Pordenonelegge
2012
23 sett. 2012 ore 17.00, Convento di San Francesco
Luisa Muraro
Combattere
senza odiare
Forza
che uccide, forza che pietrifica
Non sono
venuta a fare prediche contro l'odio che è sempre sbagliato ma
quando prende, non ci sono parole, né a fare prediche per l'amore,
troppo facili. Ma a pensare con voi sulle possibilità che abbiamo
di agire efficacemente nella presente situazione, se ci sono, e di non
soccombere al sentimento di un'impotenza definitiva. Efficacemente: che
grazie alla nostra azione qualcosa si muova nella direzione dei nostri
desideri. Che si muova dentro e fuori di noi, dentro a farci sentire che
siamo vivi, fuori a confermarci che il mondo non è destinato al
peggio.
Il titolo completo del mio intervento è, infatti, questo: Come
combattere efficacemente senza farsi avvelenare dall'odio né cedere
al sentimento di un'impotenza definitiva. Non è solo un titolo,
è una questione che si pone a me e che espongo qui domandando aiuto.
Ci hanno
detto: non odiare, ma bisogna pure imparare a non farsi odiare. Perché
ci odiano tanto? È il grido memorabile di una voce femminile che
si è udita risuonare via radio negli Usa dopo il nefando 11 settembre
di undici anni fa. Giusta e sacrosanta domanda, che vale mille analisi
di esperti e pareri di opinionisti. In questi giorni d'ira popolare tra
i fedeli dell'islam per la produzione di un film offensivo verso il Profeta,
ritorna la domanda dell'11 settembre.
Alla domanda
dell'anonima voce femminile voglio rispondere per quello che ne so io.
Gli Usa rischiano di farsi odiare perfino da una come me, un'europea che
conosce e apprezza molte cose della loro civiltà e tante ne ha
in comune, perché, nella maniera più arbitraria, fuori da
ogni trattato internazionale e da ogni accordo ufficiale, contro la volontà
dei suoi abitanti e del suo sindaco, senza obbligo di render conto di
nulla a nessuno in Italia, hanno deciso di aprire un'altra base militare
alle porte della mia città di origine, Vicenza. E ora la stanno
realizzando, calpestando le elementari ragioni della pace e ignorando
gli argomenti di persone oneste che hanno a cuore il bene della loro città.
Odiare può diventare l'ultima risorsa contro il senso d'impotenza
che provoca la strapotenza sorda a ogni appello di pace e di civiltà.
Per non ammalarsi.
Sei mesi
fa ho pubblicato un librino polemico, Dio è violent, nella collana
I sassi della casa editrice Nottetempo, in cui dico, riassumendo: i rapporti
di forza hanno preso il posto della politica, non possiamo più
farci rappresentare, chi ha passione politica agisca in prima persona,
riprendiamoci la libera disponibilità della nostra forza, anche
quella ceduta ai poteri statali con il contratto sociale, serve a noi,
altrimenti ci calpestano.
Il sasso ha fatto effetto, ci sono stati accordi, critiche, commenti e
respingimenti, un po' di tutto. Ascolto, naturalmente, e qualche volta
rispondo. Non ascolto però i discorsi fatti da persone che vedono
le pagliuzze che sporcano il pavimento e non vedono la trave che può
schiantarsi sulle nostre teste. Non ascolto quelli che citano il famoso
gandhi-di-comodo. Non il Gandhi vero, da loro mai meditato per quello
che veramente ha insegnato con le parole e con l'esempio, ma quello facile
e corto da citare che sembra avere parlato per gli amanti dell'ordine
costituito.
