Libreria delle donne di Milano

da "Lo straniero" - marzo 2003

"Il cinema e la scrittura sono i miei strumenti di resistenza"
Incontro con Liana Badr, scrittrice e cineasta palestinese
di Maria Nadotti


Il suo film più recente, un corto di trentanove minuti premiato di recente alla XXIV edizione degli "Incontri Internazionali di cinema e donne" di Firenze, si intitola The Green Bird, l’uccellino verde, e racconta la vita di tutti i giorni in Cisgiordania dal punto di vista dei bambini. "Volevo capire e mostrare come si riorganizza la vita dei più piccoli in una situazione in cui la parola normalità non ha più alcun senso, in cui anche i gesti più quotidiani e semplici - giocare, andare a scuola, correre in una strada, persino dormire nel proprio letto - sono attività ad alto rischio".

La passione per il cinema, che Liana Badr ha coltivato prima come spettatrice e poi, a partire dal ’94, come filmmaker autodidatta, completa la biografia professionale di una donna conosciuta in tutto il mondo arabo e in numerosi paesi occidentali per i suoi romanzi, le sue novelle, i suoi racconti per bambini e per una bella biografia della poeta palestinese Fadwa Toquan, The Shadow of the Spoken Words, (più tardi adattata e portata sul grande schermo dalla stessa autrice con il titolo Fadwa, a Tale of a Palestinian Poetess, 1999).

"Al cinema ci sono arrivata tardi", mi spiega Badr, incontrata a Firenze nel mese di ottobre. "Ero appena rientrata in Palestina, dopo ventisette anni di esilio in diversi paesi del Medioriente - Giordania, Libano, Tunisia, Siria. Nel ’67, poco prima della guerra dei sei giorni, mi trovavo con la mia famiglia ad Amman per una breve vacanza. L’esplosione del conflitto ci impedì di rientrare e da allora sono stata costretta a rimanere lontana dalla mia terra. Se nel ’94 sono riuscita a tornare, unica della mia famiglia, è stato grazie agli accordi di Oslo. Siglati da pochi mesi, quegli accordi lasciavano intravedere una speranza di pace e qualche promessa di soluzione dei nostri problemi più gravi. L’idea era che ci fosse finalmente consentito di dedicare tutte le nostre energie alla costruzione di uno stato palestinese e delle infrastrutture, strutture, istituzioni necessarie a farlo funzionare.

A me fu subito chiaro che una delle nostre prime necessità, dopo tutti quegli anni di conflitto, distruzione, occupazione, era riprendere il controllo sulla nostra immagine, sì proprio sull’immagine che avevamo di noi, sulla nostra vita, su chi eravamo diventati, sulla nostra identità e sulle nostre contraddizioni. Il cinema, ancor più della scrittura, mi sembrò in quel momento lo strumento migliore per ricominciare a guardare noi stessi e a "vederci" e "farci vedere" fuori dalla dicotomia noi/loro, amici/nemici. I lunghi anni della prima Intifada ci avevano da un lato consentito di tenere testa alla prepotenza israeliana, ma dall’altro avevano voluto dire una sospensione assoluta della vita normale, un impoverimento non solo materiale, una riduzione ad una sorta di assoluto presente. Un’intera generazione non aveva avuto modo di frequentare la scuola, di studiare, viaggiare, guardarsi intorno. Si trattava di ricostituire un intero tessuto culturale e umano, di ridare importanza alle parole, al pensiero, alle immagini. Fu allora che presi in mano la mia prima Betacam e mi misi a documentare la realtà in cui ero immersa".

In quegli anni Badr svolge intensa attività sociale. Con altre donne fonda il "Creative Women Forum" di Gerico, uno spazio destinato a incoraggiare e sostenere le ambizioni creative delle donne. "Per decenni", scrive Badr nella carta degli intenti dell’organizzazione, "l’occupazione e le strutture patriarcali della società hanno impedito l’auto-espressione e la creatività delle donne. Noi - romanziere, poete e artiste palestinesi - intendiamo far crescere la consapevolezza del potenziale creativo delle donne e promuovere le opere delle artiste e delle scrittrici palestinesi". Oggi questo impegno si è tradotto in un ruolo ufficiale all’interno del Ministero della Cultura dell’Autorità nazionale palestinese, dove Badr dirige il Dipartimento delle Arti.

