei bambini e delle bambine nuove nel contesto scolastico
sia agevolato.
Dentro a questa pratica c'è qualcosa di più e l'ho sentito
quando ho partecipato al colloquio della scuola "Rodari" come
mamma. In una posizione per così dire mezza dentro e mezza fuori.
L'attenzione non era tanto rivolta al conoscere il bambino, ma a ciò
che io andavo dicendo del mio bambino. Da un lato lo sguardo era alla
relazione tra madre e figlio come qualcosa di privilegiato, dall'altro
si avvertiva quanto la parola della madre fosse per le maestre essenziale.
Come dice Letizia Bianchi, a proposito della figura della zia che qui
paragono a quella della maestra, ella è colei che ti vuole bene
perché vuole bene a tua madre, nel senso che ha profondo interesse
per lei.(9)
Non si può, infatti, pensare al bambino senza
considerare che la sua storia comincia dalla relazione con la madre, buona
o cattiva che essa sia.
La madre, colei che ha gratuitamente messo al mondo quel bambino e quella
bambina, entra così simbolicamente nella scuola.
La libertà di relazione al centro dell'apprendimento
L'aspetto
centrale dell'apprendimento è la relazione: la soggettività
di chi impara e di chi insegna non è un aspetto marginale, secondario,
ma è quello fondamentale, che nessun modello standardizzato potrà
eliminare o mettere da parte. D'altra parte basta che ognuno pensi alla
propria esperienza scolastica: io ho imparato dagli insegnanti con cui
avevo un buon rapporto....potevano usare quel metodo o quell'altro. Ma
tutte queste cose erano secondarie rispetto alla qualità della
relazione, che era una qualità unica, non standardizzabile. (10)
Parto dalla citazione per focalizzare meglio i seguenti
aspetti.
Mi ha colpita piacevolmente ciò che è avvenuto quando, ad
inizio d'anno, date le numerose iscrizioni è stato necessario dividere
una delle sezioni in due. Le due maestre si sono divise, una ha seguito
una parte del gruppo e l'altra ha seguito l'altra parte, per garantire
ai bambini almeno la continuità relazionale con una maestra.
Questo è a dir poco straordinario e ciò lo verifichiamo
soprattutto quando assistiamo, anche in altri ordini di scuola, al rinnovo
completo all'inizio d'anno scolastico degli insegnati.
Piccoli gesti che hanno sapore di buono, come le torte cucinate dalle
mamme alla festa di fine anno, organizzata fuori dall'orario di scuola
per non aver vincoli sulla tipologia dei cibi da portare.
In questa come in altre occasioni le maestre hanno trovato una soluzione
per non essere per così dire "serve della legge", ma
"al di sopra della legge... non contro la legge" (11).
Sono gesti di libertà, non tanto per gestire
la scuola secondo regole proprie, ma con la finalità di permettere
alle azioni di essere portatrici di un senso, quello della cura delle
relazioni, nel quale ci si muove con agio e in fedeltà a sé
stesse.
Stare in un orizzonte di senso così umano, così libero,
rende anche un banale elenco dei bambini e delle bambine della classe,
con a fianco i relativi numeri di telefono, la legittimazione ad intessere
relazioni tra mamme fuori dalla scuola, ma attraverso la mediazione simbolica
delle maestre, che sono innanzitutto delle donne.
I bambini si telefonavano e chiedevano alle mamme, dato che sono quasi
esclusivamente loro a tenere i legami con la scuola e con le altre mamme,
di organizzare gli incontri. Loro si ritrovavano fuori dalla scuola e
le mamme a poco a poco si conoscevano.
Si creavano luoghi dove, nel riferirsi l'una all'altra, si creava scambio
di esperienze, di sentire, di aiuto, di desideri.
La rete di amicizia è risultata così forte da riuscire a
sostenere una situazione famigliare difficile. Si è condivisa almeno
un po' la pena di una separazione famigliare.
Le maestre si sono ritrovate così con mamme, ma anche con papà,
molto collaborativi ed attenti. Ogni richiesta scolastica trovava attenzione
e soddisfazione.
Le riunioni erano gremite di genitori e spesso venivano organizzate di
sera in casa di qualcuno, ad attestare il ritorno nel luogo in cui per
secoli le donne hanno agito la propria sapienza.
Partire da questo luogo (interno) per significare il mondo ed anche la
scuola. Non ci sono le maestre che sanno e le mamme che non sanno. La
sapienza femminile della cura delle relazioni è condivisa.
La ricaduta per le maestre è risultata quella di trovarsi un gruppo
di bambini e bambine bravi, attenti a scuola, motivati ed interessati
alle proposte didattiche, fortemente legati da amicizia.
La soggettività di queste maestre è entrata nella scuola,
esse hanno fatto (e fanno tuttora) dono di sé interamente.
Ciò che concretizza la qualità in questa scuola non sono
tanto le innovazioni didattiche, pur evidenti, ma l'attenzione e la cura
alle relazioni umane.
Ascoltare il proprio desiderio (senza scissione) ha consentito di espandere
il proprio essere maestra rispetto alla professionalità codificata.
Un simbolico femminile si è esplicitato , senza che fosse nominato
come tale. Merita se ne scriva perché non si perda nel silenzio.
Note:
(1)Annarosa Buttarelli , "
Quando il linguaggio fa male" , Bambini, settembre 2001, pp. 43-45.
(2) Merita interesse per un
maggior approfondimento della relazione di cura il saggio: a cura di Ipazia
(autrici varie) Due per sapere due per guarire, Quaderni di via Dogana,
Libreria delle donne di Milano, 1997. In esso viene focalizzata la relazione
di cura in ambito medico ove si mostra come la relazione umana e viva
tra medico e paziente, fa incontrare il sapere dell'uno con quello dell'altro,
senza contrapporre la relazione umana alla scienza, ma connettendola proprio
perché c'è bisogno di un sapere scientifico e professionale
più ampio capace di accogliere anche il sapere del malato.
(3) Cristina Palmieri, La cura
educativa, Franco Angeli, Milano 2000, p. 152.
(4) Idem, p. 153.
(5) Per avere uno sguardo più
ampio del sapere che nasce dall'esperienza si rimanda al seguente testo:
Anna Maria Piussi e Letizia Bianchi (a cura di), Sapere di sapere, donne
in educazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1995
(6) Idem nota n.2, p. 139.
(7) Anna Maria Piussi, "
Il sapore del vivo", Bambini, novembre 2001, pp. 22-25.
(8) Lia Cigarini, La politica
del desiderio, Pratiche , Parma 1995, p. 148.
(9) Letizia Bianchi, Generare
o non generare. Cosa ne pensa la zia, in Annarosa Buttarelli, Luisa Muraro,
Liliana Rampello, (a cura di), Duemilauna. Donne che cambiano l'Italia,
Pratiche, Milano 2000, pp. 91-96.
(10) Guido Armellini; "Il
povero gelsomino", Una Città, marzo, 1999
(11) Margherita Porete, Lo
specchio delle anime semplici, Sellerio, Palermo, 1995, p. 184.
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