Gandhi fu quello che noi chiamiamo uno spirito rivoluzionario e non concepiva
la vita senza un impegno politico costante. Non si è opposto alle
rivolte di chi voleva giustizia, anzi, ma le ha guidate dimostrando in
pratica che la verità detta apertamente e la forza morale ottengono
risultati migliori. Una che ha meditato sulla sua proposta politico-religiosa
è la filosofa Simone Weil. La mente più pura del secolo
ventesimo, la chiamano; io direi: la mente più acuta e lucida,
dotata di spirito profetico. E la meglio disposta ad accogliere il principio
gandhiano dell'insistere con la verità come forma principale dell'azione
efficace. Loro due avevano testi di riferimento in parte comuni: i grandi
testi sacri indiani e il vangelo cristiano. "La non-violenza è
buona solo se è efficace", leggiamo nei Quaderni di Simone
Weil (volume primo, Adelphi, p. 334).
Il libro
da leggere per il tema che c'interessa è il suo Iliade, poema della
forza (Asterios, Trieste 2012), non più di cinquanta pagine che
ci persuadono a non ammirare mai la forza ma a sapere che c'è e
a tener conto del suo dominio, a non odiare mai i nemici ma a combattere
se necessario.
La critica
principale che ho ricevuto per Dio è violent riguarda la mancata
separazione tra forza e violenza ed è una critica che non si può
ignorare, continuo infatti a pensarci, ora qui davanti a voi, con voi.
Mi fermerò
su due punti.
Separare l'uso lecito della forza dalla violenza si può fare con
una certa facilità a tavolino, ma in realtà è difficile
se non impossibile. A volte, farlo può risultare sbagliato. Sto
pensando a quelle persone, individui o popoli che si trovano in una situazione
di svantaggio strutturale quanto all'affermazione di sé e dei propri
sacrosanti bisogni, diritti, desideri. (Ricordiamo che il ridurre tutto
a una questione di diritti, ci facilita il discorso ma lo porta fuori
strada, nell'astrazione!)
E qui cito di solito una frase di Clarice Lispector, grande scrittrice
brasiliana del sec. XX, forse in definitiva la più grande, che
in una lettera alla sorella scrive: "Per adattarmi all'inadattabile,
per vincere le mie ripulse e i miei sogni, mi sono dovuta tagliare gli
artigli" - sta parlando dei suoi anni di matrimonio e continua: "ho
tagliato in me la forza che avrebbe potuto far male agli altri e a me
stessa. E così ho tagliato anche la mia forza" (Lettere scelte,
Archinto, 2008).
Che sia una donna a dirlo, conta. Storicamente, se assumiamo il punto
di vista delle donne, vediamo quanto sia fasulla la separazione tra violenza
da una parte e uso lecito della forza dall'altro, separazione decretata
dalla filosofia politica dei moderati. Perciò in Dio è violent
io dico che tocca alle donne oggi sollevare il tema dei rapporti forza-violenza.
Quelli che si sono seriamente impegnati a fare che la forza non finisca
nella violenza ma sanno che non si deve tagliare le unghie a quelli che
ne hanno bisogno per difendersi, pensiamo a Gandhi e a Martin Luther King,
questi uomini si sono attivati a inventare e diffondere pratiche politiche
che generano forza per combattere la prepotenza dei potenti. E hanno sempre
avuto ben chiaro che la linea che separa la forza dalla violenza, ammesso
che sia possibile tracciarla, non coincide con la legalità. La
legge traccia una linea che ha le sue buone ragioni di essere (se non
è una legge ingiusta), ma che a volte, in certe circostanze, può
essere giusto oltrepassare. Sto dicendo qualcosa che è sempre stato
riconosciuto dal diritto dei popoli. Ma che esige da parte nostra una
rinnovata consapevolezza che possiamo trasgredire, e discernimento nel
farlo. Nella lotta politica ci vuole co-scienza e intelligenza.
Ho sottolineato che è stata una donna a trovare l'immagine giusta,
quella delle unghie-artigli, per sintetizzare il dilemma della forza:
fare del male ad altri o perdere io la forza necessaria? Ora aggiungo
che nella nostra società nessuno ha raccolto così precisamente
l'eredità dei grandi della non violenza che ho citato, come il
movimento delle donne che si è rivoltato contro il dominio sessista
inventando alcune pratiche (separazione, autocoscienza, relazione e fiducia
tra donne) che sono pratiche di trasformazione della rabbia e della subordinazione
in forza interiore e indipendenza personale.