"La mia famiglia è originaria di Gerusalemme. In quella città io ci sono nata e cresciuta, ma oggi non mi è consentito neppure andarci a fare una passeggiata. Vivo e lavoro a Ramallah, ma sarebbe più giusto dire che io, come molti altri, in quella città sono prigioniera. E pensare che la Gerusalemme della mia infanzia e della mia adolescenza era una città moderna e vivacissima. C’erano cinema dappertutto. Le persone che, come me, oggi hanno cinquant’anni sono cresciute esattamente come i nostri coetanei di tanti altri paesi del mondo, guardando film europei e statunitensi, innamorandosi degli stessi attori e attrici, fondando fan club in cui ci si scopriva più sensibili al fascino di Sofia Loren che a quello delle dive egiziane.

Dopo Oslo, quando sono finalmente riuscita a tornare nella mia terra, ho trovato una Palestina irriconoscibile: non solo non c’erano più centri culturali e sale cinematografiche, non c’erano più neanche proiettori. E sì che noi siamo cresciuti sentendoci parte del mondo. La nostra eredità culturale non era diversa dalla vostra. Io, per esempio, grazie al cinema italiano, ero innamorata di Napoli, come se la conoscessi di persona. All’epoca non c’era alcuna censura e avevamo davvero accesso al meglio della produzione culturale e artistica internazionale. Se censura c’era, era la censura familiare, che magari tentava di vietarci un film con Brigitte Bardot, ma credo che questo abbia riguardato la nostra generazione in ogni parte del mondo. Quando ero una ragazzina la Orient House di Gerusalemme offriva concerti meravigliosi di musica del mondo, dal tango al cha cha cha.

Vedi, io sono sempre stata convinta che le immagini siano un patrimonio comune, che crea appartenenza al di là dei confini geografici, politici e culturali. Al mio ritorno, subito dopo Oslo, scopro che in Palestina non esiste più un solo cinema e che la televisione trasmette 24 ore su 24 programmi israeliani (con un’eccezione di mezz’ora al giorno in lingua araba e di un film arabo ogni venerdì) o, in alternativa, programmi giordani. Il Ministero della cultura non ha un proprio budget e, del resto, né i paesi europei né le tante organizzazioni non governative impegnate in Medioriente sembrano capire l’importanza che aveva per noi la ripresa di un discorso culturale e artistico autonomo. E così ci siamo dovuti muovere da soli. Credo che mi sarà difficile dimenticare che in quei primi tempi, ogni volta che chiedevo a un potenziale sponsor internazionale di finanziarci l’acquisto di strumentazioni per la visione di film, mi sentivo rispondere che le vere urgenze del nostro paese erano altre, che c’erano delle ‘priorità’, ad esempio il problema dell’acqua. A poco a poco, grazie all’aiuto dei francesi e dell’UNESCO, sono riuscita a procurarmi due videoproiettori da 35 mm., uno in Cisgiordania e uno a Gaza, dispositivi ‘itineranti’ che trasportavamo da una città all’altra. Adesso la situazione è infinitamente migliorata: a Ramallah abbiamo rassegne di film francesi, tunisini, giapponesi, cinesi. Per lo più vediamo pellicole in 16 mm. o video, ma è meglio di niente e il nostro pubblico è affamato di mondo".

Anche come cineasta, almeno inizialmente, Badr si scontra contro una sorta di ottusità politica. "Mi è stato difficile, nei primi tempi, ottenere anche piccoli finanziamenti per i miei film. Non ero abbastanza esotica e non ero disposta a fare i film ‘palestinesi’ che piacciono tanto agli europei, vale a dire l’ennesima pellicola schiacciata sulla ‘questione palestinese’. In genere la nostra cinematografia parla di politica e non abbastanza di cultura. È per questa ragione che oggi, come funzionaria del Ministero della cultura, cerco di sponsorizzare quanto più posso i progetti creativi delle donne che si misurano con tematiche femministe e non solo con problematiche sociali. Diciamo che di film su Hanan Ashrawi ne abbiamo avuti a sufficienza, mentre non altrettanto si può dire per le vite e le storie comuni di tante donne palestinesi".