Adesso qui
una femminista, la sottoscritta, viene a dire: nel mondo di oggi la disparità
nei rapporti di forza non fa che crescere e ci espone tutti, in un modo
o nell'altro, alla violenza - dobbiamo dunque ragionare di nuovo e meglio
sull'uso della forza e sulla violenza - e tocca alle donne riaprire questo
discorso. Noi ne sappiamo di più sulla sofferenza di trovarci esposte.
Ne sappiamo di più anche sulla politica che ci sottrae alla violenza
senza riprodurre il suo meccanismo.
Così
ho ragionato nello scrivere Dio è violent e passo al secondo punto.
La mia vi sembrerà come una schivata, una schinca in dialetto veneto,
ma non è un evitamento del problema, anzi. Ma giudicate voi.
A quelli che ritengono doveroso fare una netta distinzione tra forza e
violenza, distinzione che, lo riconosco, non si ritrova nel mio testo,
rispondo: nell'Iliade poema della forza che per molte e molti è
un testo spirituale di meditazione sull'argomento, la distinzione che
voi ritenete doverosa non viene fatta.
L'autrice, Simone Weil, parla anche della violenza, ma ne parla sempre
come di ciò che patisce l'anima della persona che subisce impotente
la forza di un altro. Forza e violenza sono differenti ma vanno insieme
ogni volta che ci troviamo in una condizione di disparità di forze.
Che è la condizione umana più ordinaria dall'infanzia alla
morte, basta pensare alle persone piccole, malate, povere, vecchie
Chi subisce impotente l'esercizio di una forza, in sé anche giusta,
patisce violenza: il bambino separato dalla madre, il ragazzo bocciato
a scuola, il colpevole sentenziato dal giudice.
La disparità delle forze, da condizione inevitabile ma circoscritta,
sta diventando dilagante nel mondo di oggi per il restringersi della possibilità
di agire politicamente e di difendersi dai più forti. Pensiamo
alle ripetute manovre economiche imposte alla popolazione; pensiamo all'umanità
che vive nelle regioni dove si scontrano gli interessi delle grandi potenze.
La forza cui siamo maggiormente esposti in regime di crescente disparità
viene, oggi, dal possesso dei soldi, dal disporre di armi micidiali e
dal controllo dei media, tutte prerogative di una minoranza di persone,
minoranza che si va restringendo, dicono.
Rileggendo il testo sull'Iliade di Weil ho scoperto questo tipo di intreccio
che lei stabilisce tra forza e violenza, e mi sono resa conto dell'effetto
di verità che produce questo fatto di non separarle. Scarica, infatti,
la mente da un carico d'inutile moralismo e di pericolosa ipocrisia davanti
alle cose così come sono, così come vanno. E la mente, alleggerita
da moralismi e ipocrisie, abitata però dall'amore del meglio per
sé e per gli altri, si rivolge alla disparità nei rapporti
di forza, che è la vera ragione della violenza, e può vedere
dove e quali siano le possibilità effettive di agire efficacemente.
Nel pensiero
della Weil, abbiamo visto, la violenza è il versante sofferente
dei rapporti di forza tra esseri viventi. E tutti i viventi vi sono esposti.
"Che tutti siano destinati nascendo a patire violenza, è una
verità", scrive e aggiunge: una verità che però
si tende a ignorare in determinate circostanze. "Il forte non è
mai assolutamente forte, né il debole assolutamente debole, ma
l'uno e l'altro l'ignorano". L'11 settembre del 2001 gli Usa si sono
svegliati alla consapevolezza di questa verità, il più forte
non è mai assolutamente forte, ma hanno fatto di tutto per tornare
a dormire ed è un sonno sempre più agitato.
Quale sarebbe, ci chiediamo noi, la forza del debole? Consiste forse nel
fatto che prima o poi si troverà al posto del forte? No, rispondo,
la sua forza è latente ma già presente, ed è che
può sottrarsi; che può schiodarsi dalla fissazione al rapporto
di forza in cui è perdente; che può spostare la posta in
gioco in un altrove-altrimenti fuori dalla mira della forza dell'altro.
Così hanno fatto le cristiane e i cristiani delle origini all'interno
dell'Impero romano, così hanno fatto i liberi Comuni per sottrarsi
al sistema feudale.
Nell'Iliade
poema della forza troviamo invece una diversa distinzione, tra la forza
sommaria e grossolana che uccide, e un'altra forza che, esercitandosi
nei rapporti tra esseri umani, li lascia vivi ma ha il potere di tramutarli
in cose. Ma "l'anima non è fatta per abitare una cosa"
e si pietrifica. Le anime sono fatte per abitare corpi vivi e i corpi
vivi domandano di vivere in luoghi abitati, posti fuori da minacce poliziesche
e militari.
Il potere che ha la forza di trasformare gli umani in cose non è
a senso unico: si esercita infatti in entrambe le direzioni. La "forza
pietrifica diversamente, ma ugualmente, le anime di quelli che la subiscono
e di quelli che la usano". In effetti noi che viviamo nel regime
della forza che lascia vivi, costatiamo la crescente stupidità
di entrambe le parti, di quelli che dispongono di soldi, armi e media,
come di quelli che ne subiscono il potere.
Con questa tesi e con la distinzione tra forza che uccide e forza che
pietrifica, possiamo disegnare lo stato della civiltà nel mondo
globalizzato.
Il mondo globalizzato si divide tra quelli che sono esposti nudi e crudi,
incolpevoli, spesso ignari del perché e del come, alla forza sommaria
e grossolana che uccide. Chi sono? Un'enorme massa invisibile di vite
che non contano, ma se vogliamo figurarcela, pensiamo a quelle donne afghane
di diverse età che stavano raccogliendo legna e pinoli, come nei
remoti inizi di ogni civiltà pare che le donne abbiano sempre fatto,
la raccolta dei prodotti della natura. Ma queste di cui parlo sono nostre
contemporanee e i nostri eserciti (sommariamente parlando, i dettagli
aggiungono poco niente) le hanno uccise, per errore.
Noi che siamo qui, nella festa del libro che celebra Pordenone, apparteniamo
invece alla massa non anonima, siamo messi dalla parte dove la forza non
uccide ma l'anima si pietrifica sia esercitando la forza, indirettamente,
sia subendola, inconsapevolmente.
Questa divisione costituisce la base del nostro ordine mondiale. È
un ordine dinamico, non si creda, infatti il grande sforzo della civiltà
consiste oggi non nel diventare più liberi e felici, ma nel riuscire
a passare da questa nostra parte, e di non restare là dove una
bomba, una mina o la fame arriva e ammazza chi capita. Gli abitanti della
Serbia, per fare un esempio, erano di là e recentemente sono passati
di qua. Gli abitanti dell'Afghanistan non ci riescono.
Questo "dinamismo" non ha niente a che fare con la politica.
In queste poche parole, detta in negativo, c'è l'idea che fa da
perno al mio pensiero. In positivo: ritroviamo la libera disponibilità
della nostra forza per creare un minimo di equilibrio nei rapporti di
forza, altrimenti ci ritroviamo ciecamente sottoposti al dominio di una
forza impersonale, sue vittime e suoi burattini.
Il movimento No Dal Molin mi ha fatto prendere coscienza di quello che
sta capitando. Ho visto la mobilitazione pacifica di una città
che democraticamente ha espresso le sue ragioni di contrarietà
alla base militare, e voleva spiegarle ai politici responsabili ma quando
ha bussato alla porta, non rispondeva nessuno e allora ha spinto per entrare,
ma ecco la scoperta: dentro al palazzo della politica non c'era nessuno.