Va in questa direzione la scelta di Badr di realizzare prima Fadwa, a Tale of a Palestinian Poetess (Fadwa, storia di una poetessa palestinese, 1999), quindi Zetounat (L’ulivo, 2000) e da ultimo The Green Bird: testi filmici costruiti su storie personali, sulla specifica difficoltà delle donne e dei bambini a sopravvivere nei Territori occupati, sulla devastazione ambientale, sullo spreco di vita e di felicità. "Nei miei film, come nei miei racconti, cerco di non lasciarmi limitare dal copione terribile del conflitto e dell’occupazione israeliana. Negli ultimi tempi, ad esempio, ho scritto la sceneggiatura di un film che è stato presentato alla ‘Settimana della critica’ dell’ultimo festival di Cannes, Rana’s Wedding. Il film, diretto da Hani Abu Assad, racconta di un conflitto interno alla nostra società. Si tratta di una commedia piena di humour che, raccontando ciò che succede nelle sei ore che separano Rana dal suo matrimonio, denuncia con leggerezza le tensioni intergenerazionali che lacerano il nostro mondo pubblico e privato. Ci ho messo molto di autobiografico. Non volevo una storia di vittime e olocausti perché, anche se viviamo in una situazione spaventosa, abbiamo problemi tutti nostri e non ci piace adottare la mentalità della vittimizzazione. Magari siamo e viviamo davvero come vittime, ma lo rifiutiamo, perché non vogliamo che un ghetto ci separi dal resto del mondo. Abbiamo una tradizione raffinata, estremamente ricca e mista tanto sul piano religioso quanto su quello culturale. Storicamente la nostra è un’eredità di mescolanza, di ibridazione. Mio padre aveva l’abitudine di invitare a cena passanti e sconosciuti e io sono cresciuta in un clima di tolleranza e di curiosità, l’esatto opposto della chiusura e del sospetto. La vera distruzione in corso oggi è che Israele ci sta contagiando con la sua mentalità da ghetto".

Spesso nei film e nelle opere letterarie di Badr il centro è occupato da una figura femminile, che porta a una sorta di punto di implosione alcune contraddizioni. "Le donne", spiega la regista, "sono una nuova area nella nostra società, e incarnano nuovi valori che di frequente si scontrano con le vecchie usanze e con la tradizione. In tutti i miei personaggi femminili trovi questi conflitti, a partire da Fadwa cui viene impedito di andare a scuola, ma a cui poi il fratello maggiore insegna a scrivere. La mia esperienza personale? Io ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia liberata: mio padre era un comunista e credeva nella libertà di tutti gli esseri umani, a prescindere dal loro sesso; mia madre, oltre ad essere un’attivista, dirigeva una scuola, una vera eccezione per i suoi tempi. A poco a poco anche la nostra famiglia allargata si è scrollata di dosso i vecchi valori. Mio padre era medico e mia madre era a suo modo una femminista. Sapeva benissimo che la società la considerava una persona di serie B. Tra le donne era una leader, ma veniva considerata inferiore agli uomini. E pensare che in famiglia eravamo cinque sorelle, una vera vergogna per quell’epoca! Comunque mia madre ci ha sempre fatto sentire che valevamo più dei maschi.

Su questo punto il conflitto sociale in Palestina è ancora assai forte. Tuttora ho problemi di ordine sociale con i miei colleghi. È difficile farmi accettare come superiore dagli uomini, perché sono pieni di risentimento e rifiutano la mia autorità. Io non credo affatto di dover dedicare le mie energie a questa lotta sotterranea con gli uomini. Che mi vogliano o no, io sto al mio posto e non cadrò nella logica del conflitto perpetuo. Esercito serenamente il mio potere. Il punto di vista del femminismo occidentale per noi non funziona: ho sempre evitato il conflitto politico con gli uomini, lo scontro me lo gioco sul piano professionale. Le donne, ne sono convinta, sono più mature degli uomini. Invece di cadere nelle provocazioni, mi sembra sia più utile fare bene il proprio lavoro e farsi valere così. Io voglio autorità, credo nel potere. Quando lo si ha, è meglio non sprecarlo. Questo ragionamento vale anche nella vita di tutti i giorni e nel privato: faccio ciò in cui credo, che la mia famiglia sia d’accordo o no. La libertà è qualcosa che si conquista, non un regalo che ci viene fatto da qualcuno".

Un’ultima domanda, a cui Badr risponde in modo caustico e lapidario: "La produzione cinematografica palestinese degli ultimi anni ha prodotto numerose opere di grande interesse - oltre ai suoi, penso ai tanti e splendidi film di Rashid Masharawi, a Frontiers of Dreams and Fears di Mai Mashri, a This is not Living di Alia Arasoughly, al recente e geniale Intervento divino di Elia Suleiman. Questi film, che stanno ottenendo un lusinghiero successo di pubblico e di critica un po’ ovunque, Stati Uniti in testa, sono distribuiti in Israele?"

"No, i nostri film non vengono distribuiti in Israele, perché per loro noi non esistiamo. Gli interessiamo solo come forza lavoro o come schiavi. La stupidità dei colonizzatori!"