Poi sono venute altre cose, in primis la crisi dei mercati finanziari,
che hanno ampiamente confermato questa scoperta. Dentro al palazzo della
politica non c'è nessuno.
È
venuto il tempo di tirare qualche conseguenza.
Il problema maggiore che abbiamo, ripeto, è la crescente disparità
nei rapporti di forza. Lo stato d'impotenza in cui ci troviamo, può
renderci stupidi nel senso che ci impedisce di leggere la realtà
e di esprimere dei giudizi sensati anche su cose che ci riguardano da
vicino. Crediamo di fare politica con la contrapposizione come se ci fosse
un avversario, un campo di battaglia, uno stendardo o un palazzo d'inverno
da conquistare.
Quelli che sono diventati consapevoli che non c'è un avversario
da affrontare sul campo di battaglia della dialettica storica, hanno avanzato
una parola d'ordine alternativa: resistere.
Io mi azzardo ad andare oltre, perché penso, detto molto semplicemente,
che esiste un potere più grande di quello che a noi si mostra e
su di noi si esercita, principalmente, con i soldi, le armi e i media.
È il potere che hanno le cose stesse per essere quello che sono,
è il potere che ha la vita nelle creature viventi per la sua spontanea
volontà di durare e svilupparsi. E che ci comunicano quando riusciamo
a vederle con occhio lucido, a sentirle con simpatia e a significarle
con parole vere.
La parola d'ordine di Gandhi non era la non violenza, era: insistere con
la verità, dirsela e dirla. Questa formula può suonare magica,
certo non è intuitiva al cento per cento, tra lui e noi c'è
una differenza di cultura, che però non è invalicabile:
lui stesso l'ha resa valicabile con un pensiero che si esprime di preferenza
in forma narrativa.
Abbandoniamo la dialettica storica, è il mio invito, dobbiamo farlo
per le mutate circostanze. È vero che la storia non è finita,
come qualcuno ha preteso dopo il crollo della potenza sovietica. La storia
c'è, non ne siamo fuori, ma le sue forme stanno cambiando e noi
non sappiamo precisamente il come perché ci siamo dentro, ma proprio
per questo la nostra presenza, se è consapevole e forte, incide.
Lo sbocciare della rosa è la figura che mi aiuta a pensare questa
situazione. Ridice, in immagine, il potere più grande di quello
che a noi si mostra e su di noi si esercita con i soldi, le armi, i media.
È una figura che appartiene alla grande tradizione mistica, quella
sufi ossia islamica, e quella cristiana e forse altre ancora. Qui la propongo
come una figura dell'agire politico efficace, perciò porto l'accento
non sulla rosa sbocciata che è una rosa una rosa una rosa, da contemplare.
Ma sullo sbocciare, che è manifestazione di una potenza non appariscente
e inesauribile di essere, attraverso lo stelo, la pianta e la terra.
Azione esemplare, dicono alcuni, io direi piuttosto: azione tempestiva,
quand'è il suo momento e sempre penso a quelle maestre di scuola
che, davanti alle assenze causate dallo sgombero del campo rom, si alzarono
e andarono a cercare le loro alunne e alunni, dispersi nella città
per decisione della giunta comunale.
Non inseriamo il nostro o altrui agire dentro un macchinario che, sotto
la nostra guida o la guida di non so quale entità, dovrebbe produrre
cambiamenti storici. Finirà male, il passato sembra dire questo.
Colleghiamolo invece all'energia dell'essere che hanno le cose, energia
positiva quando riusciamo a significarle, anche quelle dolorose. Colleghiamoci
noi stesse, noi stessi, a questa energia, in prima persona, ma anche le
situazioni, i rapporti, le città.
(Luisa Muraro, sett.-ott. 2012 - versione definitiva, aggiustata per il
sito Libreria delle donne ma fedele alla versione presentata a Pordenone)
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